articolo scritto per Mosaico di Pace
Marzo 2010
Nel 2004 fece scalpore la pubblicazione da parte del Pentagono di un rapporto sui mutamenti climatici. Si pensò che se anche il Pentagono decideva di prender posizione allora la situazione era davvero seria, ma non si cercò di comprendere cosa ci fosse dietro quella novità, né di svolgere un’analisi compiuta del nesso esistente tra modelli di sicurezza e tematiche ambientali e della sostenibilità . Nel 2007, il Regno Unito promosse un inedito dibattito sul clima nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, duramente criticato dai paesi in via di sviluppo che non accettavano l’idea di una discussione di tale importanza in un consesso dove la maggior parte dei paesi “inquinatori” tuttora detengono il potere di veto. Da allora il tema è diventato oggetto di nuove elaborazioni e proposte che hanno contribuito a costruire un approccio che oggi si definisce “environmental” o “sustainable security”, e che marca l’entrata in campo dell’apparato militare e dei centri di studi strategici in questioni relative all’urgenza di un mutamento di paradigma di sviluppo.
Si calcola che almeno 1/5 delle guerre nel pianeta abbiano a che fare con le risorse naturali e con l'ambiente. Secondo il rapporto “Sustainable Security for the XXI Century” dell'Oxford Research Group, i mutamenti climatici sono, assieme alla competizione su risorse naturali e strategiche scarse, una delle cause di futuri confitti, insieme alla corsa agli armamenti nucleari e la marginalità sociale causata dalle politiche neoliberiste. Anche il percorso di elaborazione verso la conferenza sul clima di Copenhagen ha visto delle partecipazioni inedite, con generali in pensione, scienziati ed analisti, riuniti nel Military Advisory Council, che si sono interrogati sul possibile impatto del clima sulle nuove guerre dal punto di vista strategico e di riconfigurazione delle dottrine di sicurezza. Si calcola che i mutamenti climatici potrebbero causate conflitti violenti in almeno 46 paesi , impattando su una popolazione di 2,7 miliardi di persone. A fronte del fallimento della Conferenza di Copenhagen, il quadro relativo quadro alle prospettive ecologiche globali continua ad essere allarmante. Il dramma dei rifugiati ambientali rischia di raggiungere dimensioni catastrofiche, non solo nei paesi insulari (si pensi solo a Tuvalu, Comore, Maldive, ed altri stati minacciati nella loro stessa esistenza, ma anche in zone caratterizzate dalla scarsità di risorse essenziali quali terra, acqua e cibo, esacerando conflitti latenti o causandone di nuovi. A fronte di questo enorme debito ecologico già accumulato risalta la quasi inesistente volontà politica dei paesi del Nord globale di sganciare il loro modello produttivo ed economico dai combustibili fossili, o da soluzioni rischiose quali gli agrocombustibili. In questo quadro risulterà ineludibile affrontare il tema del clima e dell'energia dal punto di vista dell'equità e della sicurezza, elaborando un approccio che possa contrapporsi e disinnescare quello che intende la sicurezza attraverso la lente del controllo militare delle fonti di approvvigionamento scarse o a rischio. Questa è la filosofia di fondo perseguita dalla NATO che riprendendo una delle "mission" approvate in seguito alla revisione del suo concetto strategico fatta a Washington nel 1999, ipotizza addirittura l'uso delle sue forze di intervento rapido per assicurare la continuità dell 'approvvigionamento energetico. Armi e soldati verrebbero inviati a vigilare sulle rotte di petroliere, o per proteggere gasdotti o oleodotti. E non è un caso che l’ex-presidente esecutivo della Shell sia oggi - assieme a Madeleine Albright - a capo del gruppo di lavoro attualmente incaricato dell’ulteriore revisione del concetto strategico della NATO. Come non è un caso che un altro ex - presidente della Shell e poi consulente della CIA era tra gli autori del rapporto del Pentagono del 2004. Le guerre per il petrolio hanno un altro lato oscuro, quello derivante dagli effetti devastanti delle operazioni di estrazione di petrolio o altri combustibili fossili che acuiscono conflitti già latenti in aree socialmente fragili quali il Delta del Niger, o in Darfur. Quest’ultimo, che la vulgata interventista vorrebbe poter definire un genocidio, è stato invece definito dalle Nazioni Unite il primo conflitto causato dai mutamenti climatici e ciò a conferma della complessità del problema e dell’inutilità di ricorrere a definizioni che rischiano di aprire la strada a false soluzioni. La vera causa del conflitto in Darfur è la competizione su risorse scarse, (terra ed acqua) tra popolazioni nomadi e stanziali, messe a dura prova dalla desertificazione causata dai mutamenti climatici. Il paradosso è che quelle popolazioni risentono doppiamente della dipendenza dai combustibili fossili che caratterizza il modello di sviluppo dominante. Da una parte soffrono una guerra causata dalle rivendicazioni delle zone di periferia ad un equo accesso alle royalties derivanti dal petrolio estratto da imprese multinazionali, e dalle ricadute socio-ambientali dell'estrazione del petrolio, e della sua combustione attraverso i mutamenti climatici. Esiste quindi un grande paradosso, che si ripete altrove in Africa, laddove le mire di controllo strategico di imprese transnazionali si intrecciano con quelle