Provare a tracciare un cammino che attraversi i vari processi che si prefiggono nel nostro paese l’obiettivo di trasformare la politica è cosa ardua, ma non impossibile. Indubbiamente l’onda lunga dei movimenti , tanto teorizzata e poi praticata, sta attaversando un periodo che a suo tempo definivamo carsico, senza essere in grado allora di coglierne le caratteristiche. Lo stato di fatica che attraversa il processo dei Forum Sociali , è forse risultato di diverse aspettative che in quei processi si sono riposte. Indubbiamente in Italia, come nel resto d’Europa, tali movimenti sociali riescono in parte a riemergere su questioni specifiche e puntuali, quali il contrasto ai processi di privatizzazione dell’acqua, o i mutamenti climatici. Per delineare le potenzialità di un periodo di crisi forte della politica - non solo istituzionale - di sinistra, e che può sembrare anche propria della sinistra diffusa e sociale, si dovrà partire però con un atto di autocritica. Interrogarsi – ad esempio - sulle ragioni della contemporaneità tra crisi della politica di sinistra e della sua scomparsa dalla scena istituzionale, e l’ innegabile difficoltà della “società civile” nel proporre e praticare processi e progetti nuovi, capaci di incidere profondamente e riattivare l’impegno diffuso per un altro mondo possibile. Sarà cioé necessario chiedersi se l’incapacità della “politica” istituzionale di fornire le giuste risposte, non sia anche riconducibile al fatto che tali domande venivano poste con modalità che non hanno sortito effetti, non solo sull’obiettivo prefisso, ma anche sulla costruzione di nuove pratiche. Il rapporto tra cosidetta società civile e politica istituzionale è stato in molte istanze impostato come rapporto verticale e non orizzontale . Questo vale non solo per la “politica istituzionale” che troppo spesso ha preso ad “icona” le istanze più importanti dei movimenti e della società civile, ma anche per questi ultimi soggetti che spesso hanno preferito rapportarsi a quel livello della politica solo come luogo di ricaduta dei propri interessi o rivendicazioni. La crisi contemporanea - ed evidente - della sinistra “politica” e quella - forse apparente - delle politiche di sinistra diffusa ci interroga quindi sul principio e la portata della rivendicazione di autonomia del sociale dalla politica, e del perché tale autonomia non abbia sortito l’effetto di trasformare – a parte alcune eccezioni - le forme e le pratiche di rappresentanza e partecipazione a livello più alto . Facciamo un passo in avanti. Realtà vicine all’economia solidale oggi cercano di svolgere un percorso di approfondimento “teorico” sulle buone pratiche di decrescita, indispensabile per irrobustire ipotesi di cambiamento dei modelli produttivi e di consumo. Il vero problema è che ciò non basta. E non solo perché esistono già le cosiddette buone pratiche, che insistono sui cosiddetti “territori”, ma perché mentre ci si accinge a studiare i modelli teorici di una società perfetta, nel mondo esterno, dove si sviluppano e si consumano conflitti sociali, si soffre un processo degenerativo della democrazia che richiede uno sforzo collettivo di resistenza, disobbedienza, e creatività per lasciare aperti e difendere spazi minimi di agibilità e di diritto essenziali per l’opera futura di ricostruzione. Ci sono poi coloro che continuano ad alimentare vertenze urgenti e necessarie, quali i comitati contro le varie nocività, il nucleare, la privatizzazione dei beni comuni. Sono processi importanti, che possono contribuire a creare una rete di realtà e soggetti in grado di ricostruire un tessuto connettivo, a rete, su tematiche ed approcci che rivendicano la democrazia diretta, i diritti fondamentali. Questi processi di “democrazia a kilometro zero”, assieme alle mobilitazioni delle organizzazioni dei migranti , aiutano a costruire un terzo pilastro, quello che in politichese si direbbe il passaggio dalla democrazia degli “stakeholder” a quella dei “rightsholder”. Ovvero il passaggio dai processi tradizionali, propri della democrazia liberale, nei quali la società civile veniva collocata tra le rappresentanze dei vari interessi in causa, che lo stato avrebbe poi contribuito a mediare, ai processi di autorappresentazione e rivendicazione di soggetti portatori di diritti, propri di una democrazia participativa e radicale. Il problema in questo caso è quello di spingersi oltre per contribuire alla costruzione di un possibile progetto di società, un programma che sia politico in questo senso. C’è poi chi trae dalle esperienze d’oltreoceano, in quel continente latinamericano in continuo fermento, l’ispirazione per rinnovare la politica. Quello che i movimenti latinoamericani ci insegnano è che oltre al riferimento etico “buen vivir”, tre sono le ipotesi politiche praticabili: o prendere il potere, attraverso gli strumenti tradizionali di rappresentanza, e poi esercitarlo in maniera più o meno innovativa, decidere di non prendere il potere ma di esercitarlo non tanto in quanto potere ma in quanto “potenza” che