lunedì 6 giugno 2016

Di pontieri, traghettatori o hacker della politica




E’  da quando ne abbiamo discusso a fine Maggio  assieme ai partecipanti al convegno su Alex Langer che rifletto sulla categoria del fallimento, e sulla costruzione di ponti tra politica e societa'. Forse non di fallimento si puo' parlare, categoria assai occidentale e binaria, o vinci o perdi, a volte vale perdere bene piuttosto che vincere male. Eppoi il confronto con il potere e' una tensione continua, critica, fatta di breccie e rotture. Allora forse piu' che quello di costruire ponti, giacche' dall'altra sponda, quella della politica, le sabbie sono mobili e la sponda poco affidabile se non quasi deserta, o di fare la spola tra una sponda e l'altra, esplorando la famosa terra di mezzo, si tratta di usare altra tattica, quella dell'hacker che si insinua, prova ad usare per il proprio obiettivo, gli strumenti altrui, senza esserne fagocitato, che lavora sottotraccia, efficace ed invisibile fino a quando non apre una crepa della quale altri potranno semmai avvalersi. Semmai giacche' oggi altrove si puo' provare a praticare il cambiamento, dal basso, attraverso la resistenza e mutualismo, l'autogestione e la democrazia reale. Ecco forse oggi questo dev'essere il rapporto con la politica 'istituzionale' quello dell'hacker, piuttosto che del pontiere o del traghettatore. E quindi ci tocca stare dalla parte degli hacker. 

Eppoi sto leggendo un interessantissimo saggio sull’arte e la politica oggi, e nell’introduzione dal titolo magnifico “Quell’incorreggibile disturbatore della pace- that incorrigible disturber of the peace” di Sharon Slivinsky si parla dell'attivismo e del ruolo dell’artista nei confronti della politica e delle cose politiche. Una parte mi ha colpito perché a mio parere coglie anche uno dei segni della crisi della “politica” a casa nostra, ossia la mancanza di quella che l’autrice definisce “Political interiority”. Dice” In un'altra era l’avremmo definita come anima del cittadino. Non è un tema di gran moda ai giorni nostri, ma vale certo la pena di rammentare come, un tempo, ogni grande teoria politica cercava di affrontare i due livelli della vita umana, quello esterno e quello interno. Ad esempio Aristotele pensava che, al fine di permetter alla polis di sopravvivere e crescere, fosse necessario che i membri della città-stato avessero accesso ai beni materiali ma anche che potessero alimentare la loro psiche. Per avere un esempio più recente, si può ricordare Steve Biko, uno dei principali leader della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Con il fantastico pseudonimo Frank Talk, Biko articolò un processo di introspezione che chiamò “Black Consciousness”. La sua “prima verità” era di “far sì che l’uomo “black” guardi in sé, per pompare di nuovo vita in quel guscio vuoto, per infondergli orgoglio e dignità, per rammentargli della sua complicità nel crimine di permettere ad altri di abusare di lui . 
 
(…) Henry David Thoreau, nel suo saggio “Sulla disobbedienza civile” riflette sull’” idiozia di un’isttuzione che mi ha trattato come se fossi fatto solo di carne, sangue ed ossa”. Lo Stato, dice Thoreau, potrebbe disporre di uno squisito repertorio d tecniche per assalire e disciplinare il corpo, ma non riuscirà mai a affrontare il “senso interiore” degli esseri umani”. 

Ecco, questo forse è il punto. La politica oggi si ferma alla buccia delle cose, mentre le cose stesse si trasformano, si rigenerano o deperiscono, o acquisiscono un’altra interiorità. Ma quelli preoccupati di guardare troppo fuori o di coltivare la propria “coperta di sicurezza – la copertina de Linus per intenderci - fatta di dogmi, o ideologie o richiami a ideologie passate, atti di fede o affini - dimenticano di curare il “dentro”, il senso stesso del perché e del percome. In senso interiore degli esseri umani.

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