delle élite di governo, con l’iniquità nella redistribuzione dei profitti derivanti dall’estrazione del petrolio, e con l’impatto socio-ambientale della stessa. A ciò si aggiunga che pur essendo grande produttore ed esportatore di petrolio, il Sudan vive una grave penuria energetica che verrebbe in parte soddisfatta dal rilancio dell’energia idroelettrica. Questa eventualità introduce nuovo elemento di criticità rappresentato dai movimenti popolari di resistenza generati dallo scontento causato dalla costruzione di due dighe a Nord, percepite dalle popolazioni locali come una minaccia alle loro culture tradizionali. La geopolitica dell’acqua è altro tema chiave nell’analisi del nesso tra risorse naturali e conflitti. Basti ricordare al caso della Palestina, o l’uso strategico delle grandi dighe fatto dal governo Turco per colonizzare e controllare il Kurdistan, con l’esempio evidente della diga di Ilisu. L’elemento interessante in questo contesto riguarda la possibilità che attraverso accordi di uso collettivo e transfrontaliero delle acque si possano costruire progetti di pace e riconciliazione trai popoli. Già nel 2005 il Worldwatch Institute riportava i dati di una ricerca svolta dall'Università dell'Oregon che sfaterebbero in buona parte il mito delle "guerre per l'acqua". Gli ultimi 50 anni avrebbero infatti visto solo 37 conflitti per l'acqua con ricorso alla forza, 30 dei quali tra Israele ed uno dei paesi confinanti. 507 sono stati i casi di confitti politico-diplomatici tra paesi per il controllo o la gestione delle acque, mentre ben 1228 sono gli eventi che hanno portato alla conclusione di accordi di cooperazione. Pertanto piuttosto che essere fattore di guerra o per lo meno concausa nell’aggravarsi di condizioni che poi sfociano in conflitti, l'acqua può essere strumento per la costruzione della pace. Non è però solo nel serbatoio della nostra automobile che si materializza un anello della catena che lega i nostri modelli di sviluppo alla distruzione dell'ambiente ed alla competizione su risorse naturali scarse,ambientale e di attuali o possibili conflitti armati, Anche dentro i circuiti di un cellulare, ad esempio, si nasconde l'ultimo anello di un'economia di guerra, alimentata dall'estrazione illegale di coltan, minerale strategico presente in Congo venduto per acquistare armi con le quali combattere le guerre che insanguinano l'Africa. Sono guerre alimentate dall'estrazione illegale di risorse (che non necessitano, come nel caso del petrolio, di grandi infrastrutture) e dal circolo vizioso che le lega a al commercio illegale di armi, alle attività di signori della guerra e milizie mercenarie.
Acqua, petrolio, mutamenti climatici, competizione su risorse scarse sono gli elementi chiave che permettono di costruire un approccio che metta al centro di ogni soluzione i diritti ambientali e la giustizia ecologica accanto a quella della diplomazia popolare e dal basso, al fine di trasformare anche la cooperazione internazionale in strumento di costruzione attiva della pace. La necessaria rielaborazione del concetto di sicurezza e di prevenzione politica e non-violenta dei conflitti dovrà però proporre strumenti che permettano ad ognuno ed ognuna di comprendere come attraverso i propri stili di vita si contribuisce in negativo o in positivo alla costruzione della pace. In negativo anzitutto, giacché il nostro zaino ecologico, o meglio la nostra impronta ecologica calpesta diritti di altri popoli, toglie loro un po' di acqua, di terra, di legname, di minerali, e si ripercuote doppiamente sulle loro vite. Prima sottraendo risorse e poi restituendole come scarti materiali, liquidi o gassosi, togliendo loro altro cibo, acqua e terra. Le cifre ci parlano quindi di possibili nuove guerre, quelle dei poveri, non solo quelle della NATO, ma quelle dei milioni di diseredati che perderanno le fonti della loro già difficile sussistenza. Saranno guerre sotterranee e nascoste, quelle che non andranno sui primi titoli dei media o non saranno all'attenzione dei movimenti giacché non entreranno facilmente nel lessico antimperialista o post-coloniale, o della solidarietà internazionale. La questione ambientale diventa così paradigmatica della nuova politica cosmopolita. A condizione però che includa un nuovo elemento, quello dell’equità transnazionale ed intergenerazionale. In altre parole della giustizia ecologica. Come specifica in uno dei suoi rapporti il Wuppertal Institute ("Per un futuro equo, conflitti sulle risorse e giustizia globale" a cura di Wolfgang Sachs) "la prima giustizia ecologica riguarda la biosfera, la seconda, intergenerazionale focalizza l’attenzione sul rapporto tra chi vive adesso e le generazioni future. Estende il principio dell’equità sull’asse temporale. Ciononostante, questi concetti mostrano una lacuna, non prendono in considerazione le istituzioni create dagli uomini e le loro interrelazioni. E’ quindi urgente mettere in discussione il modello di benessere della modernità industriale". Una sfida ulteriore per il movimento pacifista, che attraverso questa chiave di analisi può costruire alleanze forti con i movimenti che si occupano di giustizia climatica ed ambientale per elaborare un modello di prevenzione nonviolenta dei conflitti e di “rappacificazione” con il pianeta e con chi lo abita.
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