mercoledì 6 giugno 2012

La strada verso Rio+20


Si è tenuta a fine maggio a New York l’ultima sessione   di negoziato informale in preparazione della Conferenza Rio+20, convocata d’urgenza per tentare di risolvere i punti critici sui quali nel corso delle sessioni precedenti si era espresso il massimo disaccordo tra i vari governi. Del testo di negoziato sul quale hanno lavorato i delegati  solo 21 paragrafi erano stati approvati, mentre restavano da negoziare ed approvare ben 420 paragrafi.

Dal punto di vista quantitativo la sessione straordinaria ha segnato un leggero passo in avanti, con 70 paragrafi approvati e 259 ancora da concordare.  Analizzando in dettaglio i punti sui quali si è trovato accordo e quelli ancora in sospeso, risulta evidente che il compito che si troveranno ad affrontare i delegati a Rio è assai arduo, ed il rischio già evidente di un risultato estremamente deludente e  non certo all’altezza delle aspettative si fa via via più concreto.

I temi chiave sui quali non c’è accordo sono quelli sui quali era stata di fatto lanciata la proposta di Rio+20:   promozione ed il sostegno alla Green Economy, il rafforzamento dell’assetto istituzionale internazionale per il maggior coordinamento delle politiche ambientali, il lancio dei cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile da affiancare agli obiettivi di sviluppo del Millennio in settori quali il cibo, l’acqua, l’energia.

Le questioni “paradigmatiche” che attraversano tutte le tematiche oggetto di negoziato, ovvero l’equità, i diritti  umani, la riforma delle politiche commerciali e finanziarie, il ruolo del settore privato e la sua responsabilizzazione, le responsabilità eguali ma differenziate (uno dei principi di Rio92) l’impegno ad aumentare i fondi di cooperazione internazionale, restano in sospeso e pesano come un macigno non solo sul negoziato di Rio ma su tutto il futuro della cosiddetta “governance” ambientale globale. Questo in un panorama politico ed economico globale in crisi, e nel quale le relazioni di forza e gli assetti di potere sono in continuo mutamento.  

Così a pochi giorni dalla Conferenza di Rio+20 ci si trova di fronte ad un caso evidente di jetlag storico, che sembra aver colpito tutti i governi, da quelli dei cosiddetti paesi ricchi a quelli dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, Cina in testa, che tentano di riconfigurare un proprio ruolo globale utilizzando il negoziato internazionale per le proprie prove muscolari, con obiettivi che hanno poco o nulla a che vedere con il vero oggetto del contendere.   E’ la crisi con tutte le sue conformazioni, (ambientale, economico-finanziaria, della “governance”, alimentare, climatica) che incombe sul negoziato, frenandone le possibilità piuttosto che aprire la porta a scelte radicali ed innovative.  E’ la crisi dei paesi del cosiddetto Nord, degli ex G8, che si confronta con il dinamismo dei paesi di quello che venti anni fa era il Sud del Pianeta, una narrativa che esclude gran parte della popolazione mondiale che oggi vive in condizioni di grande povertà e negazione di diritti.

Di fronte a questa situazione d’ impasse, poco ha potuto il segretario Ban Ki Mun che nel suo intervento iniziale ha tentato di sferzare i delegati dei governi per indirizzarli verso un possibile esito che possa tenere in vita la speranza di un “successo” dai contorni ancora poco chiari. Obiettivo quello di preservare un minimo di fiducia nei processi multilaterali, già messi a dura prova in particolare nel negoziato sul clima.  Ban Ki Mun ha ribadito i punti centrali per un accordo a Rio, ovvero la definizione dei cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, la creazione di un nuovo quadro istituzionale per le politiche ambientali globali, la creazione di posti di lavoro .

A poco è servito. Gli unici punti sui quali i delegati hanno trovato accordo sono la semplice reiterazione di principi ormai acquisiti, e dichiarazioni di presa d’atto senza alcun carattere vincolante o programmatico. Ad esempio, sulla visione comune, si è trovato accordo sul fatto che la comunità internazionale si debba impegnare per lo sviluppo sostenibile, che si debba accelerare il processo di perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (che originariamente avrebbero dovuto essere raggiunti nel 2015), sulla centralità della Carta delle Nazioni Unite, la necessità di rafforzare la cooperazione internazionale ed il ruolo dei popoli e della democrazia. 

