mercoledì 30 marzo 2011

Libia, "the devil is in the detail"

Credo che non si possa articolare un giudizio politico sull’intervento militare internazionale in Libia limitandosi ad opporsi alla guerra, né risolvere la complessità delle vicende che stanno attraversando il Maghreb ed il Mashrek con valutazioni e posizioni che rischiano di mettere in secondo piano la profonda spinta innovatrice di quei popoli, utilizzando categorie proprie dell’anti-imperialismo, o del pacifismo ideologico. Credo invece che le vicende del Maghreb e del Mashrek segnino un importante cambio di passo, e con esso la crisi della realpolitik, giacché dimostrano che sono i popoli che fanno la storia a prescindere dal gioco dei grandi interessi contrapposti. Indubbiamente la specificità della situazione libica, nella quale ci troviamo di fronte a moltitudini che hanno preso le armi per liberarsi da quel regime, e le risposte molto discutibili della comunità internazionale oggi alimentano una discussione all’interno ed all’esterno del movimento pacifista, che si polarizza sempre più e rende difficile la ricerca di un punto di sintesi e convergenza. Da chi rigetta la guerra senza se e senza ma, a chi invece sostiene l’intervento internazionale a fianco dei “nuovi resistenti al fascismo verde di Gheddafi” a chi vede in Gheddafi uno dei residui di un passato anticoloniale ed antiimperialista. Fatto sta che nella discussione sulla Libia oggi o sei bollato come “anima bella” o come guerrafondaio. Cosa ci sia nel mezzo di queste disquisizioni puramente nostrane non è ancora dato sapere. Certo è che così scompaiono dalla discussione quei civili per i quali era suppostamente stato approvato l'intervento militare, presi ora tra i fuochi incrociati di una guerra civile ormai internazionalizzata e tuttora vittime di una spietata repressione da parte delle forze "lealiste". Invece se si parla del popolo libico si inizia a mettere in discussione la natura degli insorgenti, che siano giovani democratici, riciclati del vecchio potere, elite progressiste, o cellule salafite vicine ad Al Qaeda, come se questo poi risolvesse il vero problema che è alla base della vicenda libica, e sulla quale sembra nessuno voglia focalizzare l’attenzione. Quello che dovrebbe interrogare davvero il mondo pacifista oggi riguarda un elemento di grande novità insito nella risoluzione 1917 e che marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite. Come intitola un commento lo Spiegel online, le Nazioni Unite hanno abbandonato il principio della pace per quello dei diritti umani. Forse questa affermazione è un po’ forzata ma certamente è la prima volta che viene nei fatti messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Insomma il fondamento base di una politica internazionale ispirata a principi etici e morali. Su questo punto credo si debba far chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità, e credo che in linea di principio si possa condividere il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale possa intervenire qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini. Il problema vero è se da un principio condivisibile si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che rischiano di creare pericolosi precedenti. E’ questo il nocciolo del problema nel caso della Libia. Il principio della R2P può funzionare solo in un quadro nel quale se ne prevenga l’uso in maniera selettiva, e nel quale la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Purtroppo questo è quello che sta avvenendo in Libia. Le modalità con le quali si è giunti alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza evidenziano come fin dall’inizio si volesse dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza, rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Ecco il vero paradosso della vicenda. Nel quadro di processi epocali di trasformazione sociale che evidenziano i limiti e le ipocrisie della realpolitik, quegli stessi attori politici che fino a poco tempo prima ne erano i principali fautori, oggi pensano di poter risolvere tale contraddizione schierandosi in difesa di popolazioni civili minacciate. Allora è chiaro che la prima vittima di questa vicenda rischia di essere proprio la “responsibility to protect” visto che viene utilizzata nei fatti come pretesto per sostenere un cambio di regime eterodiretto. In futuro sarebbe estremamente difficile in casi ancor più evidenti e gravi invocare tale principio visto che secondo il precedente che viene stabilito nel caso libico, questo implicherebbe comunque come ultima istanza l’uso della forza militare e degli strumenti della guerra per rimuovere un regime, piuttosto che difendere le popolazioni civili . Per non parlare poi del precedente che vede una coalizione dei volenterosi guidata dalla Francia e dall’Inghilterra prendere l’iniziativa militare per poi passare in un secondo tempo alla NATO. Insomma tutta la questione viene risolta all’interno di un quadro di “realpolitik” , in strutture puramente militari che rispondono a logiche di sicurezza improntata sull’uso delle armi, magari le più sofisticate possibili, e sulla sconfitta del nemico. Mary Kaldor in un suo recente scritto ha chiaramente evidenziato il rischio di una guerra umanitaria con tutte le conseguenze che questo comporterebbe sulle rivolte democratiche in altri paesi, sulla situazione dei civili in Libia e sulla tenuta del diritto all’ingerenza umanitaria. Che fare allora? Quale il ruolo del movimento pacifista? Certamente in prima istanza sarà necessario attivarsi per un cessate il fuoco immediato e la sospensione di operazioni militari che ormai stanno degenerando in sostegno attivo ad una delle parti in causa in un conflitto interno, per aprire un processo di mediazione internazionale, e nel caso considerare la possibilità di una forza ONU di interposizione composta da paesi che non hanno partecipato all’operazione Odyssey Dawn. E poi più in generale confrontarsi con la novità che questo intervento militare in Libia propone, e con le sfide politiche e intellettuali che rappresenta. Andrà quindi riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. Andrà formulato un pacchetto di ipotesi di riforma che prevedano ad esempio un ruolo centrale dell’Assemblea Generale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P, la creazione di strumenti di interposizione ed intervento a difesa dei civili che non siano lasciati in mano della NATO, ed anche l’adozione di politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Oltre questo resta il nostro impegno a sostenere politiche di accoglienza nei confronti di coloro che fuggono dalla guerra e di assistenza umanitaria, oltre che lasciare aperto un canale di dialogo, discussione e scambio reciproco tra le due sponde del Mediterraneo, nella prospettiva di costruire - come evocato a suo tempo da Alexander Langer - un nuovo progetto di fratellanza euromediterranea.

