Manca ormai poco più di una settimana all’inizio della diciassettesima conferenza delle parti (COP) della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici che si riunirà a Durban e nella quale si tenterà di superare l’ impasse che da anni ostacola l’assunzione di impegni necessari per affrontare l’emergenza climatica, e avviare un processo di transizione rapida verso modelli produttivi e di consumo a basso contenuto di carbonio. Quest’ ennesimo appuntamento della comunità internazionale, si preannuncia già fortemente compromesso, se corrispondesse al vero ciò che in questi giorni ha denunciato il Guardian, ovvero che i paesi ricchi hanno ormai messo in conto che non sarà realistico giungere a nessun accordo vincolante sul clima prima del 2016, e che pertanto lo stesso possa essere messo in attuazione solo intorno al 2020. Queste indiscrezioni infiammeranno senz’altro le prime battute del negoziato che già si preannunciava complesso e pieno di incognite. Lo snodo centrale è rappresentato dalla necessità di ridurre le emissioni di gas serra per stabilizzare l’aumento della temperatura globale, e la volontà di assumersi l’impegno di stanziare fondi necessari per aiutare i paesi in via di sviluppo o in rapida industrializzazione. Se fino ad oggi nessun accordo è stato raggiunto lo si deve senz’altro alla mancanza di volontà politica degli Stati Uniti di sostenere un regime vincolante “a la Kyoto” che potesse obbligare Washington a fare la propria parte. D’altra parte però anche l’Unione Europea avrebbe potuto svolgere un ruolo di mediazione tra Stati Uniti e paesi quali India. Brasile, Cina ed invece ha assunto una posizione di basso profilo. Per quanto riguarda il protocollo di Kyoto, e la sua possibile sopravvivenza in un secondo periodo di vigenza, i negoziati sono ancor in alto mare. Negli incontri preparatori svolti a Panama ai primi di ottobre sono emerse varie ipotesi. Gli Stati Uniti insistono sull’adozione di un sistema di verifica delle riduzioni di emissioni nel quale i paesi fissano un tetto nazionale di massima, e si impegnano di volta in volta a rivedere lo stato d’attuazione, senza accettare l’eventualità di meccanismi di “enforcement” come quelli propri del protocollo di Kyoto. Questo sistema dovrebbe valere per paesi industrializzati come per quelli in rapida industrializzazione e in via di sviluppo. La resistenza di questi ultimi riguarda anzitutto il fatto che così facendo si viola il principio delle responsabilità eguali ma differenziate, che invece dovrebbe comportare un massimo impegno per la restituzione del debito climatico ed ecologico da parte dei paesi industrializzati verso il resto del mondo. Eppoi quest’ipotesi segnerebbe la fine del Protocollo di Kyoto, e con esso l’impossibilità di fissare un tetto vincolante per le emissioni di anidride carbonica. Il paradosso è che così viene meno anche uno dei presupposti necessari per alimentare il mercato globale di permessi di emissione, una delle ipotesi a costo zero prospettate dai paesi industrializzati e dalle imprese per compensare le proprie emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio da paesi che emettono di meno. Senza un tetto . si dice – non ci può essere commercio di carbonio. Altra ipotesi quella di andare avanti con il protocollo di Kyoto con i paesi intenzionati a sottoscrivere il secondo periodo che inizia nel 2012, Unione Europea in testa, e includere il Protocollo nel quadro di un accordo vincolante più ampio che includa Stati Uniti, paesi del G77 e paesi del gruppo BASIC (Brasile, India, Cina, Sudafrica). La speranza dei negoziatori è di tenere aperto il canale di discussione ed evitare un ulteriore rottura che rappresenterebbe davvero la fine del modello di negoziato multilaterale. A Panama ha poi preso sostanza la possibilità di un’estensione al 2015 del Protocollo di Kyoto per dar tempo e fiato al negoziato in attesa di tempi migliori. Altra ipotesi quella di creare un annesso C per paesi in rapida industrializzazione. Insomma la questione è ancora del tutto aperta, al punto che nel corso della conferenza stampa tenuta all’indomani della Pre-COP ministeriale del 20-21 ottobre la Ministra degli Esteri Sudafricana si è limitata ad accennare alla necessità di proseguire il negoziato sul tema, richiamando alla responsabilità di tutti per affrontare l’urgenza di una riduzione decisa delle emissioni. A Durban le parti dovranno anche accordarsi sui termini della revisione della soglia fissata a Cancun per il possibile aumento di temperature a livello globale. A Cancun si fissò una soglia di 2 gradi centigradi ritenuta da molti inadeguata o addirittura disastrosa, e si lasciò aperta la possibilità di rivedere al ribasso tale limite fino ad un massimo di aumento di temperatura di 1,5 gradi. Questo tema è direttamente connesso alle politiche di mitigazione, ed al rispetto del principio di responsabilità comuni e differenziate, che oggi restano due macigni sulla strada dell’accordo, In particolare la questione relativa alla mitigazione ed ai cosiddetti NAMA (Nationally Appropriate Mitigation Actions) riguarda gli impegni di rendicontazione e verifica