Dichiarazioni di principio alle quali non seguono impegni chiari rispetto ai temi “pilastro” quelli cioè che marcano la volontà politica o meno di avviarsi verso un vero cambio di paradigma. Quindi, non si è trovato accordo sui temi delle responsabilità comuni ma differenziate (in una parola sull’equità ed il riconoscimento del debito ecologico) sulla necessità o meno di affrontare il tema dei modelli produttivi e di consumo insostenibili (il tema della crescita), il diritto al cibo  e la promozione del rispetto dei diritti umani. Anche se - grazie agli sforzi delle organizzazioni non governative e movimenti sociali - il diritto all’acqua rientra nel testo, mentre il diritto al cibo resta ancora tra parentesi (ovvero ancora da concordare). 

Resta valido  l’accorato appello del Commissario ONU sui Diritti Umani, Navi Pillay ai governi perché prendano atto del legame intrinseco tra diritti umani e sviluppo sostenibile consacrato proprio a Rio nel 1992, e decidano di conseguenza, ovvero riaffermando il diritto allo sviluppo, alla partecipazione diretta delle donne, contadini giovani, popoli indigeni, l’impegno a ridurre le diseguaglianze, l’accesso all’informazione ed a strumenti di risarcimento e compensazione in caso di danno ambientale. Un punto cardine quello della asimmetria tra diritto dell’ambiente ed all’ambiente sano ed i diritti del mercato e dell’economia, i primi  non esigibili in assenza di strumenti quali una corte Mondiale per l’Ambiente, i secondi invece imponibili attraverso sanzioni e istanze  quali quelle previste dall’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Nulla di determinante è emerso sull’altro punto cruciale, ovvero come accelerare i processi verso il compimento degli impegni internazionali sullo sviluppo sostenibile. Non si è andati oltre il riconoscimento dell’importanza di fornire sostegno ai paesi in via di sviluppo nella lotta alla povertà, della necessità di un approccio “olistico” allo sviluppo sostenibile,  mentre restano forti disaccordi su temi quali una strategia globale contro la disoccupazione giovanile, l’ inclusione dei mutamenti climatici, i diritti della natura.

Guardando poi alla questione degli “strumenti” di attuazione, ovvero la cooperazione allo sviluppo, la riforma dei termini di scambio e delle politiche commerciali e l’accesso alle tecnologie, il quadro rimane del tutto irrisolto. Nessun impegno ancora per l’aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo, con i paesi “sviluppati” che ribadiscono che Rio+20 non è una conferenza nella quale prendere impegni finanziari, contrariamente a quanto affermato dai G77, mentre il tema del libero accesso alle tecnologie è minato dalla questione spinosa dei diritti di proprietà intellettuale.

Altro punto assai controverso  riguarda il ruolo delle imprese del settore privato, che ha attraversato fin da Rio92 il negoziato, dapprima attraverso un rilancio del ruolo delle imprese multinazionali ed il contemporaneo smantellamento di ogni ipotesi di vincolo socio-ambientale per le loro attività fino a Johannesburg Rio+10 dove venne consacrato il modello di partenariato pubblico-privato.

In questo caso le posizioni contrapposte vedono Cina e G77 contrarie ad ogni forma di vincolo a livello internazionale, riaffermando invece la centralità delle legislazioni nazionali, l’UE che propone uno strumento di responsabilizzazione fondato su meccanismi di informazione e rendicontazione sulle pratiche sostenibili, ed una riaffermazione del ruolo dell’ONU e del Global Compact. Nulla a che vedere con l’ipotesi di un accordo globale vincolante al quale stanno lavorando molti movimenti sociali che si riuniranno al Summit alternativo dei Popoli. Anzi, il rischio è che attraverso formule quali “Energia sostenibile per tutti” iniziativa lanciata da Ban Ki Mun, si possano consolidare gli interessi di grandi imprese quali Siemens ed Eskom, un ritorno alle grandi dighe ed un’ulteriore accelerazione dell’espansione degli agrocombustibili.