sabato 26 marzo 2011

Responsabilità di protezione: perché no?

"The maxims that largely guide international affairs are not graven in stone, and, in fact, have become considerably less harsh over the years as a result of the civilizing effect of popular movements. For that continuing and essential project, R2P can be a valuable tool, much as the Universal Declaration of Human Rights has been." Noam Chomsky, 2009


Per la prima volta nella storia la risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia recepisce il principio di "responsabilità di protezione", sviluppato nel corso degli anni e adottato dall'Assemblea Generale dell'ONU nel 2009. Un percorso che ha generato numerosi dibattiti e interrogativi sul diritto all'ingerenza umanitaria, dopo le stragi in Ruanda ed a Srebrenica. Con il
principio di responsabilità di protezione, l'ONU propone una revisione del concetto di sovranità, passando dal principio di sovranità come controllo delle frontiere a quello di "sovranità come responsabilità", principio che viene meno qualora il governo di quello stato viola la dignità o i diritti dei suoi cittadini. E' un passaggio epocale dal dovere di "non ingerenza" a quello di "non indifferenza", appunto il principio della responsabilità di protezione, invocato anche nel caso della Libia e che proprio in questo frangente viene applicato in maniera tale da creare un pericoloso precedente. Per questo è utile ed importante svolgere una serie di chiarimenti.

Per sgomberare il campo da eventuali equivoci va subito detto che i drammatici eventi in Libia ci richiamano all'obbligo morale e politico di non essere indifferenti, e di stare dalla parte di chi soffre violazioni di diritti umani e lotta per la libertà e la democrazia. Per questo l'obiettivo ed il principio della Responsabilità di protezione (R2P) non dovrebbero essere rifiutati, né con essi la possibilità dell’uso della forza come ultima istanza secondo quanto stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite. Detto questo però la modalità con la quale la R2P viene resa operativa in Libia suscita interrogativi ed alimenta forti perplessità, rispetto alle quali è possibile formulare delle ipotesi di lavoro.

a. COME DECIDERE DI INTERVENIRE?

Chi decide per l'applicazione del principio di responsabilità di protezione e dell’eventuale uso della forza? Se questa prerogativa è lasciato al Consiglio di Sicurezza il rischio è che attraverso veti incrociati si finisca per decidere solo in base a criteri di interesse nazionale dei paesi con diritto di veto (i P5) o si rischia la totale inazione. Allora anzitutto va affermato che questo principio, ed il conseguente diritto di ingerenza umanitaria, dovrebbero essere discussi e decisi nella maniera più democratica possibile, ossia dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove nessuno ha diritto di veto e vige il principio "una testa un voto". Così si potrebbe evitare il rischio di doppi standard e di un'applicazione strumentale del principio, che è pensato per difendere i deboli e non per promuovere gli interessi dei potenti. In attesa di una riforma in seno al Consiglio di Sicurezza potrà essere possibile per una coalizione di stati, proporre una risoluzione all'Assemblea Generale, prendendo atto della incapacità del Consiglio di Sicurezza di operare rapidamente, e chiedendo l'applicazione del precedente "Uniting for Peace". Secondo questa procedura l'Assemblea Generale può essere investita di questioni relative alla sicurezza ed alla pace, se la situazione sul campo è in rapido deterioramento, vengono meno le opzioni diplomatiche, è necessaria una decisione genuinamente multilaterale.

b. QUANDO INTERVENIRE?

