sabato 13 dicembre 2014

Con gi occhi degli altri - contributo alla conferenza programmatica di SEL - Human Factor

Con gli occhi degli altri.

“Je suis l'autre” diceva il filosofo Emmanuel Levinas, in un approccio ripreso anche da uno dei principali filosofi inglesi d'oggi, Simon Critchley, nel suo troppo poco conosciuto in Italia, “Responsabilità infinita” o “Infinitely Demanding” ovvero etica dell'impegno, politica della resistenza. Da questa prospettiva credo si possa partire per tentare di ricostruire il senso dell'agire politico oggi, in una fase di crisi e di interregno.

La prima domanda propedeutica che mi viene alla mente leggendo Human Factor é :”dove sono gli altri?” Dove sono le migliaia di persone che quotidianamente costruiscono alternative, praticano modalità differenti, esercitano il potere senza comandare, si sforzano di aprire spazi di agibilità, sono in prima linea nelle periferie, negli spazi virtuali del lavoro che non c'è, nelle occupazioni, nella costruzione di distretti dell'economia solidale, o per bloccare opere inutili, o l'espansione della frontiera petrolifera, che coltivano biologico, o producono cultura e saperi. Se si mette il naso fuori dai nostri spazi, le nostre “comfort zones”, si sentono le loro voci. Ci chiedono: “dove siete?”. Forse anche noi ci domandiamo la stessa cosa, dove sono loro? Sempre dalla parte dell'osservatore che si accinge a mettersi per l'ennesima volta in viaggio mentre gente già in viaggio ce ne sta tanta e da tempo, magari non su un jet supersonico, ma lentamente, profondamente, e con dolcezza per dirla con Alex Langer. Ecco io credo che dovremmo essere noi l'altro.

L'altro, che poi dovremmo essere noi stessi, viene assimilato, fino forse a sparire, nel concetto di “fattore umano-human factor”. Non ho nulla in contrario all'uso di un anglicismo che nei fatti assume una critica diretta alla trasformazione della politica in “infotainment” e degli esseri umani in “risorse” o fattori di produzione. Quello che mi preme sottolineare è l'urgenza di andare oltre il concetto di un nuovo “umanesimo” , quando oggi il punto è quello di ricostruire una visione del mondo nel quale l'umano (che non è solo lavoro, o lavoratore, ma essere umano detentore di diritti fondamentali, in primis) è solo una delle parti, e dove la dignità umana è parte integrante assieme alla salvaguardia degli ecosistemi. 

Non ci può essere giustizia sociale senza giustizia ambientale. Se guardiamo quindi al nesso tra umani ed ecosistemi, il principale elemento di crisi con il quale fare i conti oggi è l'emergenza dei cambiamenti climatici, giustamente accolto come punto chiave nel documento. Una crisi che non può essere semplicemente risolta con un'enfasi salvifica dalla semplice conversione ecologica dell'economia, quando il problema è – per dirla con Serge Latouche, del quale però stento a condividere appieno la mistica della decrescita – quello dell'occidentalizzazione del mondo, della trasformazione in economia di tutto, della finanziarizzazione dei nostri diritti, dell'aggressione quotidiana agli stessi. Allora, per permettere una vera conversione, che non sia alla fine “maquillage verde” fatto di false soluzioni, quali il carbon trading, o l'uso di meccanismi di mercato, una cosa va detta. E le parole di Eduardo Gudynas ascoltate qualche giorno fa alla Cumbre de los Pueblos per la giustizia climatica a Lima sono state di grande chiarezza: non possiamo permetterci di tirare fuori altro petrolio, punto. Il tema della conversione ecologica deve partire da questo, dall'assuzione del “limite”, (“Limiti alla crescita” diceva decenni or sono – era il 1972! - un essenziale testo dell'ambientalismo, il rapporto Meadows del Club di Roma) una critica alle politiche energetiche, di sviluppo, dalla rottura del ricatto del debito e dell'austerity per fare cassa. L'ambiente non è questione di riforma del sistema di mercato o di rispetto e culto del paesaggio o della bellezza, è un tema di profonda trasformazione del modello, una transizione non nello sviluppo ma “dallo” sviluppo. Non è possibile però alcuna trasformazione del modello economico estrattivista, che estrae petrolio dalla terra, valore finanziario dall'aria o dalla vita, che estrae tempo ed energie vitali al nostro diritto alla felicità, senza una profonda trasformazione del sistema politico, una revisione a tutto tondo che rimetta al centro la democrazia reale, e che riconosca l'entita della vera sfida: da una parte quella di “democratizzare realmente la politica” e dall'altra di contribuire alla “ri-politicizzazione dello spazio pubblico”.