deriva dalla propria soggettività, storia e cosmología, (è questo il caso di molti movimenti indigeni e sociali) o rapportarsi con il potere e con la politica istituzionale in una modalità a geometría variabile, costruendo cioé progetti comuni, ma non esitando ad aprire conflitti per mantenere vivo il percorso di trasformazione sociale. Queste pratiche pur essendo proprie del contesto, delle situazioni e della storia di quei popoli e di quelle terre, rappresentano l’urgenza di rielaborare il concetto di potere, non inteso come “presa della stanza dei bottoni”, ma come opportunità per servire il bene comune. Ne consegue che la democrazia non può essere considerata un processo compiuto ma è sempre in itinere, e si alimenta - anche e soprattutto - della capacità di attivare e praticare conflitti e vertenze. Le rivoluzioni “cittadine” in alcuni paesi dell’America Latina non possono infatti essere confinate alle pratiche di quei governi, ma traggono massimo significato dalle profonde trasformazioni in corso in quelle società come prodotto collaterale rispetto all’ascesa al potere di formazioni politiche “progressiste”. Altri soggetti poi praticano l’autonomia, provando a costruire nel proprio spazio “liberato” un’ipotesi di società possibile, agibile, alternativa. Anche in questo caso questi processi hanno grande potenzialità: oltre alla resistenza, aprono lo spazio alle pratiche “altre”, intessute di teoria e critica radicale di paradigma, ma allo stesso tempo della costruzione di spazi di elaborazione e produzione artistica e culturale. Tali processi ed esperienze testimoniano che arte, politica, e cultura possono essere tre strumenti non separati, ma intrinsecamente connessi in un progetto di trasformazione dell’esistente. C’è poi chi sta provando a costruire partiti o formazioni politiche nuove, essenzialmente su base locale, o regionale, con l’intenzione di poter dare rappresentanza alle varie istanze della “sinistra” sociale. L’idea di poter articolare forme innovative di rappresentanza su base locale, non può prescindere però dalla necessità di riconoscere che oggi l’azione politica - seppur praticata a livello locale e delle nuove municipalità partecipate - necessita di un respiro più ampio, di luoghi di convergenza ed elaborazione che superino i confini geografici ed ideali dei cosiddetti “territori”. E che provino a praticare questa interrelazione tra locale e globale e viceversa che rende obsoleto il concetto stesso di “territorio”. Veniamo all’ultimo punto di analisi in questo rapido excursus analitico sulle forme e le pratiche della “buona” politica. Come detto all’inizio, i partiti “tradizionali” della sinistra sono “scomparsi” dalla scena istituzionale, e soffrono una fase di crisi di proposta, elaborazione e identità. La galassia di sinistra sociale che, nonostante le difficoltà, continua ad esistere ed operare nel paese si riconosce solo in parte nei partiti di sinistra. Una disaffezione che si è espressa in un alto tasso di astensionismo nelle ultime elezioni, e dallo spostamento di parte dei consensi verso altre formazioni politiche in nome del rinnovamento “morale” della politica (si veda ad esempio l’ascesa del “popolo viola”) o della scelta del voto utile. La politica dei partiti della sinistra sconta in buona parte il prezzo di non esser riuscita a cogliere le vere innovazioni che provenivano dalla sinistra sociale e diffusa, e rischia tuttora di ricadere in pratiche che ne hanno causato la quasi totale scomparsa nel nostro paese. Anche su questo sarà necessario che si interroghi chi oggi continua con ostinatezza e grande dedizione a tenere in vita nodi di resistenza e pratiche alternative. La questione centrale sarà di capire se ed a quali condizioni i “partiti” possano essere compagni di strada , o piuttosto siano ostacoli , o peggio ancora soggetti irrilevanti, in questo cammino di ricostruzione della buona politica. Altra tappa nel cammino sarà allora quella di non rifuggire un confronto critico, di merito e nelle pratiche, con i partiti della sinistra, arrivando a contemplare anche l’ipotesi di stringere un patto di lavoro tra varie componenti della sinistra “sociale” e proporlo poi ai partiti della sinistra. Un patto tra soggetti eguali, che riconosca l’eguale dignità ed il desiderio di sperimentare modalità e pratiche nuove intorno a tematiche cruciali. Tra queste il nucleare ed il diritto all’acqua, i diritti dei migranti, GLBQT e di cittadinanza, la giustizia e la povertà nel paese, la costruzione della pace, attraverso il disarmo nucleare ed il sostegno alla resistenza contro la base di Vicenza. A Carta due possibili compiti, quello di continuare nel suo sforzo di riannodare le trame delle sinistre, di quella sociale e diffusa, e di provare a fare altrettanto con i media alternativi, dalle riviste, alle radio, ai blogger, creando cosi uno spazio virtuale - ma anche concreto - di confronto ed elaborazione collettiva.
scritto per la rivista Carta Aprile 2010
www.carta.org
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