Quando si deve decidere? Sarà necessario proporre che il sistema delle Nazioni Unite si fornisca di una capacità di "early warning" per prevedere lo scoppio di conflitti che possono mettere a rischio la vita di civili, ed attivare immediatamente l'Assemblea Generale, per mettere in campo tutte le misure politiche-diplomatiche- economiche volte a prevenire il conflitto. Qualora queste si rivelassero impraticabili si dovrà decidere per l'invio di una forza di interposizione (anche armata) che però risponda al comando delle Nazioni Unite, e non - come nel caso attuale - ad una coalizione di volenterosi, o della NATO. Uno dei problemi della risoluzione del Consiglio di Sicurezza sulla Libia è che non fissa la consequenzialità delle iniziative, e nei fatti dà massima enfasi agli strumenti militari che stanno ormai portando ad una progressiva escalation. Dall’imposizione di una No Fly Zone, ora si sta passando ad attacchi a terra, nei fatti ad una No Drive Zone, ed al sostegno all’offensiva militare di una delle due parti in conflitto, che mira all’abbattimento del regime di Gheddafi. Il rischio che ne deriva è che eventuali ricorsi futuri seppur legittimi alla R2P a tutela dei civili, vengano sempre visti come ancillari rispetto ad obiettivi eterodiretti di cambio di regime, così pregiudicandone efficacia e applicabilità.


c. COME INTERVENIRE?

L'intervento dovrebbe essere intrapreso attraverso il dialogo diplomatico, l'interposizione, assicurando il pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite e sempre tenendo in considerazione i diritti delle popolazioni minacciate che dovrebbero essere coinvolte e consultate rispetto alle modalità di intervento. Resta da decidere secondo i casi se si tratterà di polizia internazionale, o truppe dell'ONU, armate o disarmate, con armi leggere o solo per difesa, il mandato, e le strutture di comando . Inoltre in un secondo tempo quando dalla fase di prevenzione di possibili crimini contro l’umanità si dovrà passare alla transizione verso un sistema democratico legittimo, potrà entrare il campo la Commissione per la Costruzione della Pace (Peacebuilding Commission) delle Nazioni Unite. Spesso si porta a caso esemplare quello del Burundi, nel quale la R2P è stata applicata in tutta la gamma di modalità previste: dalla pressione della società civile per un'iniziativa diplomatica regionale, allo schieramento di una forza regionale di "peacekeeping", ed una volta raggiunta la pace, ed effettuate le elezioni, si è passati al sostegno alla ricostruzione post-conflitto.

Alla luce di quanto esposto, una posizione critica verso l'intervento militare internazionale in Libia non comporta il rifiuto del dovere morale di non essere indifferenti, né la possibilità di uso della forza (nel quadro di processi decisionali democratici, e come “ultima ratio”) ma anzi di preoccuparsi per i diritti dei popoli, sostenendo azioni che non rischino di rappresentare nuove modalità o giustificazioni per fare la guerra.

Per questo è anche importante sforzarsi di costruire nuovi linguaggi che non si limitino a voler leggere questi eventi in Libia ed anche nel resto del Maghreb e Mashrek secondo criteri geopolitici, o teorie della cospirazione varie. Continuare a ritenere questi eventi semplicemente in quanto conseguenza di fattori endogeni, che sia la crisi innescata dalla speculazione sui generi alimentari, o ipotetici grandi piani di controllo imperiale, di strategie imperialiste, o di accesso alle fonti energetiche, o di ridefinizione degli assetti di potere globale, mette in secondo piano il vero protagonismo di popoli che oggi vogliono solo libertà e democrazia. Invece di affermarli in quanto soggetti politici, un tale approccio continua a definirli come vittime da salvare con la nostra solidarietà, negando loro un ruolo centrale nei processi di profonda trasformazione che il mondo arabo sta vivendo. Ora come non mai, invece, quei movimenti per la libertà e la democrazia ci dimostrano che sono le persone ed i popoli che fanno la politica e la storia.

lunedì 21 marzo 2011

Una sfida per chi vuole la pace

Politica estera etica, intervento umanitario e eticità della politica: una sfida per chi vuole la pace.