Uno spazio pubblico che è anche “comune”, politica come “commons” necessario per la ricostruzione di uno spazio pubblico transnazionale, ad esempio l'Europa. Questo passaggio rimette in discussione anche le vecchie categorie della sinistra, il pubblico, l'intervento dello stato, la cittadinanza. A vedere bene, oggi la crisi del concetto e della pratica della governance (o governabilità della compatibilità) è infatti anche la crisi del sistema che vedeva tradizionalmente legati in un rapporto quasi contrattuale stato, mercato e società civile. Un sistema nel quale irrompe la finanza, l'economia speculativa, fino a procurarne la trasformazione. Lo stato restringe le sue attribuzioni e ruolo, non scompare ma si mette al servizio del mercato, che a sua volta viene trasformato dalla finanza, il cittadino o società civile si trasforma in cliente o utente. Oggi ci sono elementi che attraversano tutt'e tre le dimensioni della governance, fino a metterla in discussione profonda. Oltre alla finanza, il “comune” o “commons”, allo stato attuale forse l'unico antidoto alla finanziarizzazione. Ma non la spuria ricostruzione di una nuova forma di comunismo, o “benicomunismo”. Sono i “commons” come intesi da Ivan Illich, non definibili o normabili, ma che da una parte sono beni materiali ed immateriali essenziali per la vita e la dignità di questa generazione e delle generazioni a venire, dall'altra devono essere resi indisponibili al mercato e gestiti in modalità collettive. E si badi bene, con un profondo senso di responsabilità e cura, perché sono beni ereditati dalle prossime generazioni.

Torniamo alla domanda iniziale. Chi è l'altro? Da una parte chi cerca l'alternativa forse, e la esercita, assai probabilmente senza più percepire la necessità di una rappresentanza politica. Dall'altra chi è altro da noi, dal nostro universo di riferimento valoriale, etico, politico, sociale e culturale. Quella mucilagine di cui parlava a suo tempo il CENSIS. Allora, il compito arduo è quello di indagare, di scandagliare, di andare a recuperare ciò che resta, ciò su cui tentare, in un'opera collettiva, di ricostruire il senso dell'agire politico. Nel mentre non possiamo abbandonarci alla mera ricerca, piuttosto dovremmo rimettere al centro l'urgenza di intervenire contro le diseguaglianze, metter freno all'erosione progressiva dei diritti, contrastare l'avanzata dei nuovi poteri “duri”, che usano strumenti come il ricatto del debito, del pareggio di bilancio, la deregulation, l'aggressione alle risorse naturali, la conversione del sistema produttivo in apparato industrial-militare. Accanto al contrasto, la proposta, con l'attenzione di non cadere nella sindrome della “lista della spesa”, ma modulando ipotesi di lavoro coerenti, e legate tra loro. Su questo la proposta di struttura di lavoro delle giornate di Human Factor mi pare azzeccata.

Azzeccata perché orientata all'azione e non alla contemplazione. Giacché è ormai ineludibile chiedersi se oggi l'agire politico non debba essere fatto di concretezza, di risposte concrete ai bisogni materiali delle persone, di resistenza nonviolenta e partecipata all'avanzare del mercato e della finanza, da una parte e di costruzione di spazi di liberazione dall'altra. Spazi reali o virtuali, concreti o immateriali, dalla produzione di cibo, alla creazione di orti urbani, alla sperimentazione artistica, alla resistenza nei territori, dall'uso degli strumenti di democrazia diretta (si vedano le raccolte di firme per l'abolizione del pareggio di bilancio o in passato i referendum sull'acqua ed il nucleare), cyberattivismo e costruzione di reti. Ho detto non a caso resistenza nonviolenta, riferendomi alla nonviolenza come modalità di creazione di relazioni e nessi, una pratica che riconosce il conflitto come elemento essenziale di una democrazia viva, attiva, ma che lo metabolizza, lo abita, lo decostruisce nello sforzo di costruire un legame differente tra i cittadini ed il potere, tra i cittadini e lo stato. Ha ragione Annah Arendt, quando dice che lo spazio politico è un “rifugio dalla violenza” piuttosto che la sistemizzazione della violenza. Ed è questo spazio politico e pubblico che dobbiamo mettere al centro della nostra indagine e proposta.

