Si è tenuta a fine maggio a New York l’ultima sessione di negoziato informale in preparazione della Conferenza
Rio+20, convocata d’urgenza per tentare di risolvere i punti critici sui quali
nel corso delle sessioni precedenti si era espresso il massimo disaccordo tra i
vari governi. Del testo di negoziato sul quale hanno lavorato i delegati solo 21 paragrafi erano stati
approvati, mentre restavano da negoziare ed approvare ben 420 paragrafi.
Dal punto di vista quantitativo la sessione straordinaria ha segnato un
leggero passo in avanti, con 70 paragrafi approvati e 259 ancora da concordare.
Analizzando in dettaglio i punti
sui quali si è trovato accordo e quelli ancora in sospeso, risulta evidente che
il compito che si troveranno ad affrontare i delegati a Rio è assai arduo, ed
il rischio già evidente di un risultato estremamente deludente e non certo all’altezza delle aspettative
si fa via via più concreto.
I temi chiave sui quali non c’è accordo sono quelli sui quali era stata
di fatto lanciata la proposta di Rio+20: promozione ed il
sostegno alla Green Economy, il rafforzamento dell’assetto istituzionale
internazionale per il maggior coordinamento delle politiche ambientali, il
lancio dei cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile da affiancare agli
obiettivi di sviluppo del Millennio in settori quali il cibo, l’acqua,
l’energia.
Le questioni “paradigmatiche” che attraversano tutte le tematiche
oggetto di negoziato, ovvero l’equità, i diritti umani, la riforma delle politiche commerciali e finanziarie,
il ruolo del settore privato e la sua responsabilizzazione, le responsabilità
eguali ma differenziate (uno dei principi di Rio92) l’impegno ad aumentare i
fondi di cooperazione internazionale, restano in sospeso e pesano come un
macigno non solo sul negoziato di Rio ma su tutto il futuro della cosiddetta “governance” ambientale globale. Questo
in un panorama politico ed economico globale in crisi, e nel quale le relazioni
di forza e gli assetti di potere sono in continuo mutamento.
Così a pochi giorni dalla Conferenza di
Rio+20 ci si trova di fronte ad un caso evidente di jetlag storico, che sembra aver colpito tutti i governi, da quelli
dei cosiddetti paesi ricchi a quelli dei cosiddetti paesi in via di sviluppo,
Cina in testa, che tentano di riconfigurare un proprio ruolo globale
utilizzando il negoziato internazionale per le proprie prove muscolari, con
obiettivi che hanno poco o nulla a che vedere con il vero oggetto del
contendere. E’ la crisi con
tutte le sue conformazioni, (ambientale, economico-finanziaria, della
“governance”, alimentare, climatica) che incombe sul negoziato, frenandone le
possibilità piuttosto che aprire la porta a scelte radicali ed innovative. E’ la crisi dei paesi del cosiddetto
Nord, degli ex G8, che si confronta con il dinamismo dei paesi di quello che
venti anni fa era il Sud del Pianeta, una narrativa che esclude gran parte
della popolazione mondiale che oggi vive in condizioni di grande povertà e
negazione di diritti.
Di fronte a questa situazione d’ impasse, poco ha potuto il segretario
Ban Ki Mun che nel suo intervento iniziale ha tentato di sferzare i delegati
dei governi per indirizzarli verso un possibile esito che possa tenere in vita
la speranza di un “successo” dai contorni ancora poco chiari. Obiettivo quello
di preservare un minimo di fiducia nei processi multilaterali, già messi a dura
prova in particolare nel negoziato sul clima. Ban Ki Mun ha ribadito i punti centrali per un accordo a
Rio, ovvero la definizione dei cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, la
creazione di un nuovo quadro istituzionale per le politiche ambientali globali,
la creazione di posti di lavoro .
A poco è servito. Gli unici punti sui quali i delegati hanno trovato
accordo sono la semplice reiterazione di principi ormai acquisiti, e
dichiarazioni di presa d’atto senza alcun carattere vincolante o programmatico.
Ad esempio, sulla visione comune, si è trovato accordo sul fatto che la
comunità internazionale si debba impegnare per lo sviluppo sostenibile, che si
debba accelerare il processo di perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del
Millennio (che originariamente avrebbero dovuto essere raggiunti nel 2015),
sulla centralità della Carta delle Nazioni Unite, la necessità di rafforzare la
cooperazione internazionale ed il ruolo dei popoli e della democrazia.