di Francesco Martone (dicembre 2005). I milioni di uomini e donne che hanno marciato contro la guerra in Irak e che continuano a veder svolgersi sotto gli occhi il dramma di un popolo che soffre le conseguenze nefaste dell'imposizione dall'esterno della democrazia, con l'uso della forza, pongono oggi una serie di domande imprescindibil, relative alla ricostruzione di politiche di pace e di rafforzamento del diritto nelle relazioni tra i popoli. ;Queste domande necessitano di risposte chiare, radicali, ed inequivocabili, fondate su un'analisi critica di alcuni concetti e paradigmi di sicurezza che sembrano aver fatto breccia in maniera "bipartizan" nelle menti e nelle percezioni di culture politiche e pratiche diametralmente opposte tra loro. Il concetto di politica estera etica, e quello associato di sicurezza umana, ad esempio, attraversa la storia, a partire dal concetto di guerra giusta, per arrivare all'epoca wilsoniana, fino alla più recente politica estera neolaburista da Clinton a Tony Blair, per finire alla Strategia di Sicurezza Nazionale dell'Amministrazione Bush, o in alcune dichiarazioni rese dal candidato alla guida della coalizione del centrosinistra Romano Prodi circa la "politica estera etica" dell’Unione. Politica estera etica, reinterpretazione del concetto d’interesse nazionale, sicurezza umana, intervento umanitario sono in buona parte facce di una stessa medaglia, quella di un Giano bifronte. Rappresentano cioè il tentativo di ricostruire un’identità ed una ragion d’essere per strutture politiche e militari ormai rese obsolete dalla caduta del Muro di Berlino. Strutture che restano tuttavia di importanza vitale per tenere in vita un apparato industrial-militare europeo considerato come principale volano di sviluppo e crescita economica in una fase storica di grave crisi causata dall’applicazione acritica del modello neoliberista. E per l'Europa la costruzione ex-novo di una "Mission" per legittimare il suo ruolo di attore globale. In questo contesto, sarà necessario provare a fare chiarezza su concetti tanto ambigui quanto rischiosi.Anzitutto occorre porsi la seguente domanda: "difendersi da chi?". I rischi per la sicurezza oggi sono ben diversi da quelli che sussistevano prima della Guerra fredda. Non a caso, il numero di conflitti armati secondo lo Human Security Report (HSR) del 2005 è diminuito dalla fine della Guerra fredda del 40% mentre il numero di grandi conflitti (quelli cioé con oltre 1000 morti ed oltre) è diminuito dell’80%. Le guerre fra stati rappresentano oggi solo il 5% di tutti I conflitti armati e le crisi internazionali sono diminuite di oltre il 70% tra il 1981 ed il 2001.Secondo lo Human Security Report, le iniziative di prevenzione dei conflitti e di "peacekeeping" da parte delle Nazioni Unite - e non solo - hanno indubbiamente prevenuto l’insorgere di alcuni conflitti. Secondo lo HSR due sono oggi le grandi sfide: la prima é quella della povertà e delle diseguaglianze su scala globale, percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale come prioritarie rispetto alla percezione dell’opinione pubblica occidentale. La seconda è quella della risposta ai mutamenti climatici che, se non affrontati adeguatamente, possono creare grandi insicurezze a livello globale. Due problematiche che rappresentano la sintesi del fallimento del paradigma neoliberista e che giustificano ulteriormente l'urgenza di una svolta verso un paradigma economico ed ambientale radicalmente differente da quello dominante. Tra i dati interessanti contenuti nello HSR, vale la pena di riportare quello relativo alle cause della pace. Dalla fine della Guerra fredda, il Consiglio di Sicurezza, ormai libero dalle logiche dei blocchi contrapposti, ha approvato un numero crescente di attività di pacificazione, prevenzione dei conflitti, e costruzione della pace post-conflitto. Allora qual è il vero problema? Se il numero di guerre è diminuito sensibilmente, oggi potrebbe essere possibile springersi fino al punto da poter prospettare un profondo cambiamento di approccio e di mission per la politica estera del nostro paese. In attuazione dell’art. 11 della Costituzione l'Italia potrebbe farsi portatrice di una politica di mediazione e prevenzione dei conflitti, con l’obiettivo di diventare una "puissance tranquile" secondo la definizione data dal sociologo bulgaro Tzvetan Todorov. Una potenza neutrale ma allo stesso tempo direttamente attiva nel perseguimento della pace e del disarmo, a partire dalla revisione radicale delle sue politiche commerciali, ambientali e di sviluppo al fine di aggredire efficacemente le cause della povertà e degli squilibri ambientali globali. Così invece non è, anzi , l'introduzione di concetti come quello della sicurezza umana, della responsabilità di protezione ("responsibility to protect") e di politica estera etica, seppur condivisibili a prima vista , rischiano - nella pratica - di legittimare nuove forme di militarismo politicamente corretto. Nell'analizzare le caratteristiche di questo nuovo paradigma si dovrà necessariamente utilizzare un approccio