per il Manifesto, 2 marzo 2016
Ha suscitato ammirazione il discorso di
accettazione del premio Oscar per “The Revenant” nel quale
Leonardo di Caprio esprime il suo sostegno ai popoli indigeni, alle
loro lotte contro le imprese multinazionali, e per proteggere la
Terra dai cambiamenti climatici. Non va però dimenticato che la
realtà sul terreno, per le migliaia e migliaia di indigeni,
campesinos, uomini e donne che soffrono l'impatto devastante di
quella che David Harvey ha definito la seconda fase del capitalismo,
quella “estrattivista”, non è un pranzo di gala. E' piuttosto
questione di vita o di morte come dimostra la tragica notizia di
ieri dell'assassinio della leader indigena dell'Honduras Berta
Caceres, ennesima cronaca di una morte annunciata. Insignita lo
scorso anno del prestigiosissimo Goldman Environmental Prize , Berta
era un esempio, un punto di riferimento, una compagna per chi lavora
accanto a comunità indigene, chi sostiene la resistenza contro le
grandi opere, il diritto all'autodeterminazione. Nel 2010 aveva
partecipato come testimone alla sessione del Tribunale Permanente dei
Popoli dedicata alle imprese europee in America Latina, in occasione
del vertice- Euro-Latinoamericano di Madrid. Dal 2013 in Honduras
erano state assassinate altre tre donne compagne di Berta, che
lottavano accanto a lei contro la diga di Agua Zarca sul fiume
Gualcarque, dalla quale proprio a seguito delle campagne di pressione
di Berta e delle reti di solidarietà internazionali si erano
ritirate la International Finance Corporation della Banca Mondiale e
l'impresa statale cinese Sinohydro. Va sottolineato che dal golpe
del 2009 che portò alla destituzione del presidente Zelaya il paese
ha registrato un aumento esponenziale di progetti idroelettrici per
la generazione di energia a basso costo necessaria per alimentare le
attività di estrazione mineraria. Ed è proprio da allora che il
mondo sembra essersi dimenticato dell'Honduras. Poco più di una
settimana fa Berta e 200 esponenti delle comunità indigena del
popolo Lenca vennero fatti oggetto di gravi intimidazioni da parte
dei sostenitori della diga, in occasione di una loro manifestazione
di protesta quando vennero fatti scendere a forza dai bus e costretti
a camminare per cinque ore attraverso zone infestate dai
paramilitari. Sempre a febbraio alcune comunità del popolo Lenca
erano state espulse dalle loro terre con la forza. Oggi la notizia
del suo assassinio nella sua casa nel paesino di Esperanza, Intibucà.
Il suo nome si unisce a quelle decine di difensori della terra che
ogni anno cadono per mano di sicari, forze di sicurezza, “pistoleros”
di imprese o di grandi latifondisti. Secondo l'ONG Global Witness
solo nel 2014 sono caduti 116 difensori della terra, in una media di
due a settimana. Il 40% erano indigeni la cui unica colpa era quella
di opporsi a progetti idroelettrici, minerari o di estrazione
mineraria nella maggior parte dei casi imposti violando le
Convenzioni internazionali sui diritti dei popoli indigeni ed il loro
diritto al consenso previo libero ed informato. 3/4 dei casi
registrati da Global Witness erano in Centramerica ed in Sudamerica.
Dal 2004 al 2016 solo in Honduras hanno trovato la morte 111 leader
ambientalisti ed indigeni. Una strage silenziosa quella dei difensori
della terra, denunciata più volte, ad esempio in occasione delle
iniziative parallele alla COP20 di Lima, funestate dalla notizia
dell'uccisione di Josè Isidro Tendetza Antun, leader Shuar
ecuadoriano trovato morto pochi giorni prima di recarsi a Lima per
testimoniare ad una sessione del Tribunale dei Diritti della Natura e
delle Comunità Locali, che ha in cantiere proprio una sessione
dedicata ai difensori della Madre Terra. Nel 2014 Edwin Chota,
leader della comunità Ashaninka nell'Amazzonia peruviana venne
ucciso assieme ad altri tre suoi compagni per essersi opposto
all'estrazione di legname dalle sue terre. Tomas Garcia compagno
di lotta di Berta assassinato nel 2013 o Raimundo Nonato di Carmo
che si opponeva alla diga di Tucurui, o Raul Lucas e Manuel Ponce
uccisi nel febbraio del 2009 per essersi opposti alla diga di Parota
ad Acapulco, Una sequela interminabile di omicidi collegati alla
costruzione di dighe o altri progetti di sfruttamento delle risorse
naturali. Andando ancora indietro nel tempo, e riaprendo gli archivi
del genocidio Maya perpetrato in Guatemala dalle varie dittature
militari, riemerge la storia delle centinaia di indigeni Maya Achì ,
376, sterminati dall'esercito per far posto alla diga di Chixoy,
allora costruita dalla Cogefar Impresit, grazie a finanziamenti della
Banca mondiale e poi anche della cooperazione italiana. Solo qualche
mese fa, dopo venti anni, i parenti di quei morti hanno iniziato ad
ottenere un risarcimento dal governo guatemalteco.
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