Dichiarazioni di principio alle quali non seguono impegni chiari rispetto ai
temi “pilastro” quelli cioè che marcano la volontà politica o meno di avviarsi
verso un vero cambio di paradigma. Quindi, non si è trovato accordo sui temi
delle responsabilità comuni ma differenziate (in una parola sull’equità ed il
riconoscimento del debito ecologico) sulla necessità o meno di affrontare il
tema dei modelli produttivi e di consumo insostenibili (il tema della
crescita), il diritto al cibo e la
promozione del rispetto dei diritti umani. Anche se - grazie agli sforzi delle
organizzazioni non governative e movimenti sociali - il diritto all’acqua
rientra nel testo, mentre il diritto al cibo resta ancora tra parentesi (ovvero
ancora da concordare).
Resta valido l’accorato appello del Commissario ONU sui Diritti Umani,
Navi Pillay ai governi perché prendano atto del legame intrinseco tra diritti
umani e sviluppo sostenibile consacrato proprio a Rio nel 1992, e decidano di
conseguenza, ovvero riaffermando il diritto allo sviluppo, alla partecipazione
diretta delle donne, contadini giovani, popoli indigeni, l’impegno a ridurre le
diseguaglianze, l’accesso all’informazione ed a strumenti di risarcimento e
compensazione in caso di danno ambientale. Un punto cardine quello della
asimmetria tra diritto dell’ambiente ed all’ambiente sano ed i diritti del
mercato e dell’economia, i primi
non esigibili in assenza di strumenti quali una corte Mondiale per l’Ambiente,
i secondi invece imponibili attraverso sanzioni e istanze quali quelle previste
dall’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Nulla di determinante è emerso sull’altro punto cruciale, ovvero come
accelerare i processi verso il compimento degli impegni internazionali sullo
sviluppo sostenibile. Non si è andati oltre il riconoscimento dell’importanza
di fornire sostegno ai paesi in via di sviluppo nella lotta alla povertà, della
necessità di un approccio “olistico” allo sviluppo sostenibile, mentre restano forti disaccordi su temi
quali una strategia globale contro la disoccupazione giovanile, l’ inclusione
dei mutamenti climatici, i diritti della natura.
Guardando poi alla questione degli “strumenti” di attuazione, ovvero la
cooperazione allo sviluppo, la riforma dei termini di scambio e delle politiche
commerciali e l’accesso alle tecnologie, il quadro rimane del tutto irrisolto.
Nessun impegno ancora per l’aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo, con i
paesi “sviluppati” che ribadiscono che Rio+20 non è una conferenza nella quale
prendere impegni finanziari, contrariamente a quanto affermato dai G77, mentre
il tema del libero accesso alle tecnologie è minato dalla questione spinosa dei
diritti di proprietà intellettuale.
Altro punto assai controverso riguarda il ruolo delle imprese del settore privato, che ha
attraversato fin da Rio92 il negoziato, dapprima attraverso un rilancio del
ruolo delle imprese multinazionali ed il contemporaneo smantellamento di ogni
ipotesi di vincolo socio-ambientale per le loro attività fino a Johannesburg Rio+10
dove venne consacrato il modello di partenariato pubblico-privato.
In questo caso le posizioni contrapposte vedono Cina e G77 contrarie ad
ogni forma di vincolo a livello internazionale, riaffermando invece la
centralità delle legislazioni nazionali, l’UE che propone uno strumento di
responsabilizzazione fondato su meccanismi di informazione e rendicontazione
sulle pratiche sostenibili, ed una riaffermazione del ruolo dell’ONU e del
Global Compact. Nulla a che vedere con l’ipotesi di un accordo globale
vincolante al quale stanno lavorando molti movimenti sociali che si riuniranno
al Summit alternativo dei Popoli. Anzi, il rischio è che attraverso formule
quali “Energia sostenibile per tutti”
iniziativa lanciata da Ban Ki Mun, si possano consolidare gli interessi di
grandi imprese quali Siemens ed Eskom, un ritorno alle grandi dighe ed
un’ulteriore accelerazione dell’espansione degli agrocombustibili.
