mercoledì 25 marzo 2015

I diavolo nei dettagli del nuovo decreto missioni all'estero

“The devil is in the detail”, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. La traduzione forse un pò approssimativa in italiano, aiuta a sollevare la cortina di “normalità” che accompagna quasi ritualmente la discussione parlamentare sui decreti missione, le missioni italiane di “pace”, insomma.
Il decreto legge che il Parlamento sta discutendo stavolta è pieno di dettagli “nascosti”, di sottotracce che evidenziano un grave e preoccupante cambio di passo nella politica estera del paese. Da sempre l’attenzione era rivolta alle aree di “guerra”, dal Kosovo, all’Irak, all’Afghanistan e i dettagli venivano in subordine, Oggi è il contrario e questo decreto nasconde tra le pieghe sviluppi assai gravi per quanto riguarda le procedure ed il merito, e l’approccio che tutto questo sottende. Il decreto missioni “storicamente” fin dai tempi del governo Prodi, quando alle missioni si decise di integrare anche progetti di cooperazione allo sviluppo, è stato considerato un decreto “omnibus” dove salivano un pò tutti, dai diplomatici in cerca di guarentigie, alla cooperazione internazionale, ai Comites, ai funzionari della difesa ansiosi di smaltire eccedenze di armamenti.
Oggi il quadro si evolve ulteriormente, ed il decreto per la stragrande maggioranza viene dedicato alla lotta al terrorismo, con una serie di articoli che introducono norme antiterrorismo, definiscono chi è terrorista e chi no, la portata delle pratiche di monitoraggio e controllo della rete, le attività dei servizi di sicurezza. Questo decreto quindi segna uno spartiacque nell’approccio ai conflitti in giro per il mondo, assimilandoli di fatto tutti alla “lotta al terrorismo”. Le misure antiterrorismo contenute nel decreto ricalcano per filo e per segno quelle adottate in altri paesi dell’Unione Europea, accolte con grande preoccupazione dalle organizzazioni per i diritti umani.
Ce n’è una che colpisce l’occhio e riguarda la possibilità “per le Agenzie di intelligence, consentendo loro, previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, di effettuare, fino al 31 gennaio 2016, colloqui con soggetti detenuti o internati, al fine di acquisire informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale;”. Colloqui? Soggetti detenuti o internati? E quali controlli verrebbero messi in atto per evitare che tali “colloqui” degenerino? Nessuno lo dice né alcun riferimento viene fatto esplicitamente all’obbligo di assicurare il rispetto degli articoli 10 ed 11 della Convenzione ONU contro i trattamenti inumani e degradanti (la tortura per intenderci), né il Parlamento viene informato sui protocolli che verrebbero seguiti per tali “colloqui”. Per un paese che da anni dibatte ma non adotta una legge contro la tortura queste garanzie dovrebbero essere d’obbligo. E qui si apre l’altro piccolo dettaglio, nella procedura,
Giacché si dovrebbe immaginare che questioni relative ai diritti ed alla politica estera del paese vedano un ruolo centrale delle commissioni competenti, ossia la Commissione Affari Costituzionali e la Commissione Esteri, Così non è, anzi le due commissioni vengono solo chiamate a dare un parere, senza voto, niente emendamenti, nulla. Chi vota e decide sono la Commissione Giustizia e la Commissione Difesa, significando così due cose, la prima che nella lotta al terrorismo si può fare a meno delle garanzie costituzionali, la seconda che la politica estera ormai plasmata all’imperativo della lotta al terrorismo, è questione per i militari non per i diplomatici.
Dicevamo un cambio di passo – già nei fatti ma ora conclamato nero su bianco – notevole, che lascia già le sue tracce. Tracce che si possono leggere tra le righe della relazione introduttiva al decreto, quando si tratta della “razionalizzazione” della spesa, e degli investimenti nelle missioni all’estero e di come andare a racimolare 9 milioni di euro da redistribuire in altri capitoli – 9 milioni di euro sono nulla rispetto al bilancio generale, ma il significato politico appunto é nel dettaglio,
Con questo decreto l’Italia di fatto disconosce il ruolo delle Nazioni Unite nella gestione del conflitto nel Sahara Occidentale. Lo fa annunciando il ritiro del pugno di carabinieri che da anni sono parte integrante della missione MINURSO : “Nella medesima prospettiva di razionalizzazione del settore, mette conto riferire di altre missioni, citate nel presente provvedimento, che a breve, appena concluse le necessarie attività preparatorie, saranno altresì private della partecipazione nazionale e segnatamente: (…) MINURSO (United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara)” Così, en passant, con un colpo di spugna suppostamente ispirato a imperativi di bilancio, si getta dalla finestra il popolo Sahrawi con le sue legittime rivendicazioni di riconoscimento, il referendum e un ruolo centrale dell’ONU. Proprio quando dal Polisario e non solo veniva chiesta a gran voce l’estensione del mandato della MINURSO per monitorare le violazioni dei diritti umani inflitte al popolo sahrawi.
