lunedì 16 luglio 2012

Le varie anime di Rio



In un suo scritto inedito del lontano 1939, solo di recente reso pubblico, Albert Camus, ebbe a dire che:”in ogni filosofia degna del suo nome, un precetto importante afferma che non si dovrebbe mai indulgere in lamentele inutili circa uno stato di cose inevitabile”. In virtù di tale precetto, ad un iniziale valutazione estremamente negativa dell’esito della Conferenza di Rio +20, deve  seguire una disamina più accurata, volta ad identificare punti di forza e debolezza sui quali insistere per riaffermare la centralità dell’imperativo della trasformazione ecologica dell’economia, della giustizia ambientale, e dei diritti umani e della natura, come chiavi di volta di una politica capace di futuro.

La prima domanda è se sia possibile valutare un processo così complesso  secondo gli esiti dello stesso in un dato momento nel tempo. Forse per nascondere la sua forte delusione la presidente del brasile Dilma Rousseff ha tenuto a sottolineare nel suo discorso ufficiale che Rio rappresenta solo una piattaforma di partenza, l’inizio di un percorso, non il suo apice.

Le parole di Dilma  in realtà si fondano su un dato di fatto proprio della trasformazione dei processi di formazione del consenso a livello internazionale, in virtù dei quali non esistono più tappe decisive, ma processi dinamici di produzione di consenso e di aggiustamento progressivo delle varie agende verso un obiettivo comune. Ogni negoziato complesso viene interpretato come “rolling process”, processo dinamico, nel quale ogni impegno preso e concordato dovrà rappresentare una convergenza tra ciò che i paesi già stanno facendo a livello nazionale. Indubbiamente questo è il segno della crisi di un modello multilaterale classico, secondo il quale ogni paese avrebbe invece dovuto abdicare parte della propria sovranità in nome del bene collettivo, e che oggi si traduce in un insieme di accordi e mere dichiarazioni d’intenti, non vincolanti  nella forma.

Insomma, un segno dei tempi, tempi di crisi o forse di profonda trasformazione dei processi di governo globale che rischia di confinare la discussione sulla trasformazione ecologica dell’economia in ambiti esclusivamente teorici, senza invece offrire sponda e cittadinanza a quella miriade di esperienze concrete che da tempo praticano vie alternative.

Se prendiamo invece come punto di partenza il fatto che ormai gli stati hanno perso il monopolio nelle politiche globali, ormai teatro di azione anche di attori non-statuali, quali il settore privato, enti locali, società civile, movimenti transnazionali, allora il quadro di valutazione si fa ben più complesso, sia per quanto riguarda i rischi che le eventuali opportunità.

Quella che inizialmente era stata etichettata a caldo come una grande occasione persa sulla strada verso la sostenibilità ambientale e sociale, ha messo in evidenza processi la cui validità potrà risultare solo dal combinato disposto di iniziativa dal basso e di partecipazione attiva ai processi che da Rio si svilupperanno.

Il risultato di Rio+20 non può essere elaborato esclusivamente secondo chiavi di analisi che mettono al centro la volontà politica (o l’assenza della stessa) dei governi. Se così fosse, indubbiamente il risultato di quelle giornate non lascia molto spazio ad entusiasmi.  Anzi. Non c’era da aspettarsi molto né in termini d’impegni chiari dal punto di vista quantitativo, né in termini di scadenze temporali verificabili, né tanto meno in termini di cassa, ossia di impegni di stanziamento di risorse finanziarie per lo sviluppo sostenibile.

Il documento “The Future we want” ha rappresentato nei fatti  un punto minimo di convergenza tra agende differenti e contrapposte dei vari blocchi di paesi che fino ad allora non erano riusciti a trovare accordo sui temi portanti del negoziato. Era risultato evidente fin dall’inizio delle lunghe maratone negoziali antecedenti l’incontro del Segmento di alto livello (ossia la riunione dei capi di stato e di governo che avrebbe suggellato l’accordo finale) che troppi erano i punti dirimenti ancora irrisolti, e che si faceva sempre più evidente il rischio di un flop clamoroso che avrebbe fatto il pari con quello di Cancun dal quale l’Organizzazione Mondiale del Commercio non si è ancora ripresa, o quello della Conferenza del Clima di Copenhagen che tuttora fa sentire con forza i suoi postumi sul negoziato post-Durban.