necessariamente differente da quello della critica all'imperialismo. Il concetto di sicurezza umana rappresenta infatti una sorta di rivoluzione copernicana nell’elaborazione giuridica del principio di sovranità degli Stati, nonché del concetto stesso di frontiera e confine territoriale dell’esercizio della stessa. La ridefinizione di sicurezza ha portato così alla ridefinizione dello stato sovrano, oggi visto come barriera per la sicurezza umana e possibile complice di violazioni dei diritti umani. La politica estera etica ed il quadro di riferimento della sicurezza umana si basano perciò sulla possibilità d'intervento per conto di cittadini di uno stato da parte di un’altro stato o istituzione. Secondo alcuni studiosi del tema, il rischio derivante dall'applicazione del concetto di sicurezza umana, sarebbe quello di creare una situazione non-politica, laddove il cittadino di uno stato per il bene del quale si intende intervenire non è un co-beneficiario dell’azione né tantomeno un partner nell’azione relativa alla sua protezione. Anche la sovranità non deriverebbe più dai cittadini degli stati, ma risulterebbe concessa dalla comunità internazionale per conto di quei cittadini. Di fatto si compie la definitiva dissoluzione del concetto di sovranità già notevolmente diluito dall'affermazione globale del modello neoliberale e del consenso di Washington. Altro problema riguarda la securitizzazione e la conseguente inesistenza di una relazione politica a fondamento della teoria della sicurezza umana. La securitizzazione giustifica azioni al di fuori dei normali limiti della procedura politica, e concepire le questioni socio-economiche e politiche come questioni relative alla sicurezza potrebbe quindi portare ad azioni errate. Lo dimostrano l'esperienza con il Kosovo, la Somalia, Haiti, per non parlare dell'Afghanistan o dell'Irak. Sulla scorta dell'esperienza concreta si può pertanto affermare che l’approccio di sicurezza umana aumenta l’insicurezza e l'instabilità giustificando l'intervento in stati deboli o instabili. A livello internazionale permette invece di fare la guerra su basi arbitrarie creando maggiori timori negli stati più deboli. Da ciò ne consegue un impatto estremamente negativo sui cittadini degli stati nei quali si interviene, laddove il loro potenziale ruolo di soggetti politici attivi viene scavalcato dall'intervento esterno con conseguente maggiore instabilità sociale. Di qui la fine della "politica". Sicurezza umana significa pertanto mettere la protezione degli individui al centro delle politiche di sicurezza, abbandonando la vecchia idea di sicurezza intesa come difesa delle frontiere nazionali. L'interesse nazionale si fonde quindi con una sorta di imperativo etico, giustificato dalla necessità di superare la sovranità statuale per permettere alla comunità internazionale di effettuare nuove modalità di intervento, tra questi l’intervento preventivo (pre-emptive). Come dice il rapporto della Commissione Internazionale sull’Intervento e la Sovranità degli Stati, intitolato "The responsibility to protect", è necessario spostarsi da una "cultura della reazione" ad una cultura della "prevenzione". Che poi il concetto e la pratica di prevenzione abbiano in sé i germi di una nuova forma di interventismo post-imperiale è altra cosa. Anche se qui giova ricordare la differenza non solo semantica del termine inglese "pre-emptive" e "preventative". Una sfumatura che racchiude in sé la differenza sostanziale tra l’approccio alla sicurezza preventiva europeo e quello d’oltreoceano . La nuova strategia di sicurezza europea (ESS), la cosiddetta Dottrina Solana, sembrerebbe contenere nei fatti un'importante svolta poiché a differenza di quanto prospettato inizialmente, rigetta le suggestioni dell'unilateralismo, e della politica di potenza, adottando una politica di prevenzione piuttosto che di guerra preventiva. Il riferimento alla strategia della diplomazia di prevenzione ("preventative") è il frutto di un processo di dibattito serrato, iniziato all'indomani dell'11 settembre. Allora l'Unione Europea discuteva se e come mettere in pratica la dottrina preventiva (quella del "pre-emptive strike") teorizzata dagli ideologi neocon del Project for the New American Century, e poi cristallizzata nella National Security Strategy of the United States, e applicata nella guerra all'Irak. Il risultato finale contenuto nel documento Solana fa riferimento ad un non meglio specificato "preventative engagement", coinvolgimento di prevenzione, dando però enfasi agfli strumenti di cosiddetta "soft security", strumenti politico-diplomatici, ed economici per la prevenzione dei conflitti. Secondo la dottrina Solana, la prima linea di difesa sarà spesso all’estero e la UE dovrà sviluppare una cultura strategica che sostenga interventi rapidi e se necessario forti. A tal riguardo giova ricordare la proposta fatta da un gruppo di lavoro coordinato da Mary Kaldor, che ha prodotto un documento, (il cosiddetto Barcelona report) che suggerisce la creazione di una "Human Security Response Force" civile-militare, ed un