Per questo oggi come non mai è dalle pratiche – ed anche dai conflitti (“abitati”) - sociali che si può ricostruire un progetto di società giusta, orizzontale, che metta al centro la dignità degli umani, e la tutela del Pianeta e la proposta di lavoro delle tre giornate appare coerente con tale obiettivo. Per questo la nostra discussione dovrà lasciare spazio o meglio lasciarsi compenetrare dalle pratiche sociali e politiche “altre” , farsi “aprire” dagli altri oltre che aprirsi agli altri.

Passiamo ora allo spazio: il nostro sguardo dove si rivolge? In alto? In basso? Attraverso? All'altezza degli occhi? Oltre il proprio naso? Prova a superare frontiere e confini? Si tratta forse di mettere a punto una visione cosmopolita dell'agire politico, saper cogliere l'altro oltre i confini ormai usurati – nel bene o nel male - dello stato-nazione, il rimettere in discussione la costruzione di “frontiere” visibili o meno. Da quella in mare che condanna migliaia di esseri umani a morire nel fondo del Mediterraneo, a quella invisibile ma tragica che separa i centri dalle periferie, nele città come nel mondo. Un mondo che ormai non ha confini per le merci, ma che fa la guerra per difendere o per far saltare confini politici, al seguito di utopie nazionaliste o identitarie, che siano di razza o religione. Questo dimostra la difficoltà di essere cosmopoliti, e di accettare di vivere in una società multiculturale e plurietnica. Credo che per poterlo fare sia necessario ed essenziale decolonizzare il nostro linguaggio e la nostra pratica. Dove sono i migranti, o le seconde generazioni? Dov'è l'interculturalità nella nostra analisi, proposta e pratica politica? Dov'è l'Islam? Dove sono i Rom, Sinti, Camminanti, Khorakané? Non basta invocare l'antirazzismo, o ritualmente condannare l'ennesimo atto di xenofobia, o strage in mare. Occorre vedere l'altro, comprenderlo, quando l'altro non è solo pratica politica ma soggetto di diritto al quale i diritti vengono negati. 

A questo si collega anche il concetto proprio del pensiero femminista di “agency”, ossia la determinazione e la consapevolezza dei cittadini e cittadine, o meglio di soggetti incarnati, di essere soggetti attivi, e quindi la necessità di adottare un modello di analisi dei processi politici e sociali che metta al centro gli “agenti” e decostruire quegli approcci che vedono i soggetti detentori di diritti come vittime dell'ordine delle cose. Senza scordarci che l'altro esiste comunque e a prescindere dalla capacità di un partito politico di “svelarlo” o comprenderlo, qualora ci siano gli strumenti o la volontà politica di farlo. E mettendo in conto che alla fine è anche possibile che - come acutamente disse Julia Kristeva - “nous sommes etrangeres a nous memes” siamo stranieri a noi stessi.

C'è poi lo spazio per l'azione di trasformazione politica,   coordinata essenziale per un soggetto che vuole essere ponte, cerniera tra il potere e la società. Chritchley ci dice che la vera politica si pratica in quello che lui definisce “uno spazio interstiziale all'interno dello Stato”, spazio e spazi che non sono dati, sono creati dalla pratica politica. Forse il soggetto o la soggettività politica multiforme che potrebbe originare anche dal confronto sul “fattore umano” dovrà – e per farlo dovrà dotarsi degli strumenti necessari – definire, coltivare, arricchire lo spazio interstiziale tra il potere dello Stato e l'assenza di potere, tra la critica e la costruzione di alternative. Credo infatti, e l'esempio più evidente mi pare essere la genesi di Podemos, che il tema sia quello di ricostruire uno spazio pubblico, attraverso la ridefinizione della sfera del potere (quel potere oggi in mano alle banche, agli organisimi finanziari, all'apparato industrial-militare ad esempio) e l'ampliamento della sfera della potenza , di quella della società che costruisce, pratica, elabora. Allora, ne consegue che la nostra azione politica dovrà essere orientata alla rielaborazione della sfera del “potere” per contribuire ad allargare quella della “puissance”, della potenza dei soggetti di diritto, degli “agenti”, dell'altro. E così facendo scoprirsi di essere “degni di ciò che accade”, per dirla con Gilles Deleuze.