In estrema sintesi lo snodo centrale era rappresentato dal binomio sovranità-responsabilità, Da una  parte  i cosiddetti paesi in via di sviluppo (ormai paesi emergenti quali Cina, India, Brasile) erano determinati a far valere le proprie ragioni ed i propri diritti sovrani sulle scelte e la gestione delle proprie politiche economiche, ambientali e produttive. Dall’altra i paesi industrializzati portavano con se il carico di un enorme debito ecologico accumulato del corso della storia, e l’urgenza di trarre dal cilindro della “green economy” l’artificio che potesse offrire una soluzione alla crisi economica e sociale che li sta attanagliando.

Questi ultimi chiedevano ai paesi in via di sviluppo di prendersi carico delle proprie responsabilità , a pari livello, nella dura strada verso un futuro sostenibile. Dal binomio sovranità-responsabilità scaturivano quindi i concetti di equità e delle responsabilità comuni e differenziate. Su questi due principi, consacrati a Rio venti anni fa, si è sviluppato lo scontro, dapprima nel negoziato climatico e poi a Rio. A Durban, a dicembre dello scorso anno   pur di tenere in piedi il negoziato multilaterale post-protocollo di Kyoto, Unione Europea ed altri alleati riuscirono a far passare l’impegno per un processo negoziale detto “Durban Platform for Enhanced Action”. Questo processo negoziale, che tuttora stenta a decollare, dovrebbe produrre una roadmap ed impegni di riduzione delle emissioni per tutti i paesi entro il 2015. A Durban, Stati Uniti ed altri paesi industrializzati si opposero duramente ad ogni richiamo ai principi di equità e responsabilità comuni ma differenziate che rimasero quindi non esplicitati. Un punto questo che ha rappresentato il principale casus belli alla ripresa del negoziato a Bonn nel maggio scorso. Seppur  all’ultimo minuto, dopo la forte resistenza degli USA, a Rio il documento finale richiama i principi dell’equità e delle responsabilità comuni ma differenziate per ogni impegno relativo ai mutamenti climatici. Insomma, per alcuni osservatori non governativi e think-tank vicine ai G77 come il South Centre, questo è un risultato di tutto rilievo che influenzerà notevolmente il percorso della Durban platform,  e non solo.

Il documento “The future we want” quindi può essere anzitutto  valutato secondo la misura in cui  riafferma o introduce criteri e concetti chiave che informeranno l’attività della comunità internazionale in futuro. Letto secondo questa lente, i negoziatori brasiliani hanno fatto di tutto per assicurare la messa in sicurezza di un documento da far approvare formalmente dai capi di stato e di governo. 

Indubbiamente mancano riferimenti chiari a principi come il principio di precauzione e il “polluter pays”, ma il documento contiene importanti riferimenti ai diritti umani e dei popoli indigeni, seppur senza dar loro una connotazione operativa e sempre riconoscendo la centralità della sovranità nazionale degli stati.   Introduce definitivamente il concetto di “green economy” nel dibattito globale, mitigandone però  gli aspetti più controversi, riconoscendo il diritto ad ogni paese di perseguire la propria via, e specificando che tale “green economy” dovrà essere indirizzata verso lo sradicamento della povertà e lo sviluppo sostenibile.  I paesi industrializzati speravano di usare la “green economy” come opportunità per rilanciare le proprie economie, e proteggerle dai prodotti dei paesi emergenti. I paesi emergenti temevano che la “green economy” diventasse un elemento prescrittivo e condizionante le proprie scelte economiche ed ambientali.  Si è così optato per una formulazione complessa che potesse accontentare tutte le parti in causa, senza ulteriori implicazioni dal punto di vista operativo o programmatico.

Altro elemento sul quale valutare l’esito di Rio+20 riguarda i processi che da Rio verranno avviati, e che offrono opportunità , ma anche rischi. I nodi centrali verso un accordo, ossia gli  obiettivi di sviluppo sostenibile, gli strumenti di attuazione (“means of implementation”), e l’architettura istituzionale e della “governance” ambientale sono stati “sciolti” in altrettanti processi intergovernativi sotto l’egida dell’ONU, che dovrebbero in tempi relativamente stretti portare ad accordi vincolanti e fornire opportunità per un rinnovato protagonismo della società civile e dei movimenti.  

