mercoledì 24 marzo 2010

da Copenhagen a Cancun, lo stretto cammino della giustizia climatica

Dal 9 all’11 aprile prossimo si riuniranno a Bonn i gruppi di lavoro ufficiali che dovranno riprendere le fila del negoziato sui mutamenti climatici, dopo la debacle di Copenhagen. Un compito complesso, che richiederà una forte presa di coscienza dell’urgenza della situazione. Ciononostante, le premesse non sembrano autorizzare un grande ottimismo. Già di recente nella comunicazione sul tema dei negoziati climatici, la Commissione Europea ha dato ad intendere che non si prevede un risultato definitivo nella riunione della Conferenza delle Parti che si terrà a Novembre a Cancún in Messico e che un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni sarà possibile solo in occasione della COP17 che si terrà nel 2011 in Sudafrica.
Che anche nelle Nazioni Unite l’aria sia pesante lo dimostra un recente scontro a distanza tra il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e l’inviata speciale dell’ONU sul clima , l’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland che aveva ipotizzato la necessità di procedere per negoziati separati rispetto alle Nazioni Unite. Per meglio comprendere la posta in gioco nei prossimi mesi vale la pena di ripercorrere le tappe che hanno portato al flop di Copenhagen. Che la COP15 non potesse sortire un risultato di rilievo era ben chiaro a tutti coloro che nel corso del 2009 avevano avuto occasione di seguire i negoziati e le trattative. Già a giugno la decisione del segretario della Convenzione Quadro sui Mutamenti Climatici (UNFCCC) Yvo de Boer, ora dimissionario, di aggiungere alla già densa agenda di appuntamenti altre due date lasciava presupporre che le posizioni dei paesi fossero molto distanti e che difficilmente si sarebbe potuto giungere ad un accordo legalmente vincolante sulle riduzioni delle emissioni di gas serra. Insomma la partita già di per sé complessa era avviata a concludersi in maniera deludente. Per meglio comprenderne la portata è opportuno riassumere quali erano e sono tuttora i temi più controversi. Il primo riguarda il protocollo di Kyoto sulle riduzione delle emissioni di gas serra, e del seguito da dare agli impegni presi dai paesi firmatari dal 2012 in poi. Impegni in buona parte disattesi dai paesi industrializzati e sui quali paesi in via di sviluppo chiamavano ad una presa di responsabilità chiara, ricordando il debito storico che il ricco Nord del mondo ha accumulato verso il Sud. Oggetto principale del contendere era e sarà l'impegno a contenere le emissioni future ad un livello tale da limitare l'aumento della temperatura. Le cifre in questo caso sono cruciali: la differenza di mezzo grado (da 2 a 1,5 gradi) potrebbe significare la scomparsa di intere nazioni, quali quelle insulari del Pacifico. Il secondo blocco di negoziato riguarda le iniziative da intraprendere nell'ambito di un nuovo accordo vincolante sul clima. I negoziati si sono sviluppati attorno alla cosiddetta “visione comune” ovvero i valori ed i principi fondanti dell'azione della comunità internazionale per affrontare l'emergenza climatica e sostenere modelli economici e produttivi a basso contenuto di carbonio nonché i programmi di adattamento, mitigazione e trasferimento di tecnologie pulite. Principale oggetto del contendere è l'ammontare delle risorse finanziarie, con i paesi in via di sviluppo che chiedono almeno 100 miliardi di dollari l'anno da destinare a programmi di adattamento e mitigazione dei mutamenti climatici, e l'assicurazione di accesso a tecnologie pulite.. Senza un impegno chiaro di riduzione delle emissioni dei paesi ricchi ed un impegno altrettanto chiaro in termini di risorse finanziarie, ogni accordo sarebbe risultato quindi inaccettabile da parte dei paesi in via di sviluppo. A metà del 2009 era evidente che la ritrosia degli Stati Uniti di accettare impegni vincolanti per ridurre le emissioni di gas serra, l'irrigidimento dei paesi in via di sviluppo nel sostenere la rilevanza e la centralità del protocollo di Kyoto, piuttosto che un suo progressivo indebolimento mirato a soddisfare le richieste di Washington, e l' assoluta assenza dell'Unione Europea avrebbero creato le premesse per un esito di basso profilo a Copenhagen. L’ “Accordo di Copenhagen” venne