internazionale (in gergo MRV - Monitoring Reporting and Verification), in un gioco al rimpallo delle responsabilità tra paesi industrializzati e G77. A Panama qualche passo in avanti sembra essere stato fatto identificando un sistema binario di rendicontazione per paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Nessun passo in avanti invece sulla definizione della forma legale di un nuovo accordo sul clima, sull’eventualità di adottare a Durban un accordo internazionale legalmente vincolante o meno. Su questo punto i negoziatori si sono sbizzarriti prospettando una serie di opzioni alternative: dall’adozione di una roadmap verso l’adozione di uno strumento legalmente vincolante, all’adozione dello stesso a Durban, ad una dichiarazione sul futuro di uno strumento legalmente vincolante, all’affermazione dell’importanza di uno strumento legalmente vincolante, ad un’indicazione a continuare a discutere. Insomma da Durban uscirà ben poco al riguardo considerando anche che gli Stati Uniti sono contrari alla possibilità che dalla COP esca un mandato chiaro, mentre si è aperta una frattura all’interno dei G77, con i paesi insulari AOSIS che spingono decisamente per un accordo legalmente vincolante e India e Cina che sono contrari a dar mandato per negoziare un nuovo accordo. La posizione dell’Unione Europea resta quella di sostenere un secondo periodo di impegno per il Protocollo di Kyoto (il cosiddetto “Second Commitment Period”) a condizione però che si trovi accordo su un mandato per uno strumento legalmente vincolante. Sul tema delle finanze si gioca l’altra delicata partita. A Copenhagen nel 2009, si concordò per un fondo iniziale di aiuto pari a 30 miliardi di dollari che avrebbero dovuto essere innalzati a 100 entro il 2020. Finora pochi di quei fondi sono stati esborsati, spesso riciclati dalla cooperazione allo sviluppo. Lo snodo delle finanze rappresenta l’altro vero ostacolo verso un possibile accordo di massima a Durban, al punto che un mancato impegno al riguardo rischia di pregiudicare anche la costituzione del Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata all’esborso dei fondi climatici. Anzi nell’ultima riunione preparatoria del Fondo Verde Per il Clima gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno puntato i piedi, non accettando un documento bozza nel quale non si chiarisce fino in fondo l’autonomia del Fondo dalla Conferenza delle Parti (cosa richiesta da Washington per aprire uno spazio di agibilità per la gestione da parte della Banca Mondiale), né il ruolo possibile del settore privato. Nel processo negoziale del Comitato Transizionale del Fondo Verde per il Clima sono emersi altri temi estremamente controversi sui quali non si è trovato accordo. Tra questi la possibilità di adottare un criterio di voto ponderato al Consiglio di Amministrazione del Fondo, ricalcando il sistema ben poco democratico del “one dollar-one vote” simile a quello seguito dalla Banca Mondiale, l’eccessivo potere dato al Consiglio, rispetto alla’autorità della Conferenza delle Parti, l’apertura di uno sportello dedicato al settore privato con modalità privilegiate di accesso, la decisione di passar dalla concessione di fondi a dono verso l’uso di fondi come leva per finanziamenti privati. Inoltre a fronte dell’intenzione iniziale di dotare il Fondo Verde per il Clima di due unici sportelli, uno per le attività di adattamento, l’altro per quelle di mitigazione, è emersa la richiesta dei paesi in via di sviluppo di aprire due altri sportelli uno dedicato al trasferimento di tecnologia l’altro alle attività di formazione e di “capacity building”. Nel corso della riunione di Panama si è anche raggiunto un consenso di massima sulla possibilità di uno sportello dedicato alle attività REDD+, ovvero di riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste, sulla necessità di adottare una decisione chiara sul rilancio delle attività REDD+ e sull’urgenza di ampliare l’approccio al tema, considerando anche le ricadute dei programmi REDD su biodiversità, lotta alla povertà e fonti di sostentamento delle comunità che vivono o dipendono dalle foreste. Insomma, le prospettive per Durban sono di un esito di basso profilo, con il quale si proverà a “vendere” la COP17 come il vertice sull’adattamento, tema centrale per l’Africa e per le comunità indigene e contadine la cui sovranità alimentare è oggi minacciata dai cambiamenti climatici. E si rilancerà un accordo sulle foreste, che però rischia di rimanere monco, vista l’assenza di consenso sulle modalità di finanziamento, mentre sul Fondo Verde per il Clima, altro risultato auspicato dalla presidenza sudafricana ci sarà da attendere fino all’ultimo minuto di negoziato. Insomma, se una cosa Durban ci dirà, ancor una volta, è che non ci troviamo ormai di fronte ad una crisi nel sistema, ma per parafrasare Zizek, ad una crisi del sistema. Lo ribadiranno a gran voce le migliaia di attivisti, e rappresentanti di movimenti che marceranno anche a Durban per chiedere un cambiamento del sistema e non dei cicli climatici . Una strada tutta in salita.
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