L’Italia così prende posizione, in silenzio a fianco al Marocco, e neanche tanto in silenzio a fianco del nuovo paladino della lotta al terrorismo, Al Sissi. Tra le missioni dalle quali ci si ritira c’è anche quella ONU di monitoraggio nel Sinai, fronte caldo per l’Egitto, non solo per la “lotta al terrorismo” ma anche crocevia di traffico di armi ed esseri umani. L’Italia stacca la spina, e questo ha un significato politico non indifferente che va oltre le ragioni contabili. Si lascia mano libera ad Al Sisi, si delegittima il ruolo delle Nazioni Unite, in nome della “securitizzazione” della politica estera. Eppoi la retorica dei diritti umani che lascia il tempo che trova, e riassume le contraddizioni della cosiddetta “politica estera etica” quella che si inventò il New Labour, la “responsibility to protect” invocata per seppellire la Libia sotto una coltre di bombe intelligenti con l’operazione Odyssey Dawn con i risultati oggi evidenti a tutti.
Quale politica estera etica ammette la selettività della sua applicazione? Ecco l’altro dettaglio: viene rifinanziata la missione dei carabinieri a Hebron (TIPH, Temporary International Prescence in Hebron), che dovrebbe avere come obiettivo anche quello di monitorare i diritti umani e le sue violazioni, scrivere dossier da mandare nelle capitali. Un lavoro che i carabinieri fanno e assai bene. Il Parlamento è stato mai messo in grado di valutare e prendere decisioni riguardo la situazione ad Hebron che chi ha avuto occasione di visitare equivale né più e né meno all’apartheid? Probabilmente quesi faldoni sono lasciati in qualche angolo remoto e così con essi le tragedie di un popolo.
Ancora, il capitolo di bilancio del decreto prevede una spesa di oltre 130 milioni di euro per la lotta al “Daesh” cifra ben superiore rispetto alle necessità di copertura per gli addestratori, gli aeromobili e materiali inviati ad Erbil. Una sorta di “argent de poche” pronta all’uso per ogni evenienza, magari per irrobustire la già forte presenza di navi e commandos italiani al alrgo della Libia? “Mare sicuro” dopo “Mare Nostrum”. Altro che lotta al terrorismo o corridoi umanitari. Quelle navi come ci dicono chiaramente anche testate nazionali al di là di ogni sospetto, sono lì per proteggere i terminali dell’ENI, e possibilmente verranno inserite nel quadro di Active Endavour l’operazione NATO di pattugliamento dei mari lanciata all’indomani dell’11 settembre ed ancora presente nel Mediterraneo per la quale ci sono soldi anche in questo decreto missioni. Un mare affollato non solo di petroliere o “barconi” quindi. Ancora, se il diavolo è nei dettagli, che diavolo significa quel dono al governo eritreo, di materiale ferroviario dell’Aeronautica Militare? E a chi andranno i razzi e le munizioni che verrebbero “regalate” al governo irakeno? Non certo ai Peshmerga, come fu – anche se con mesi e mesi di ritardo – il caso delle armi allora stoccate a la Maddalena e sequestrate ad un mercante di armi anni or sono. E vale la pena di ricordare che parte di quegli AK 47 vennero prima spedite in Libia per armare le milizie anti-gheddafiane oggi acerrime nemiche del governo di Tobruk e del generalissimo Haftar, alleato di Al Sisi. Della serie gli amici dei miei amici sono miei amici.
Già perché anche in questo caso non c’è bisogno di dibattito parlamentare, quelle armi ai Peshmerga e queste al governo irakeno, oltre ai tank o affini regalati al “Regno Hashemita di Giordania” o a Gibuti, sono parte dell’impegno italiano contro ISIS decretato sotto il sole d’agosto dello scorso anno. Allora le Commissioni vennero chiamate in gran fretta a deliberare l’invio di armi ai Peshmerga, rischiando una seria gaffe diplomatica giacché negli stessi minuti in cui le Camere stavano deliberando il primo ministro era a Baghdad per concordare i dettagli con il governo irakeno. Dettaglio infinitesimale quest’ultimo che dovrebbe invece essere la norma per un paese che consideri la politica estera una cosa seria.

mercoledì 18 marzo 2015

Bibi e la sindrome dell'assedio




Per provare a capire - semmai sia possibile - Israele e gli israeliani che si sono affidati ancora una volta – e dandogli una robusta maggioranza – a Bibi Netanyahu, si dovrebbe rivedere un documentario del regista israeliano Abu Mughrabi, “Per uno solo dei miei occhi”, che racconta l'ascesa della destra fondamentalista nel paese, il culto della storia e della forza militare, il mito dell'assedio di Masada. Il sacrificio degli ebrei intrappolati nella fortezza e che si sono fatti ammazzare uno dietro l'altro dai Romani pur di non arrendersi. 
 
