Le ultime drammatiche notizie provenienti dalla Libia su nuove vittime civili causate dai bombardamenti della NATO, (probabilmente non le uniche, vista l’intensità dei raid aerei dell’Alleanza e le denunce fatte in precedenza da alte personalità religiose locali) riportano all’attenzione della pubblica opinione la natura stretta dell’operazione militare internazionale ora denominata “Unified Protector” e lanciata a suo tempo con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi. Questa è una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime, e per ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO. Ancora una volta – come in Afghanistan – ci viene poi detto che è in gioco la credibilità ed il futuro della NATO, alleanza alla ricerca costante di una nuova ragione di esistere. In questo contesto, le vittime prime continuano ad essere il diritto internazionale e quelle popolazioni civili supposte beneficiarie dell’intervento, e che oggi si trovano intrappolate in un fuoco incrociato, tra bombe umanitarie, operazioni militari sul terreno, e crimini di guerra commessi da tutte le parti in conflitto. Questi elementi, assieme alla querelle tutta interna alla maggioranza sulla continuazione della missione in Libia , e l’annuncio dato nelle scorse ore da Berlusconi circa la decisione di porre termine alla partecipazione italiana alle operazioni a settembre, ci devono impegnare ad una più forte iniziativa di pace. Soprattutto in una fase nella quale opinione pubblica ed i media sembrano aver rimosso la guerra. Obiettivo principale dovrà essere quello di rilanciare una soluzione pacifica e diplomatica al conflitto, in sostegno ad una transizione pacifica verso la democrazia in Libia, anche sulla scia di quanto approvato nel documento dell’ultima Assemblea nazionale di SEL. Le operazioni militari sul campo ormai sono in un’impasse, un braccio di ferro nel quale la NATO spera di fiaccare definitivamente le truppe “lealiste” per poi costringerle a forza di defezioni , alla resa negoziata. Nelle condizioni attuali non sarà possible neanche lontanamente immaginare una tale soluzione. Anzi quanto più le ostilità si protrarranno, tanto più impraticabile diverrà quest’ ipotesi. Sarà perciò urgente attivarsi ad ogni livello per un cessate il fuoco immediato e la sospensione delle operazioni militari, proponendo un processo di mediazione internazionale gestito e coordinato da governi e organizzazioni “terze” che non hanno avuto alcun ruolo nel conflitto in corso, e l’invio di una forza di interposizione ONU a tutela dei civili e del cessate il fuoco, composta da paesi che non hanno partecipato alle operazioni militari. Di recente l’International Crisis Group, che già a suo tempo aveva stigmatizzato la decisione della comunità internazionale di imporre una “no fly zone” evidenziandone i rischi e le contraddizioni, ha rilanciato una proposta di mediazione e soluzione politica, che possa creare le giuste premesse per un futuro di pace e libertà in Libia (http://www.crisisgroup.org/en/regions/middle-east-north-africa/north-africa/libya/107-popular-protest-in-north-africa-and-the-middle-east-v-making-sense-of-libya.aspx) . Tra le proposte quella di sostenere un processo di transizione democratica negoziata tra i ribelli ed il regime, grazie all’intermediazione di soggetti non coinvolti nel conflitto. Certamente, e come riaffermato dalla think-tank, le dichiarazioni fatte nell’ultimo vertice del G8 di Deauville (“Gheddafi se ne deve andare”) sembrano chiudere ogni ipotesi di trattativa che possa prevedere un possibile esilio di Gheddafi. Qualche tempo prima il Procuratore Generale della Corte Penale Internazionale Moreno Ocampo aveva spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi , che a questo punto non ha altra alternativa che quella di vendere cara la pelle. A meno che l’abbandono della scena da parte di Gheddafi venga considerato non come condizione necessaria per l’avvio del processo di transizione democratica, ma la sua conseguenza. Proprio su questo punto si è arenata la recente missione di mediazione russa a Tripoli, mentre la Cina ha deciso pragmaticamente di cambiare rotta aprendo un canale diretto con il governo provvisorio di Bengasi. Più in generale, ed anche in vista della necessaria elaborazione programmatica di SEL e dell’interlocuzione con le forze del centrosinistra e della sinistra diffusa e sociale, sarà necessario comprendere a fondo le sfide politiche e intellettuali che questo intervento militare in Libia propone. La risoluzione 1973 marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite. E’ la prima volta - infatti - che viene messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati Su questo punto andrà fatta chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità. In linea di principio può essere condiviso il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di attivarsi qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani. Con altrettanta fermezza però va affermato che il principio della R2P può essere accettato solo se non utilizzato in maniera selettiva, assicurandone la gestione e l’attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e laddove la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Il problema vero è quando sulla scorta di un principio, condivisibile sulla carta, si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che creano pericolosi precedenti per giustificare la guerra. La genesi e lo svolgimento della guerra in Libia ne sono la riprova, visto che fin dall’inizio si decise di dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, (che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza attraverso il diritto di veto), rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Per dare un senso compiuto al principio della “non indifferenza” o meglio della “responsabilità” , e sgombrare il campo da ogni applicazione opportunistica dettata solo da interessi geopolitici, andrà pertanto riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. L’Assemblea Generale dovrà avere un ruolo centrale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P che dovranno essere tolti alla competenza del Consiglio di Sicurezza. Andranno poi creati strumenti d’interposizione ed intervento a difesa dei civili sotto comando delle Nazioni Unite e non subappaltati alla NATO. Inoltre sarà necessario sviluppare politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Quegli stessi che oggi muoiono sotto le bombe della NATO o quelle delle truppe “lealiste”, a Tripoli come a Misurata.