E veniamo al tema della Green Economy, o Green Economies, o meglio ancora “conversione ecologica dell’economia”.  Quali dovranno essere le condizioni necessarie affinché il settore privato possa svolgere un ruolo positivo nella conversione ecologica dell’economia e non invece utilizzare il pretesto della “Green Economy per riaffermare false soluzioni o espandere i propri interessi in settori quali i servizi ambientali e la finanziarizzazione della natura? Insomma una nuova forma di “capitalismo verde”, ipotesi contro la quale si è scagliato con forza il blocco dei G77 e Cina che invece invocano il riconoscimento de principio dell’equità? Eppoi la Green Economy dovà essere una strategia globale o solo una condizionalità da imporre ai paesi emergenti per accedere a fondi e tecnologia? Cosa dovrebbe fare questa  Green Economy, e come integrare pienamente i costi sociali ed ambientali? Tutti punti sui quali il negoziato è ancora in alto mare. Resta  il rischio che il concetto di Green Economy serva in realtà solo a spostare l’enfasi dagli impegni sull’ambiente finora disattesi dagli stati , cambiando l’oggetto delle discussione, ovvero parlando di Green Economy, trasferimento di tecnologie e ruolo del settore privato. 

Stesso tenore nel negoziato sull’architettura istituzionale globale volta ad assicurare l’integrazione dei tre “pilastri”, (ambientale, sociale e economico) dello sviluppo sostenibile. Se da una parte è stato riaffermato il ruolo centrale del sistema ONU non ci è spinti al punto di prendere una decisione sul tipo di istituzione o assetto necessario per il dopo-Rio. C’è chi propone un forum politico di alto livello che possa sostituire la Commissione per lo sviluppo Sostenibile, chi chieder un Consiglio ONU sull’Ambiente, chi il rafforzamento dell’UNEP. Né si è trovato accordo sul ruolo che tale organismo dovrà svolgere, se di monitoraggio dell’attuazione degli impegni o solo luogo di scambio di esperienze, se debba essere solo un’ istanza di coordinamento o anche di facilitazione della concessione di risorse finanziarie.

Su chi debba elargire i fondi  a Rio nel 1992 venne affermato, accanto al ruolo del settore privato, in quello che in molti hanno ribattezzato “maquillage verde” il protagonismo diretto della Banca Mondiale nelle politiche globali per la sostenibilità, nonostante le forti contraddizioni insite nelle politiche e progetti di sviluppo da essa sostenuti che spesso hanno contraddetto gli stessi impegni di Rio. Ora la Banca proverà a riproporsi come attore chiave, sponsorizzando il concreto di “crescita verde inclusiva” ma nei fatti provando a riconfigurarsi come attore globale a fronte di un maggior ruolo svolto dai paesi emergenti BRICS, e   presentandosi come partner privilegiato delle imprese. Non è un caso la recente nomina di un top executive dell’industria ad un alto incarico dirigenziale. Anche sulla questione annosa il negoziato sembra essere ancora in alto mare soprattutto riguardo al possibile ruolo guida delle Nazioni Unite, una disputa che risale al 1944 quando la Banca mondiale ed il Fondo Monetario vennero istituite a Bretton Woods.

Insomma, il quadro lascia ad intendere due ipotesi: o il fallimento totale della Conferenza oppure un risultato di basso livello nel quale i paesi si impegnano ad aprire un processo per la definizione di impegni certi e nel frattempo si lanceranno iniziative di partenariato ad alto impatto mediatico, tra paesi, imprese ed organismi internazionali. In ogni caso un risultato  certamente non all’altezza delle sfide globali, né dello slancio storico dato dalla Conferenza di Rio del 1992 che nonostante tutto, partorì due Convenzioni globali (sul Clima e la Biodiversità), l’agenda 21, la Carta della Terra e la Dichiarazione di Rio. E segnò l’avvento dei movimenti e della società civile globale che si riunirono allora nel global Forum e che nei prossimi giorni s’ incontreranno nel Summit dei Popoli per declinare attraverso piattaforme comuni e la condivisione di pratiche la vera alternativa per un’economia giusta, la giustizia ambientale, i beni comuni, i diritti umani e della Terra. Soggetti che prenderanno l’iniziativa di fronte all’ incapacità se non all’ evidente volontà politica da parte dei governi di impegnarsi per un’ economia capace di futuro.  Giacché, come ebbe a dire Gustavo Esteva, sociologo che da anni lavora nelle esperienze di municipi autonomi a Oaxaca ed in ChiapasCostruire un mondo nuovo è fattibile, non è una proposta romantica, ma interamente pragmatica” .  Toccherà a noi farlo.





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