Oggi la vittoria di Bibi, intenzionato a mettere in piedi una coalizione di destra, con partiti e partitini di varia foggia, (il partito dei coloni di Neftali Bennett e quello di Liberman hanno visto rosicchiare parte dei loro consensi, probabilmente verso il Likud), rischia di significare l'isolamento definitivo di Israele. L'irritazione suscitata dalle uscite mediatiche di Bibi in Francia alla marcia in solidarietà con Charlie Hebdo, lo sgarbo senza precedenti verso la Casa Bianca, con il suo “speech” infiammatorio al Congresso possibile solo grazie al sostegno dei repubblicani, il crescente sostegno di paesi europei e non al riconoscimento dello stato di Palestina, il garbato “ma anche no” con il quale le comunità ebraiche francesi e non solo hanno risposto al suo invito a trasferirsi nella “sicura” Israele stanno lì a testimoniarlo. Ciononostante, la violenza verbale e la spregiudicatezza dei suoi comportamenti, l'uso di toni anche razzisti nel denunciare il rischio di inquinamento delle elezioni da parte degli “arabi” hanno avuto la meglio su una coalizione di centro-sinistra capeggiata da Isaac Herzog e Tzipi Livni che resteranno all'opposizione. Altro che governo di unità nazionale come chiesto dal presidente Reuven Rivlin, che si era già a suo tempo distinto per le sue parole in sostegno al popolo palestinese. La destra vince quindi, vince l'idea di uno stato “ebraico” per gli “ebrei”, con gli Arabi Palestinesi cittadini di serie “b”, vince la politica di espansione delle colonie, sfuma la possibilità di riaprire un negoziato a armi pari, stante lo sprezzo con il quale Bibi ha liquidato la formula “ due stati per due popoli”. Lo disse alla vigilia delle elezioni, e c'è da scommettere che manterrà la parola. Strali contro l'Iran, da sempre invocato come il casus belli, per la sua politica nucleare, nel momento in cui l'accordo si avvicina, Bibi non esita a porsi come “spoiler” della politica di Washington verso Teheran. Una Israele quindi che sceglie in gran parte di mettersi sotto una sorta di auto-assedio, con il rischio di provocare la fine stessa del suo progetto originario. Cosa rimane dopo questa giornata elettorale? I Palestinesi – e noi saremo dalla loro parte - giustamente accelereranno la loro campagna internazionale per il riconoscimento, convinti che ormai Oslo sia cosa passata, ed anche che ogni chiamata al tavolo negoziale con Bibi dall'altra parte significava solo dargli un pretesto per continuare a mangiarsi territorio, e delegittimare Abu Mazen. Useranno il “bazooka” del ricorso alla Corte Penale Internazionale forse, ed allora sarà da vedere come si porrà Obama, se a Washington la ragion di stato prenderà o meno il sopravvento. Certo è che la politica degli insediamenti continuerà, Gaza continuerà a languire nel suo assedio, la pace si allontanerà, Semmai possa essere il tema della pace il punto di partenza sul quale tentare di lavorare per una possibile soluzione. 
 
In un suo editoriale di oggi Noam Sheizaf, di 972mag.com, si chiede “Ed ora Bibi? Dove vuoi andare a parare?”. Questo si chiederanno anche quegli intellettuali, attivisti uomini e donne di pace e giustizia che in Israele provano a far sentire la propria voce, e noi continueremo ad essere accanto a loro. E che ne è di Meretz, unico partito di sinistra (oltre quello degli arabi israeliani) che sostiene la causa del popolo palestinese? Perde un seggio, ma schiacciato tra il “campo sionista” e il fronte dei partiti arabi israeliani, rischia di rimanere definitivamente all'angolo. Sheizaf, amaramente pone una domanda ai suoi lettori e lettrici “per anni ci siamo chiesti se Israele preferisse porre fine all'occupazione o finire di essere una democrazia. Forse oggi gli israeliani hanno fatto la loro scelta?”