E veniamo al tema della Green Economy, o Green Economies, o meglio
ancora “conversione ecologica dell’economia”. Quali dovranno essere le condizioni necessarie affinché il
settore privato possa svolgere un ruolo positivo nella conversione ecologica
dell’economia e non invece utilizzare il pretesto della “Green Economy per
riaffermare false soluzioni o espandere i propri interessi in settori quali i
servizi ambientali e la finanziarizzazione della natura? Insomma una nuova
forma di “capitalismo verde”, ipotesi contro la quale si è scagliato con forza
il blocco dei G77 e Cina che invece invocano il riconoscimento de principio
dell’equità? Eppoi la Green Economy dovà essere una strategia globale o solo
una condizionalità da imporre ai paesi emergenti per accedere a fondi e
tecnologia? Cosa dovrebbe fare questa
Green Economy, e come integrare pienamente i costi sociali ed
ambientali? Tutti punti sui quali il negoziato è ancora in alto mare. Resta il rischio che il concetto di Green
Economy serva in realtà solo a spostare l’enfasi dagli impegni sull’ambiente
finora disattesi dagli stati , cambiando l’oggetto delle discussione, ovvero
parlando di Green Economy, trasferimento di tecnologie e ruolo del settore
privato.
Stesso tenore nel negoziato sull’architettura istituzionale globale
volta ad assicurare l’integrazione dei tre “pilastri”, (ambientale, sociale e economico)
dello sviluppo sostenibile. Se da una parte è stato riaffermato il ruolo
centrale del sistema ONU non ci è spinti al punto di prendere una decisione sul
tipo di istituzione o assetto necessario per il dopo-Rio. C’è chi propone un
forum politico di alto livello che possa sostituire la Commissione per lo
sviluppo Sostenibile, chi chieder un Consiglio ONU sull’Ambiente, chi il
rafforzamento dell’UNEP. Né si è trovato accordo sul ruolo che tale organismo
dovrà svolgere, se di monitoraggio dell’attuazione degli impegni o solo luogo
di scambio di esperienze, se debba essere solo un’ istanza di coordinamento o
anche di facilitazione della concessione di risorse finanziarie.
Su chi debba elargire i fondi a Rio nel 1992 venne affermato, accanto al ruolo del settore
privato, in quello che in molti hanno ribattezzato “maquillage verde” il
protagonismo diretto della Banca Mondiale nelle politiche globali per la
sostenibilità, nonostante le forti contraddizioni insite nelle politiche e
progetti di sviluppo da essa sostenuti che spesso hanno contraddetto gli stessi
impegni di Rio. Ora la Banca proverà a riproporsi come attore chiave,
sponsorizzando il concreto di “crescita verde inclusiva” ma nei fatti provando
a riconfigurarsi come attore globale a fronte di un maggior ruolo svolto dai
paesi emergenti BRICS, e presentandosi come partner privilegiato
delle imprese. Non è un caso la recente nomina di un top executive
dell’industria ad un alto incarico dirigenziale. Anche sulla questione annosa
il negoziato sembra essere ancora in alto mare soprattutto riguardo al
possibile ruolo guida delle Nazioni Unite, una disputa che risale al 1944
quando la Banca mondiale ed il Fondo Monetario vennero istituite a Bretton
Woods.
Insomma, il quadro lascia ad intendere due ipotesi: o il fallimento
totale della Conferenza oppure un risultato di basso livello nel quale i paesi
si impegnano ad aprire un processo per la definizione di impegni certi e nel
frattempo si lanceranno iniziative di partenariato ad alto impatto mediatico, tra
paesi, imprese ed organismi internazionali. In ogni caso un risultato certamente non all’altezza delle sfide
globali, né dello slancio storico dato dalla Conferenza di Rio del 1992 che
nonostante tutto, partorì due Convenzioni globali (sul Clima e la Biodiversità),
l’agenda 21, la Carta della Terra e la Dichiarazione di Rio. E segnò l’avvento
dei movimenti e della società civile globale che si riunirono allora nel global
Forum e che nei prossimi giorni s’ incontreranno nel Summit dei Popoli per
declinare attraverso piattaforme comuni e la condivisione di pratiche la vera
alternativa per un’economia giusta, la giustizia ambientale, i beni comuni, i
diritti umani e della Terra. Soggetti che prenderanno l’iniziativa di fronte
all’ incapacità se non all’ evidente volontà politica da parte dei governi di impegnarsi
per un’ economia capace di futuro. Giacché, come ebbe a dire Gustavo Esteva, sociologo che da anni lavora
nelle esperienze di municipi autonomi a Oaxaca ed in Chiapas “Costruire
un mondo nuovo è fattibile, non è una proposta romantica, ma interamente
pragmatica” . Toccherà a noi farlo.
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