nuovo quadro legale che possa governare sia la decisione di intervenire che le modalità operative. Una proposta che altro non fa se non legittimare ulteriormente sviluppi estremamente preoccupanti, relativi alla "fusione" tra sfera civile e militare, nel campo dell'aiuto umanitario, delle operazioni di ricostruzione post-conflitto, nella cooperazione allo sviluppo, come insegnano i casi delle operazioni CIMIC o delle Squadre di Ricostruzione Provinciale (PRT) in Afghanistan, tra cui quella di Herat a guida italiana. Per quanto riguarda la tipologia di minacce dalle quali dovrebbero essere protetti gli individui, c'è chi – i teorici dell’interpretazione restrittiva – tra cui Kofi Annan pensa che si debba trattare della protezione delle comunità ed individui dalla "violenza interna". Per contro, i fautori di un approccio ampio al concetto di sicurezza umana, intendono allargare il concetto ad includere la fame, la malattia, ed I disastri naturali che in sé uccidono più persone delle guerre, genocidi e terrorismo messi insieme. Nella sua formulazione più ampia, pertanto, l’agenda relativa alla sicurezza umana includerebbe anche la insicurezza economica e le minacce alla "dignità umana". Tuttavia, il concetto di sicurezza umana risulta essere troppo vago ed indefinito per poter essere in grado di produrre soluzioni politiche efficaci e compatibili tra loro. Un'ambiguità non casuale e ripresa anche negli ultimi documenti sulla riforma delle Nazioni Unite, quello prodotto al comitato di alti livello commissionato da Kofi Annan, quello a firma dello stesso Annan, ("Towards larger freedom") e la dichiazione finale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2005, chiara nel riferirsi al principio di "sicurezza umana" ed estremamente vaga sugli impegni per la prevenzione delle cause delle nove guerre, dallo sradicamento della povertà al disarmo. La sicurezza umana è quindi assurta a quadro di riferimento concettuale e pratico sia a livello di Nazioni Unite che a livello europeo. Tutto ciò rappresenta una forte contraddizione, poiché sicurezza umana ed intervento etico legittimano le azioni di alcuni stati delegittimandone altri, in nome della comunità internazionale. Un uso strumentale ed indiscriminato del diritto d'ingerenza può creare perciò un sistema di "apartheid globale". Ed e' proprio questa concezione che ha indebolito strutturalmente l'impianto di governance globale costruito sul sistema delle Nazioni Unite attraverso pratiche di selettivita', doppi standard, e l' uso strumentale dei diritti umani per giustificare interventi umanitari. Inoltre, l'intervento umanitario affronta i sintomi ma non le cause, rendendo vana ogni possibile iniziativa di prevenzione, che - al contrario - necessita di una reale rielaborazione del concetto stesso di sicurezza. Una politica estera nuova dovrà pertanto mettere al centro della sua azione politica modelli innovativi per la prevenzione diplomatica dei conflitti, al fine di comprendere i circuiti virtuosi che possono essere innescati da politiche commerciali eque, strategie di cooperazione allo sviluppo, e di sostegno ai processi di mediazione e dialogo. Per poter esercitare un ruolo che Etienne Balibar definisce di "mediatore evanescente", l'Italia per prima dovrà scegliere la via del disarmo, della riduzione delle spese militari e della riconversione dell'industria bellica dismettendo la produzione di armamenti e sistemi d'arma disegnati secondo le nuove strategie di difesa e di sicurezza nazionale ed europea a favore di strumenti di lavoro coerenti con la nuova vocazione di prevenzione diplomatica e nonviolenta dei conflitti. Piuttosto che rafforzare la capacità di "proiezione" militare sullo scacchiere globale, legittimata dall'adozione delle priorità della lotta al terrorismo, e dell'intervento umanitario, l'Italia dovrò dotarsi di capacità di prevenzione "politica" dei conflitti attraverso la creazione di corpi di pace, la partecipazione a contingenti di polizia internazionale, e di interposizione pacifica e nonviolenta. La vera "quaestio" relativa alla scelta tra pace e guerra riguarda in ultima analisi una rielaborazione delle pratiche politiche degli stati, e la loro proiezione internazionale. Se e' vero, come dice Jean Baudrillard che la guerra "altro non e' se non la continuazione dell'inesistenza della politica con altri mezzi", e' anche vero che una politica estera di pace dovrà ricostruire le basi della politica. Di conseguenza andrà contrastata un'idea di politica estera di potenza, che vede nello strumento militare uno dei suoi parametri d'azione a vantaggio di un nuovo modello di politica cosmopolitica, basata sui diritti e sul diritto, sulla prevenzione e sulla mediazione. Un impegno certo difficile ma ineludibile per ricostruire le basi di una umana e pacifica convivenza nel rispetto dei diritti dei popoli, e per un nuovo multilateralismo che rifugga le tentazioni autoritarie proprie delle pratiche di guerra preventiva e di lotta al terrorismo che rischiano di diventare le caratteristiche pregnanti della politica estera del XXI secolo.

