Se
penso alle vicende del mio partito (mi viene strano definirlo "mio
partito"sa di vecchio, meglio forse dire la comunità umana con
la quale ho deciso per un periodo della mia vita di condividere
un'esperienza politica) in questi giorni, penso ad una cipolla. Non
perché la cipolla faccia piangere, ma per la sua conformazione.
Strati, pellicole, bucce, che nascondono un cuore fragile, minuscolo.
E provo a sfogliare quelle pellicole e quelle bucce. La prima
pellicola, la più esterna, quella che mi pare così lontana dal
cuore. Di chi troppo sta in prossimità del mondo esterno, al punto
da seccarsi. Di chi dovrebbe racchiudere in sè l'immagine del tutto,
ed invece si spella, si attorciglia, si secca. Nella relazione con il
potere cade preda di una sindrome di Stoccolma. Poi c'è l'altro
strato, quello spesso, che scrocchia sotto i denti, un pò aspro,
quello si fa piangere. O forse peggio, è assai indigesto, resta
sullo stomaco. Ma ci si fa l'abitudine, se la cipolla la tagli con il
coltello imbevuto di succo di limone o la sbollenti. É lo strato
delle discussioni fini a sé stesse, dei codici antichi di una
sinistra che tarda a rinnovarsi per essere all'altezza dei propri
compiti e delle proprie sfide. É una buccia dura da pelare, ci vuole
pazienza. E' la buccia di chi urla al tradimento, di chi si chiude
nelle stanze per decidere chissàcche, considera le persone
“risorse”, “compagni di spessore”, “autorevoli”, o bravi
compagnucci, l'ottimo compagno dirigente o la giovane compagna
promettente. Che poi c'è sempre qualcuno che casca in piedi, buono
per tutte le stagioni, e chi si allontana. Che incasella storie,
entusiasmi, indignazione, coraggio civile in schemi su una scacchiera
di relazioni di potere che incarna lo stesso potere che dovremmo
sfidare. Poi c'è la buccia più tenera, quella di chi ancora ci
crede, ma davvero, con il cuore più che con la mente. Con la
passione più che con l'ideologia. Con innocenza più che con
calcolo. Lì si piange meno, l'acido via via sparisce. Non c'è più
bisogno di limone per tagliarla via. Ma è anche la più dura a
spelare, attaccata com'è al cuore fragile, che nasconde una piccola
piantina verde. Se dovessi pensare oggi a cosa fare, penserei a
questo. A spelare via quelle bucce ormai secche o indigeste, e
tornare al cuore. Tenero e fragile. Quello che ci porta ad
indignarci, a stare accanto a chi soffre le ingiustizie, a scendere
per strada, costruire relazioni, studiare per capire l'avversario, e
decomporne, decodificarne gli schemi ed i linguaggi per poi assestare
colpi micidiali. Di chi oggi si oppone, ma lo fa tutti i giorni -
mica, meno male, solo in un partito! Chi si oppone alla
prevaricazione, al predominio del mercato, si mette tra un migrante
ed un “autoctono” che lo insulta, vive di curiosità
intellettuale, si lascia dietro il pregiudizio e l'ideologia, cura la
Madre Terra perché madre. Mette un piede nel partito ed uno nella
società, nella carne viva. Prova ad diffondere il suo sapore. E sa
distinguere le due forme di rabbia. La rabbia saggia, quella
costruttiva, che dirige verso i suoi compagni di viaggio, per
smuoverli e incitarli a continuare il cammino. Una rabbia saggia che
costruisce, che contiene tenerezza e solidarietà. E quella
micidiale, spietata. Che rivolge all'esterno, verso chi compie le
ingiustizie, chi opprime, chi condanna alla precarietà,
all'ecocidio, alla guerra, alla marginalità. Ecco questo
proprio non riesco a capire in queste ore, l'uso inutile della
rabbia.
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