Per quanto riguarda gli obiettivi di sviluppo sostenibile, da Rio prende vita un gruppo di lavoro di 30 membri sotto l’egida dell’Assemblea Generale, che dovrà sciogliere i punti principali relativi alla definizione degli obiettivi, un approccio equilibrato tra i cosiddetti tre pilastri dello sviluppo sostenibile (ambientale, sociale, economico), la relazione con gli obiettivi di sviluppo del millennio, ed un  processo di negoziato intergovernativo.   Sulla questione relativa al quadro di riferimento istituzionale per lo sviluppo sostenibile (IFSD) viene costituito un forum politico di alto livello per lo sviluppo sostenibile da definire con un processo intergovernativo e di è trovato accordo sulla necessità di rafforzare il Programma ONU sull’ambiente, (UNEP).   Per i cosiddetti “Means of implementation”ovverossia, il trasferimento di tecnologie, la riforma dei termini di scambio e delle politiche commerciali, l’aiuto pubblico allo sviluppo, è stato lanciato un processo intergovernativo sempre sotto l’egida delle Nazioni Unite, per produrre una strategia per il finanziamento dello sviluppo sostenibile con un insieme di azioni da intraprendere allo scopo.  Certamente un risultato non all’altezza della sfida e delle richieste dei paesi G77 - Cina in testa - per un fondo per lo sviluppo sostenibile di 100 miliardi di dollari.


Insomma a livello di governi la partita è ancora tutta da giocare. Sullo sfondo però si stanno muovendo altri processi ed altre dinamiche che potranno definire in corso d’opera i criteri e precedenti ai quali ispirare le regole comuni.

Accanto alla diluizione dei processi decisionali in “rolling processes”, ed alla riaffermazione della sovranità nazionale,  il terzo elemento cardine dei processi di elaborazione del consenso nella “governance” globale è quello delle regole che derivano dalla pratica. Sono le pratiche , le buone pratiche, che ispirerebbero le regole e non viceversa.  Al vuoto della politica ufficiale, incapace di tener testa alla sfide globali, per le ragioni espresse in precedenza, si sostituisce così l’attivismo di soggetti non-statuali.

Il sito della Conferenza rimanda ad una lista di ben 700 azioni e programmi lanciati a Rio per un valore di 513 miliardi di dollari, da soggetti che spaziano da imprese multinazionali, alla Banca mondiale, ad amministrazioni locali, ad ONG, a centri di ricerca e agenzie specializzate ONU. Un proliferare di iniziative pilota quasi sempre senza obiettivi definiti e quantificabili, che spesso nascondono strategie di “greenwashing” o maquillage verde. Così a Rio +20 il settore privato ha annunciato oltre 220 programmi e progetti in settori quali l’acqua, la biodiversità, la mobilità sostenibile, l’energia, i diritti umani, l’educazione.  Spiccano tra gli altril Eskom, Suez, BASF, ABB, ENI (con un progetto su diritti umani, trasparenza ed anticorruzione), UNILEVER, Santander, Sumitomo, NIKE, Procter and Gamble, Dow Chemicals, Walt Disney, Lockeed martin, Rio Tinto. Tutto senza regole vincolanti, nel quadro del Global Compact o del programma SE4ALL (Sustainable Energy for All) lanciato da Ban Ki Mun alla vigilia del vertice.

Al rischio correlato al rilancio dei partenariati pubblico-privati a di fuori di una cornice normativa vincolante sugli obblighi delle imprese o di capacità di monitoraggio dal basso,  fa da contraltare l’opportunità fornita dalle iniziative dei soggetti non-governativi, ONG , movimenti sociali ed indigeni, società civile organizzata.

I movimenti indigeni si sono riuniti in tre iniziative centrate su una serie di parole d’ordine condivise: rispetto dei diritti internazionalmente riconosciuti, (ad esempio nella Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni), il riconoscimento della conoscenza tradizionale e della cultura come quarto pilastro dello sviluppo sostenibile (tema sostenuto anche dalle reti di amministrazioni locali),  la piena ed effettiva partecipazione ai processi decisionali, il riconoscimento del ruolo delle pratiche di autosviluppo. 

Chi si è riunito nell’incontro di Karioka II ha privilegiato la riaffermazione del diritto all’autodeterminazione, e il rigetto di ogni possibile “finanziarizzazione” della natura, assieme alla riaffermazione dei diritti della Madre Terra e la critica radicale al capitalismo. Chi invece, (latinoamericani e centramericani) si è incontrato all’interno del controvertice della Cupula de los Povos nell’”Accampamento per la vita piena e la terra libera” ha dato maggior enfasi al tema dei diritti alla terra ed alla resistenza contro le politiche sviluppiste ed estrattiviste, la cui icona principale è rappresentata dalla megadiga di Belo Monte nello stato brasiliano di Parà.