Ed è la guerra

“Come un mostro grande che pesta duro” dice Leon Gieco nella sua splendida Solo le Pido a Dios. Chiede a Dio che la guerra non lo renda indifferente, la guerra un mostro grande che pesta duro, sulla povera innocenza della gente.

Ci sentiamo così tutti, calpestati, nei nostri ideali nelle nostre convinzioni chi si era illuso che questa ipotetica No Fly Zone potesse servire a salvare dei civili, e chi – e mi riconosco in questi – aveva intuito che dietro c’era qualcosa di diverso, di ben più grave. E così ora guardiamo tutti attoniti, l’escalation della macchina della guerra, il mostro grande che scalza con una zampata l’illusione della potenza mite del dialogo, del negoziato.

Se osiamo metterla in dubbio, allora ci viene detto che siamo dalla parte di un pazzo sanguinario, chiusi in una morsa che oggi nel nostro paese assume un aspetto ancor più inquietante. Se parliamo il inguaggio del dialogo ci ridono in faccia da destra a sinistra, ci si chiede di essere seri, in grado di proporre soluzioni plausibili. Sembra come se questa guerra serva a ricostruire il senso di un paese, l’Italia, che ormai ha perso un nomos ed un ethos comune, a 150 anni dalla sua unità. Come se la guerra fornisca un senso ordinatore nel caos e nell’incertezza creati dalla precarietà, dall’incapacità di proiettarsi nel futuro. Ricordo la nausea provata qualche giorno fa cogliendo alcuni istanti di una trasmissione televisiva che ricordava i 150 anni e metteva in scena una apologia della guerra, del povero soldato innamorato, perso nell’orrore delle trincee. Senza che nessuno ci ricordasse che a migliaia vennero fucilati da ottusi generali perché non volevano più uccidere. C’è altro ed è forse lì che si deve lavorare a fondo.

Questa avventura folle che rischia di aprire un vaso di Pandora, è stata costruita ad arte, giocando nel subconscio delle persone, Di chi ama la libertà e la democrazia, e di chi, tutti noi, era rimasto già colpito e perso di fronte alla forza tremenda del terremoto, e dello tsunami. Allora ci siamo sentiti impotenti, di fronte alla nostra piccolezza. E così mentre i nostri occhi inorridivano di fronte alle immagini di distruzione provenienti dal Giappone, mentre si metteva in dubbio la fede nella scienza e nella ragione, scomparsa nel fumo radioattivo di Fukushima, si stava preparando il campo ad un nuovo orrore, costruito a livello mediatico e subconscio. Un orrore al quale però l’uomo una risposta poteva riuscire a darla con la forza bruta, nell’illusione di essere in grado di piegare gli eventi.

Questa guerra entra nel nostro subconscio, scatena sentimenti bestiali, basta leggere alcune pagine Facebook nelle quale c’è chi ringrazia Iddio per una No Fly Zone, affida a ottusi generali la soluzione di un senso di impotenza e stupore di fronte ad un mondo che ha ormai perso di senso. Eppure un senso ce lo stavano regalando quei giovani di Piazza Tahrir, di Tunisi, quei colleghi del blogger libico Mohamed Namous, ucciso da uno “sniper” lealista (così li chiamano) mentre provava a raccontare con coraggio ed ironia l’orrore dela repressione e della guerra. Quei giovani senza kalashnikov, armati solo di Skype e di una microtelecamera. Un nuovo nomos, altro che quello della patria e della forza, quello della dignità e della potenza dolce della libertà. La stessa che sentiamo essere nostra, noi che amiamo la pace, che siamo nonviolenti, e crediamo ancora nell’innocenza della gente.

