Sono appena rientrato da due giorni intensi, prima a
Ferrara, dietro le quinte del Festival di Internazionale, per condividere
riflessioni e proposte di lavoro sul tema della criminalizzazione della
solidarietà assieme a Medici senza Frontiere. E prima, incontrato i miei amici
di Survival International, ed il loro “ospite”, un rappresentante di una comunità
tribale indiana, minacciata, guarda caso, da progetti di conservazione della
natura. Ho osservato con silenzio, cercato di capire cosa si stesse muovendo in
quella città quei giorni. Uno scambio fertile di idee, di storie, di
iniziative, da quelle ahimè inaccessibili per me arrivato all’ultimo momento,
avrei ascoltato assai volentieri Erri de Luca ad esempio. Non tanto Varoufakis
che tanto so già che dirà.
La soluzione di ripiego non è stata meno intensa.
Nei sotterranei del castello Estense era in programma un documentario sulle
migranti latinoamericane negli States, e la violenza sessuale. Vado
incuriosito, immagino di vedere un documentario, ed invece gli schermi neri,
riportavano solo la traduzione del sonoro. Una sorta di audiodocumentario, con
le voci spezzate delle donne violate, la voce narrante che offre informazioni
di contesto. La scelta di non dar volto, per far sì che quelle storie non restino
ancorate a persone specifiche ma raccontino la violenza e l’abuso cui sono sottoposte
le donne, latinoamericane, in questo caso, (e non solo oltrefrontiera) ma non
solo. Dietro le quinte del potere e
della violenza di sistema. Donne che vengono violate nei corridoi del potere,
negli anfratti, una violenza che si insinua nei luoghi nascosti. E in un luogo
nascosto, un sotterraneo, viene raccontata.
Ho sempre amato seguire gli eventi
che fossero Forum Sociali, o incontri del tipo di quello di Ferrara seguendo le
sottotracce, cercando di immaginare un codice narrativo che non fosse
necessariamente quello proposto dal programma “ufficiale”. Per me ultimo
arrivato, non avvezzo all’evento, resta certo il rimpianto di non aver
ascoltato Angela Davis, o altre star. Ma resta solo tale, un rimpianto che
potrò superare facilmente. Invece è interessante esplorare il dietro le quinte.
Ero molto incuriosito di ascoltare Amitav Gosh, intervistato da una grande
giornalista ed amica di decenni, Marina Forti, ed invece sono rimasto fuori.
Anche lì seppur fuori dal “pubblico” dalla “platea”, ad ascoltare parole
importanti, senza che alle parole corrispondesse un volto. Ero solo, chi non è
riuscito ad entrare se n’era andato, confondendo lo stare in platea con l’ascoltare.
Tant’èm Gosh ci ha regalato, mi ha
regalato, seppur attraverso un altoparlante collocato fuori in cortile, parole
importanti, giustizia climatica, migrazioni, decolonialità. Ci ha ricordato che
i migranti nono sono vittime ma soggetti che si imbarcano con coraggio in un
percorso migratorio, ed il paradosso della tecnologia moderna che estrae valore
dalla terra, produce effetto serra, ed allo stesso tempo innesca in chi decide
di lasciare il proprio paese una crisi del “desiderio”. Regala immagini
artefatte di una realtà ambita e che in fin dei conti li tratterà come uomini e
donne di scarto. Di questo ho sentito parlare nelle sottotracce, nei luoghi
senza volto, o nei sotterranei dell’evento principale.
Con MSF abbiamo discusso
di come oggi chi soccorre esseri umani viene considerato un criminale, un’altra
vita di scarto, tra legalità e legittimità di atti di disobbedienza. Judith
Butler le chiama “disposable lives”, vite che possono essere scartate, usa e
getta. Vite i cui diritti sono considerati scarto dalla realpolitik, dagli
interessi geopolitici e strategici. Lo dice assai bene Naomi Klein nel suo
intervento al congresso del Labour Party pubblicato oggi da Il Manifesto, la
chiama “gig-economy” (che tratta gli esseri umani come fonti di ricchezza da
esaurire per poi scartarli) e la connette giustamente alla “dig-economy quella
che trivella, estrae combustibili fossili, e altera gli equilibri climatici. Nè
più e né meno quel che ci diceva Amitav Gosh che si interroga sul perché il “climate
change” non è un tema trattato da chi scrive e fa cultura. E resto convinto che
sia in questi sottotraccia che si costruiscono le fondamenta della politica, e
dell’impegno. Nel lavoro paziente, difficile, silenzioso di chi quotidianamente
opera per i diritti umani, nello sforzo di comprendere, articolare, offrire una
contronarrazione, a quella che vuole vederci ossessionati dalla paura dell’altro,
dalla prevalenza del nostro interesse rispetto alla dignità delle persone.
Questo il sottotraccia del workshop di Amnesty International al quale ho
partecipato con il piacere e l’emozione di trovarmi a casa mia (il prossimo
anno segnerà un trentennale, quello del mio inizio del percorso di attivismo
che mi ha portato qua dove sono, tra Greenpeace ed Amnesty International
appunto). Persone, esseri umani, che
mettono a disposizione il loro tempo e le loro energie migliori.
Non posso non
riflettere su un punto. E l’ispirazione me l’ha data un denso articolo che sto
leggendo su La Linea del Fuego, un sito di politica e cultura latinoamericana, ed
in particolare dell’Ecuador. L’articolo riguarda la teatralità del potere e
della politica. La messa in scena, la spettacolarità della politica. Dice “ un
progetto condannato al fallimento consiste nel montare una messa in scena, con
la plasticità e forza sufficiente non solo per convincere ma anche per illudere
gli spettatori”. Ed ho pensato alla noiosa e scontata pletora di dichiarazioni
controdichiarazioni, passi avanti , passi indietro, teatri, assemblee, palchi e
contropalchi, platee, pubblico, interviste, ritorni in scena, feste e
iniziative che si susseguono nei mille rivoli di quella che ci si ostina a
chiamare sinistra. Ed a pelle continuo a sentire uno scarto insopportabile, tra
il mondo del sottotraccia, quella linfa vitale di resistenza e “ribellione”, orfana
di rappresentanza, o forse ormai convinta di non averne bisogno , e la buccia
esterna del dibattito politico. Spettacolare, anche se dice di non esserlo. O
forse “immagine senza sostanza”, “imago sine re”.