Altri rappresentanti indigeni di Asia, Africa, Americhe si sono invece incontrati nella Conferenza dei popoli indigeni  per lo sviluppo e l’autodeterminazione. La dichiarazione finale adottata riafferma il valore centrale della cultura, l’obbligo di rispetto dei diritti umani e collettivi e l’urgenza di rafforzare le economie locali ed i processi di gestione collettiva dei territori.  Rigetta anch’essa il modello neoliberista, e propone un rilancio della cooperazione tra popoli indigeni e della resistenza a progetti distruttivi, assieme a regole vincolanti per le imprese.

Prossima tappa del movimento indigeno globale sarà la preparazione della Conferenza Mondiale dei Popoli Indigeni che si terrà a New York nel 2014.  

Lungo questo percorso si snoderà anche l’agenda di lavoro adottata dai partecipanti alla “Cupula de los Povos” , l’incontro dei movimenti sociali “per la giustizia sociale ed ambientale – in difesa dei beni comuni, contro la mercantilizzazione della vita”. Dopo alcune giornate di lavoro i movimenti sociali hanno adottato una dichiarazione che condanna il capitalismo verde della “green economy” e l’operato di governi, imprese transnazionali ed organizzazioni finanziarie internazionali riaffermando il ruolo centrale delle alternative praticate dal basso. Alternative che sono nelle mani dei popoli, delle comunità, nelle pratiche e nei sistemi produttivi tradizionali, e che devono essere ancorate alla tutela degli spazi pubblici e dei bei comuni. Dandosi appuntamento ad uno sciopero generale globale, i movimenti sociali ribadiscono l’ importanza del riconoscimento dei diritti dei popoli alla terra, dei diritti umani, del necessario cambiamento di paradigma energetico, il riconoscimento del debito storico ed ecologico, la sovranità alimentare. Insomma un manifesto per la giustizia ambientale e sociale che ispirerà le iniziative del dopo Rio.

Accanto a questo processo se ne sono sviluppati altri, uno, quello più istituzionale  dello “stakeholder forum” e dei “dialoghi” promossi dal governo brasiliano, che sono risultati ingessati nelle procedure, e di poca rilevanza in termini di proposta politica innovativa, al limite della cooptazione.

Da tenere a mente invece quello messo in campo da una rete di ONG e società civile che hanno ripreso il testimone di quei Trattati alternativi adottati al Global Forum 20 anni fa. Un processo largo di consultazione on-line su temi chiave quali il cibo, il debito, l’economia ecologica, le imprese, il clima, l’energia, i modelli di consumo, che ha portato a Rio all’adozione di un manifesto ne quale i firmatari si impegnano ad una serie di azioni ed una piattaforma comune di intenti . Temi che spaziano dall’equità intergenerazionale e nelle relazioni tra umani e natura, alla rilocalizzazione dei sistemi economico-produttivi, al decentramento dei processi decisionali ed il sostegno a stili di vita sostenibili, dalla protezione dei diritti della Madre Terra, alla democrazia ecologica radicale, alla costruzione di un movimento globale che sia in grado di localizzare vertenze ed alternative possibili, sempre con uno sguardo globale. 

A Rio sono stati finalizzati 14 trattati dei popoli sulla sostenibilità, tra cui quello sulla Madre Terra, sui valori etici e spirituali dello sviluppo sostenibile, sulla democrazia ambienale, i diritti, i modelli di consumo e produzione, il trattato sulla transizione verso un mondo senza combustibili fossili.

Insomma, portando lo sguardo fuori dai palazzi “istituzionali” e dai negoziati ufficiali, emerge una molteplicità di   processi di elaborazione collettiva, alcuni dei quali indubbiamente con limiti dovuti sia a carenze organizzative che a dinamiche politiche interne, ma che nel loro insieme  rappresentano una agenda multiforme alternativa rispetto a quella dominante.

Per questi soggetti Rio è stata soprattutto occasione di incontro, costruzione di rete, e di prodotti “immateriali” che sortiranno effetti nel corso degli anni, a seconda della capacità e volontà di far derivare dagli stessi progetti politici comuni di trasformazione della società e dell’economia globale.

Tra tutti i limiti che Rio ha evidenziato, uno su tutti: quello della forte carenza di “politica”, schiacciata tra gli imperativi della “realpolitik” e l’assenza di attori capaci di dare rappresentanza e sostegno alle istanze dei movimenti e dei soggetti sociali transnazionali. Una carenza sottolineata anche da molti partecipanti alla Cupula de los Povos e che senz’altro sarà la cifra delle iniziative e delle proposte che seguiranno all’appuntamento di Rio, a livello istituzionale e non.



  

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