Francesco Martone

giovedì 10 marzo 2011

Sulla Libia, la guerra, i diritti dei popoli

Da settimane ormai arrivano ogni giorno notizie drammatiche dalla Libia. Come in un copione conosciuto si snoda il linguaggio ufficiale e quello ufficioso, si imbastisce l’informazione e la controinformazione, si rispolverano vecchi armamentari ideologici per giustificare un possibile intervento militare o condannarlo a priori come guerra imperialista. Mentre si discute di “no fly zone”, “no drive zone”, gli alti quadri della NATO iniziano a studiare piani, le diplomazie si lanciano in febbrili consultazioni e tentativi. Ci viene dapprima proposta la retorica umanitaria, i “genocidi”, i paralleli con il Kossovo o il Ruanda, le inesistenti fosse comuni, o bombardamenti a tappeto contro civili. Un battage necessario per predisporre l’opinione pubblica all’uso delle armi. Quelli di Aavaz scatenano poi le loro truppe telematiche che inviano fino a 600mila email alle Nazioni Unite invocando l’imposizione della “no fly zone". Mica uno scherzo, come ammette anche il Segretario alla Difesa Robert Gates, per imporla si devono bombardare le artiglierie antiaeree libiche. E poi se si inizia con la “no fly zone” non si va dove si va a finire, molto probabilmente in un nuovo pantano afghano, semmai la “no fly zone” fosse mai stata intesa a proteggere i civili. Forse questo agli ignari cyberattivisti non è dato sapere. Mentre la diplomazia internazionale, la stampa e l’opinione pubblica si cimentano con le drammatiche vicende libiche, in Costa d'Avorio si sta consumando un'altra guerra - che ci interroga nuovamente sui dilemmi ed i rischi dell'intervento umanitario - e nella quale la Francia aveva già usato la forza militare ("raid mirati" inclusi). E proprio il presidente Sarkozy, dopo aver riconosciuto unilateralmente il governo provvisorio di Bengasi, propone "raid mirati". Dall’Eliseo si scaldano i muscoli nel tentativo di giocare , dopo il fallimento della creatura del presidente francese – l’ Unione del Mediterraneo, il ruolo di playmaker nella regione, scavalcando la UE , i cui ministri degli esteri si stavano riunendo nelle stesse ore del suo annuncio a Bruxelles. Questa dichiarazione, fatta parallelamente al riconoscimento del governo ribelle, di fatto sposta il baricentro dalla ipotetica difesa delle popolazioni civili, allo schieramento accanto ad una delle parti in conflitto in una guerra civile. Quella che viene venduta come ingerenza umanitaria si trasforma così in appoggio ad un cambio di regime, precludendo così ogni possibile ruolo di mediazione da parte di chi si schiera accanto ad una delle parti in guerra. In questo quadro confuso e convulso va comunque sottolineato che da più parti si nega la possibilità di intervenire senza l'avallo dell'ONU, ma nulla più. Eppure anche una think-tank non certo pacifista o "di sinistra" come l'International Crisis Group ha cambiato idea: non propone più la "no fly zone", ma chiede ora un cessate il fuoco bilaterale ed un negoziato internazionale. A parte la proposta di Chavez di mediazione internazionale, quella del presidente delle Maldive di una forza di interposizione di caschi blu, e l’adozione – con qualche annetto di troppo di ritardo - di sanzioni economiche ed embargo alle armi, nessun altro passo è stato però fatto per evitare di dare come ultima istanza la parola alle armi. Per questo è urgente lanciare la proposta di una possibile soluzione pacifica e diplomatica, della quale potrebbero farsi carico paesi delle due sponde mediterranee, con l'invio di una missione di mediatori indipendenti, l'ONU potrebbe attivarsi attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza o direttamente attraverso l'Assemblea Generale, usando la risoluzione Uniting for Peace. Obiettivo quello di dare mandato alla mediazione internazionale e inviare un contingente di caschi blu per monitorare il cessate il fuoco, fornire assistenza umanitaria, indagare i crimini commessi nel conflitto, se necessario sotto protezione armata. Insomma piuttosto che cedere alla suggestione della forza, per sostenerne o meno l’uso, sarebbe doveroso impegnarsi a discutere su come portare la pace in Libia attraverso il rispetto della legalità, del diritto internazionale, e la diplomazia. L'unica via possibile.