Per farlo, dovremo immaginare una profonda riconfigurazione della forma dell'eventuale soggetto politico giacché la forma è sostanza, il processo è contenuto. Quale forma darsi, dovrà essere determinato dall'obiettivo politico, sarà la partita a definire lo strumento e non viceversa. Ed allora, si dovrà immaginare una struttura orizzontale, policentrica, diffusa, aperta, che si ispira ai modelli di open source, intelligenza collettiva, condivisione in rete. Un insieme di nodi, soggetti, realtà che mettono in comune storie, competenze, pratiche, analisi, elaborazioni. Un nuovo soggetto politico più che concentrare o coordinare dovrà agevolare sinergie, alleanze, relazioni tra coloro che già praticano il cambiamento sociale. In sommi capi significa che piuttosto che dotarsi di un organigramma classico, verticale, si dovrà pensare a qualcosa di radicalmente differente. Ad un nodo centrale, che irradierà verso gli altri nodi informazioni, strumenti di azione politica, competenze, conoscenza. Un nodo centrale orientato su temi che connotano la “missione” , da quella sui diritti civili, a quella della pace e della cooperazione, a quella dell'Europa federale, a quella della trasformazione ecologica dell'economia, i diritti del lavoro...Dal nodo centrale partono stimoli, proposte di campagne ed iniziative, verso i nodi decentrati. Questi non saranno altro che le vecchie “sezioni” o “circoli” riconfigurati come spazi aperti, di innovazione e buone pratiche, snodi di incontro ed iniziativa politica. Eppoi a livello territoriale, nei nodi, sarà possibile proporre anche forme e patti federativi con realtà di base esterne a SEL, associazioni, movimenti che condividono gli obiettivi e le priorità politiche. Stesso rapporto “federativo” può essere sperimentato attraverso una riattivazione dei forum, luoghi di connessione, terzi spazi tra soggetto politico, ed altri soggetti, individui o organizzati che lavorano sui temi specifici. Giacché quelle realtà associative intendono costruire relazioni con la “politica” sulla base di obiettivi chiari e competenze comprovate. Dal nodo centrale partono anche proposte di campagne su temi chiave, mirate a conseguire obiettivi chiari e qualificabili, da perseguire con gli strumenti della rete, dell'ciberattivismo, ed anche con strumenti classici o innovativi di comunic-azione, dai flashmob, alle azioni dirette nonviolente, agli strumenti di democrazia diretta, dai referendum alle leggi di iniziativa popolare. Nei nodi vige la regola del consenso, e la rotazione delle funzioni di facilitazione e coordinamento. Altro nodo sarà quello delle rappresentanze istituzionali, dai parlamentari eletti agli amministratori locali. La rappresentanza istituzionale deve essere parte integrante di questo processo di creazione di intelligenza collettiva,e di azione politica, attraverso gli strumenti, le risorse e le prerogative proprie. Dovranno anche loro contribuire a costruire questi terzi spazi di relazione, rappresentanza, iniziativa politica dal basso e verso l'alto. 

E per chiudere il tema che comunque al netto di tutte le analisi torna e tornerà alla nostra attenzione. Ma poi, come ci mettiamo alle prossime scadenze elettorali? Aspettiamo che gli eventi altrui determinino le nostre scelte? O decidiamo di evitare di cadere nella trappola così efficacemente descritta da Jacques Derrida, quando sottolinea come sia difficile pensare al nuovo quando ciò dipende dall'evento di altri? Ritorna quindi il tema del potere e del rapporto con le istituzioni. Su questo, e per concludere, prendo in prestito le parole di Immanuel Wallerstein, tratte da un suo illuminante articolo di qualche anno fa sulla sinistra del XXI secolo:
 
.”..Ci sono quelli che vogliono essere pragmatici, Vogliono lavorare dall'interno - all'interno del principale partito di centrosinistra laddove esiste un sistema multipartitico. (...) Ed ovviamente ci sono quelli che condannano questa politica di scegliere il male minore. (...) Il fatto è che la stragrande maggioranza del 99% sta soffrendo duramente nel breve periodo. Ed è questa sofferenza la loro principale preoccupazione. Stanno cercando di sopravvivere, ed aiutare le loro famiglie ed i loro amici a sopravvivere. Se pensiamo al governo non come agente potenziale di trasformazione ma come strutture che possono avere una certa influenza sulla sofferenza a breve periodo, attraverso decisioni politiche immediate , allora la sinistra è obbligata a fare ciò che può per ottenere da questi decisioni che possano minimizzare la sofferenza.

Con gli occhi degli altri , lo sguardo rivolto all'altro, e quindi a noi stessi.



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