Due importanti notizie hanno fatto il giro del mondo questi giorni ma non hanno attraversato neanche di striscio il dibattito politico nostrano, tutto focalizzato a vaticinare la fine imminente o meno dell’era berlusconiana, e il futuro prossimo del paese. Un paese sempre più ripiegato in se stesso, che non sa e non vuole guardare al mondo se non come fonte di minacce, da quella posta dalla crisi finanziaria, a quelle costruite ad arte dai media “mainstream” e certa propaganda che rasenta la xenofobia, delle invasioni di migranti. Sempre più distante la guerra in Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese, il prossimo G20 di Seoul, che dovrebbe approntare le misure necessarie per affrontare la crisi finanziaria e prevenirne di nuove. Un paese ed una politica che leggono le situazioni che accadono al di là dei propri confini ripetendo la logica di schieramento, o comunque come eventi forse ineluttabili o semmai i cui destini restano in mano della volontà dei governi o della comunità internazionale. E di rado , se non mai, si prova a leggere gli eventi dalla parte di coloro che quegli eventi subiscono, e che pertanto devono essere il punto di partenza per prospettare qualsiasi ipotesi di soluzione politica. Sono drammatiche le notizie che provengono dal Sahara Occidentale , sulla repressione sanguinosa operata dal’esercito marocchino contro migliaia di Sahrawi accampati alla periferia della capitale Al Aayoun. Non quella fatta di tende in plastica azzurra e ricostruita nel mezzo del deserto algerino, ma quella”ufficiale” popolata da sahrawi d’importazione. Coloni fatti affluire da Rabat con la marcia verde poco dopo l’armistizio che nel 1975 pose fine alla guerra d’indipendenza, e di fatto consolidato l’occupazione militare marocchina e l’inizio di un incubo per un popolo senza stato. Da allora ogni anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha confermato il mandato ad un contingente di Caschi Blu per vigilare sul cessate il fuoco, e da allora ad oggi nessuno sforzo effettivo è stato fatto per organizzare il referendum che dovrebbe sancire il destino del vecchio Sahara spagnolo, colonia venuta meno con il venir meno del franchismo. Migliaia di soldati marocchini restano appostati lungo un muro di sabbia che separa il Sahara occidentale dagli insediamenti sahrawi quasi tutti in Algeria. Un popolo, i Sahrawi, che ha deciso la linea della nonviolenza e della fiducia nel diritto internazionale, ma che oggi vede svanire lentamente tutte le proprie speranze. Premono i giovani sahrawi per una intifada, resistono gli anziani leader del Polisario, pur nelle difficoltà attuali, dovute a importanti defezioni di leader storici passati dall’altra parte, uno di loro addirittura a fare l’ambasciatore marocchino in Spagna. Marocco, Algeria, Spagna, Stati Uniti, Unione Europea, sono i principali attori nella vicenda Sahrawi, giocatori di scacchi in una vicenda che può segnare non solo il destino di un popolo ma anche la tenuta dell’opzione nonviolenta e della fiducia nella diplomazia e nel diritto internazionale. Per questo, anche per questo ci deve interessare il popolo sahrawi, perché con loro rischia di scomparire il diritto,, schiacciato nella morsa degli interessi geopolitici contrapposti. Marocco alleato chiave per la Spagna (basti pensare al questione di Ceuta e Melilla e le politiche di esternalizzazione delle frontiere, o le concessioni di pesca in alto mare) e per gli Stati Uniti, interessati non solo alle risorse naturali del Sahara occidentale ma anche ad avere fedeli alleati nella lotta al terrorismo islamico. E poi c’è l’Algeria che utilizza la carta della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei Sahrawi per provare a conquistare uno sbocco a mare sull’Oceano Atlantico. La Unione Europea è spaccata sulla vicenda Sahrawi con la Francia alleata storica del Marocco e non ha trovato di meglio che affidare alla Lady Ashton una dichiarazione di basso profilo, Intanto a New York dovrebbero riprendere dei negoziati ufficiali tra Polisario e Marocco, che a questo punto obbligherà i Sahrawi a negoziare con la pistola alla tempia. Mentre El Aayoun brucia. Spostiamoci di continente e le notizie dalla Birmania (si noti bene non usiamo il termine Myanmar coniato dalla dittatura militare) ci raccontano di un esodo di profughi verso la Thailandia, dopo lo scontato esito delle elezioni politiche truffa,pilotate dalla giunta militare – ma del resto era chiaro fin dall’inizio per chi aveva osservato da vicino il processo costituzionale manovrato ad arte dai generali. A migliaia stanno fuggendo per il timore del riaccendersi della guerra civile tra truppe governative e ribelli di varie etnie. Ed il premio nobel per la Pace Aung San Suu Kyi nonostante gli annunci della giunta resta agli arresti , dopo l’ennesimo bluff verso la comunità internazionale. Anche se si susseguono voci i una sua imminente liberazione, Ma la giunta birmana ci ha abituato a questi continui ed estenuanti “tira e molla”. La Cina considera la Birmania alleato strategico, per il controllo di quello scacchiere cruciale per le rotte mercantili e per le sue risorse energetiche. Né più e né meno come le imprese transnazionali occidentali che non hanno avuto l’ardore di disinvestire dal paese, e con l’Unione Europea che a parole sostiene la democrazia ma nei fatti mette in discussione lo strumento delle sanzioni mirate per optare per un approccio più dialogante. Una sorta coinvolgimento costruttivo simile a quello dietro il quale finora si è trincerata anche la Thailandia, con migliaia e migliaia di profughi birmani da anni accampati a Mae Sot e lungo la frontiera. Migliaia di uomini, donne bambini, le cui vite e la cui dignità vengono schiacciate anche in questo caso dagli interessi geopolitici contrapposti di varie potenze mondiali e regionali. Le donne e gli uomini i bambini e gi anziani Sahrawi e birmani non possono essere lasciati in balia di una storia fatta dai potenti, né semplicemente liquidati come vittime ineluttabili del loro destino. Anzi una politica estera di sinistra, deve, come suggerisce la filosofa Judith Butler, nella sua ultima fatica “ Frame of War” “Cornici di Guerra”, saper cogliere l’importanza della nonviolenza e per far ciò superare la visione secondo la quale quelle popolazioni sono vittime predestinate alla guerra e necessitanti aiuto. Piuttosto ogni possibile soluzione politica deve partire dalla centralità della loro dignità in quanto essere umani, il cui destino non deve essere necessariamente quello di vittime di guerra o violazione dei propri diritti. Ed allora anche noi, che viviamo lontani da quei drammi dovremmo fare un passo in avanti e fondare la nostra opzione nonviolenta sul riconoscimento che anche noi potremmo un giorno essere vulnerabili, e che finora ci salviamo solo perché siamo in paesi più ricchi, più armati, più potenti. Ecco perché oggi quello che succede in Sahara Occidentale ed in Birmania ci deve toccare da vicino in quanto amanti del diritto, della libertà e dei diritti umani, della nonviolenza e della soluzione diplomatica dei conflitti, Ma anche perché da una nuova lettura di quegli eventi possiamo trarre spunto per un’ipotesi di sinistra che metta al centro la dignità delle persone e sia all’altezza delle sfide contemporanee.
Francesco Martone
Forum sulle Politiche Internazionali di Sinistra Ecologia e Libertà
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