venerdì 21 ottobre 2011

Frammenti da un mondo in crisi

Nel corso dell’ultimo vertice dei ministri dell’economia del G20 dominato dalla discussione sulle misure di salvataggio dell’eurozona, è stata respinta la proposta avanzata da Francia e Germania di approvare l’istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, la Financial Transaction Tax. L’Europa è unita sulla FTT, ma spezzata in più parti rispetto alle misure da intraprendere per il salvataggio di paesi indebitati, al punto da far prospettare il rinvio del vertice ministeriale previsto per questo weekend. Paradossalmente, l’opposizione principale alla FTT proviene non solo da Canada e Stati Uniti, ma anche dall’India, mentre Brasile e Sudafrica la sostengono con forza. Anche il blocco BRICS si sta sciogliendo? Nel frattempo il movimento globale degli indignados lancia un’iniziativa globale per la Robin Hood March da tenersi il 29 ottobre alla vigilia del G20 di Nizza

È stato liberato dopo oltre 5 anni di prigionia il soldato israeliano Gideon Shalit, in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Uno spiraglio per il rilancio della trattativa internazionale si dice. Nel frattempo la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina è passata dal Consiglio di Sicurezza all’organismo dell’ONU preposto a vagliare l’ammissione di nuovi stati. Un escamotage per guadagnare tempo e ridare fiato all’iniziativa del Quartetto? Se da una parte il presidente Obama insiste nella sua decisione di porre un eventuale veto su una decisione del Consiglio di Sicurezza, dall’altra l’offensiva diplomatica palestinese continua. Dal Palazzo di Vetro è passata ora alle singole agenzie specializzate, UNESCO in testa, che stanno valutando il da farsi.

Il corpo martoriato del dittatore viene esposto come trofeo o simbolo di una nemesi storica per suggellare la chiusura violenta del passato di un paese, la Libia, che oggi dichiara la sua liberazione. Restano molti interrogativi ai quali si dovrà dare risposta. Quali segreti si porta nella sua tomba segreta Mohammar Gheddafi? Quale prospettiva di pace in un paese che ora entrerà nella fase più difficile, quella della ricostruzione e della riconciliazione nazionale, spaccato com’è tra varie fazioni fino ad ora unite contro un unico nemico? La storia dell’operazione internazionale in Libia ci interroga su questioni molto controverse. Su come tutelare i diritti umani senza legittimare la rimozione violenta di un regime e quale scala di priorità dare tra pace e giustizia. A suo tempo il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale Moreno Ocampo venne criticato per aver spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi e la sua famiglia mentre erano in corso trattative per una soluzione negoziale del conflitto. Si disse che quella scelta fosse stata controproducente e si argomentò molto sulla relazione che intercorre tra pace e giustizia internazionale. Una presuppone o esclude l’altra? Piuttosto che essere giustiziato per una taglia da 20 milioni di dollari Gheddafi avrebbe dovuto essere stato giudicato da un tribunale internazionale. Così non è stato.

A riflettere sulle immagini di piazza Syntagma dei giorni scorsi, di un parlamento sotto assedio ormai ridotto ad immagine senza sostanza, “imago sine re” dicevano i Romani, e condannato ad accettare supinamente le prescrizioni della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale vengono alla mente le parole dell’economista Dani Rodrik. Nella sua ultima fatica, “Il paradosso della globalizzazione”, Rodrik ci dice che non è affatto vero che i mercati globali prosperino grazie ad uno stato “leggero”, anzi ci dimostra il contrario. Semmai il problema da affrontare è quello di sciogliere un “trilemma”, tra democrazia, globalizzazione economica ed interesse nazionale. “Non possiamo perseguire contemporaneamente tutt’e tre” aggiunge, e conclude ” Dobbiamo fare delle scelte, ed io voglio essere chiaro sulle mie: la democrazia e l’autodeterminazione devono essere prioritarie rispetto all’iperglobalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro contratti sociali e quando questo diritto confligge con le esigenze dell’economia globale dovrà essere il primo a prendere il sopravvento”. Con buona pace dei deputati greci e dei parlamentari italiani cui era stato proposto di introdurre in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio con l’avallo di buona parte del centrosinistra.

Si riaccende lo scontro in Kurdistan turco. Dopo la recente offensiva del PKK dura è stata la risposta dell’esercito di Ankara in un conflitto che si trascina ormai da anni, e supera i confini nazionali, aggravando ulteriormente la situazione già difficile in Irak. Come fantasmi della storia riemergono le rivendicazioni di popoli senza stato, dal Kurdistan al Sahara Occidentale, riemergono le tensioni in Kosovo, mentre dal paese basco arriva la notizia dell’abbandono definitivo delle armi da parte dell’ETA. Quella stessa Turchia che aspira a svolgere un ruolo di “playmaker” nel Mediterraneo, secondo i principi del “neo-ottomanesimo” e che l’Unione Europea ha fin troppo tardato ad accogliere. Quella Turchia che avrebbe mediato per la liberazione di Gideon Shalit, e che di recente avrebbe concluso un accordo con la Norvegia per la formazione alla diplomazia di pace, e prevenzione dei conflitti. E che oggi al suo interno non trova la chiave di svolta per porre fine ad un conflitto senza altre vie d’uscita, per il popolo kurdo e per quello turco.

Si avvicina la data fatidica delle elezioni in Tunisia, culmine della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini, mentre in Egitto la transizione appare sempre più complessa e piena di rischi. Al Cairo i militari continuano a tenere il bastone dalla parte del manico forti di un possibile accordo con i Fratelli Musulmani per costruire uno stato egiziano nazionalista con forte impronta islamica. In Tunisia le aspettative sono differenti, vista la differente genesi del processo di trasformazione. Un ruolo forte dei sindacati, di alcuni partiti politici della sinistra, un ruolo defilato dei militari lascerebbero ben sperare. Sullo sfondo, una grave crisi economica e sociale, e l’avanzata galoppante del partito islamico Ennahdha, il cui leader Rachid Ganouchi qualche giorno fa ha prospettato il rischio di brogli elettorali, e minacciato una rivolta. Quale che sia l’esito finale chi andrà al potere in Tunisia dovrà imbarcarsi nell’arduo compito di riscrivere la Costituzione, e tenere in vita uno spirito “costituente” affermatosi non nel Palazzo ma nelle piazze e nelle strade del paese.

Peacereporter ci informa della pubblicazione di un documento sullo stato del conflitto in Afghanistan. Secondo l’Afghan NGO Safety Office (Aprile 2011), si è registrato un aumento degli attacchi da parte delle varie componenti dell’insurgenza afghana del 51% rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno. Nel marzo 2011 sono stati registrati ben 1102 attacchi, mentre nel primo trimestre si è registrato un aumento del 115% nella regione di Herat e del 164% in quella di Farah, nelle quali operano i contingenti italiani, per un totale di 116 attacchi. Un conflitto senza uscita, scomparso dall’attenzione dei media, caratterizzato da quello che viene definito “stallo perenne sotto escalation”, nel quale le operazioni di controinsurgenza di fatto rafforzerebbero le attività dell’insurgenza. Ed accanto a ciò si nota l’intensificarsi delle attività di gruppi armati irregolari, al soldo di capi tribali o politici locali, e tollerati dagli Stati Uniti.

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