concluso senza il consenso di tutti i governi, e quindi senza essere ratificato come risultato ufficiale della Conferenza. Tra l’altro il documento non contiene impegni vincolanti per la riduzione delle emissioni, ma solo una serie di impegni volontari da verificare in corso d’opera, né proposte chiare sul come reperire le risorse finanziarie necessarie per le politiche climatiche senza ricorrere ai mercati finanziari o “riciclare” i già scarsi fondi per la lotta alla povertà. Per provare a trovare una soluzione al problema delle risorse finanziarie, nel marzo di quest’anno Ban Ki Moon ha istituito un gruppo di lavoro ad hoc con a capo il primo ministro inglese Gordon Brown ed il presidente etiope Meles Zenawi. A prescindere dal contenuti già deludenti del negoziato alla COP15 , il rischio attuale è che la sede delle Nazioni Unite venga gradualmente abbandonata per negoziati paralleli, un rischio reso ancor più evidente dalla polemica tra Ban Ki Moon e la Brundtland. Non a caso subito dopo Copenhagen si sono susseguite le polemiche sull'eccessiva complessità delle regole delle Nazioni Unite che striderebbero con l'urgenza di prendere misure immediate per salvare il Pianeta. Alla luce della scarsa volontà politica della grande maggioranza dei paesi sviluppati di restituire il proprio debito ecologico accumulato nei confronti del resto dell'umanità tali argomentazioni appaiono del tutto pretestuose. Ciononostante gli Stati Uniti hanno ribadito la loro intenzione di considerare l'Accordo di Copenhagen come l'unica base sulla quale continuare il negoziato, suscitando la ferma protesta dei paesi in via di sviluppo. La strada verso la conferenza che si terrà a Cancun, Messico a fine novembre è quindi tutta in salita. Tra le varie ipotesi in campo quella di procedere per parti separate e giungere ad un accordo su temi meno critici per poi concentrarsi su quelli più complessi quali appunto quello relativo alle riduzioni delle emissioni di gas serra. Per questo parallelamente al negoziato ufficiale si stanno svolgendo altri incontri informali, da quello tenutosi in Messico a metà marzo a quello programmato a Maggio dalla Cancelliera Angela Merkel. Per suo conto il governo boliviano ha convocato una conferenza dei popoli sui diritti della madre terra e la giustizia climatica che si terrà a Cochabamba dal 19 al 2 aprile prossimi al fine di contribuire a rilanciare l’iniziativa globale dei movimenti sociali sui temi della giustizia climatica. Nelle intenzioni dei partecipanti la Conferenza dovrebbe produrre un piano di lavoro ed una piattaforma comune su debito ecologico, diritti della Madre Terra, dei popoli indigeni e dei rifugiati climatici proponendo tra l’altro la costituzione di un tribunale internazionale sui crimini climatici. Altri incontri si stanno tenendo su temi specifici quali la tutela delle foreste, il cosiddetto “Reduced Emissions from Deforestation and Degradation” (REDD), Una prima riunione su REDD si è tenuta a Parigi a marzo, a porte chiuse e senza la partecipazione dei rappresentanti indigeni, per avviare un partenariato per le foreste che verrebbe siglato ad Oslo poco prima della riunione della Conferenza sui Mutamenti Climatici prevista per fine maggio a Bonn. Nel dopo Copenhagen, l'unico programma che sembra procedere è proprio quello relativo alla protezione delle foreste tropicali per il quale a Copenhagen sono stati annunciati impegni per 3,5 miliardi di dollari che potrebbero arrivare a 8 miliardi. L’idea è quella di dare soldi ai paesi tropicali per proteggere le foreste, bloccare la deforestazione, e assicurare che le stesse possano assorbire gas serra. L'uovo di colombo per quei paesi che vogliono continuare a bruciare petrolio e carbone, una minaccia possibile per i milioni di indigeni che vivono nelle foreste tropicali e che chiedono come condizione il rispetto dei propri diritti fondamentali. Un tema, quello dei diritti umani e del clima, che ha lambito il negoziato ufficiale ma che finora non è riuscito ad imprimere una svolta “culturale” e politica in un negoziato ancora troppo centrato sui numeri e sulla scienza e poco sulla giustizia e sull'equità.
pubblicato sui siti di Sinistra, Ecologia e Libertà, marzo 2010
e European Alternatives

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