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domenica 18 dicembre 2011
un bilancio dopo Durban
Provare a valutare sull’esito della 17° Conferenza delle Parti sui Mutamenti Climatici da poco conclusa a Durban, è esercizio difficile o forse scontato. Da tre anni all’indomani delle varie COP, da quella di Copenhagen, (luogo del clamoroso flop che ha fatto scricchiolare paurosamente l’impianto multilaterale del negoziato) a quella di Cancun (nella quale si optò per la strategia dei “building blocks” , o dei piccoli passi) i pareri si dividono. Chi accusa il modello multilaterale di dare eccessivo spazio agli interessi degli inquinatori, o troppa voce a paesi insignificanti in una visione di politica di potenza, chi accoglie come evento di portata storica un impegno ancora sulla carta per un accordo internazionale legalmente vincolante, chi si accontenta di aver mantenuto il protocollo di Kyoto in terapia intensiva. Insomma si aggrava una già grande divaricazione tra realtà e volontà politica. Una realtà che richiede misure urgenti, mettendo a nudo l’inadeguatezza delle cifre sulle quali si costruirà l’impianto futuro di governo delle politiche climatiche. Oggi parlare di contenere un aumento di temperatura a 2 gradi o di 1,5 significa negoziare la sopravvivenza di interi paesi, e decine di migliaia di potenziali rifugiati ambientali. Eppoi c’è l’altra realtà, quella del modello stesso di negoziato, improntato sull “hard power”, sulla trattativa fatta di confronti diretti, di bracci di ferro, di “brinkmanship” come da gergo diplomatico, ovvero di passeggiate rischiosissime sul filo del rasoio per riuscire a strappare una mediazione al ribasso. Ci sono governi che in nome dell’equità chiedono un impegno di riduzione delle emissioni per tutti eccetto che per loro, e poi , come nel caso dell’India dimenticano opportunamente l’equità quando si tratta di politiche energetiche nazionali. O chi , USA, Canada, Russia, Giappone, cerca di affossare del tutto il Protocollo di Kyoto per un modello di gestione delle emissioni si base volontaria e senza alcun possibile sistema sanzionatorio. C’è poi chi, in nome dei paesi più poveri o dei diritti della Pachamama, fa appelli al riconoscimento del debito ecologico, e poi continua a far dipendere tutta la sua economia dallo sfruttamento di petrolio ed affini. Insomma, tra miopia nella capacità di lettura dei costi umani ed ecologici dei mutamenti climatici, e tatticismi o riposizionamenti strategici di paesi o blocchi di paesi, il negoziato sul clima rischia di perpetuare una profonda inadeguatezza, se non addirittura di trasformarsi in una palude nella quale resta invischiata qualsiasi ipotesi alternativa. Sia ben chiaro, oggi il problema non è quello di abbandonare il modello multilaterale, semmai quello di sforzarsi per renderlo più aperto, per farne uno spazio comune di elaborazione e proposta politica e programmatica per la cura dei “commons” atmosferici. La UNFCCC oggi questo non è. Restano fuori dalla trattativa e dalla partecipazione attiva soggetti non statuali , movimenti, realtà di base, la società civile, gli enti locali e le amministrazioni virtuose, le piccole imprese e cooperative che oggi lottano per difendere una nicchia di mercato, quella delle rinnovabili su piccola scala, dal dominio di poche multinazionali. A loro viene solo concesso il ruolo di “lobby” o di partecipazione ad eventi paralleli, o esposizioni sull’innovazione tecnologica, senza che dalle buone pratiche si possa distillare un congiunto di regole ed impegni per una trasformazione radicale del modello di sviluppo. Il primo punto sul quale riflettere nel dopo Durban è che oggi quel sistema di negoziato non rispecchia la trasformazione che è avvenuta nelle relazioni internazionali, nelle quali si sono andati affermando nuovi soggetti ed attori che rivendicano giustamente pari dignità nel governo del mondo. Anzi, la prassi di negoziati a porte chiuse, nei quali rappresentanti dei vari governi hanno combattuto fino allo stremo per difendere i propri interessi nazionali, a Durban addirittura sforando nei tempi supplementari, è continuata, mentre alla possibilità di accrescere il ruolo dei cosiddetti “stakeholders” è stato dedicato un misero workshop. Ad eccezione del cosiddetto settore privato, al quale vengono riconosciuti ruoli di tutto rilievo, intendendo però come settore privato quello delle grandi lobby energetiche non certo quello delle cooperative, piccole e medie imprese, realtà comunitarie o su piccola scala dedite all’innovazione. Insomma, finché l’UNFCCC resta un’arena di “wrestling” tra paesi e blocchi di paesi nella quale si riconfigurano o disegnano nuovi assetti anche geopolitici, non si riuscirà ad uscire dall’impasse. Così anche quella che oggi viene letta da alcuni come una grande vittoria, ovvero l’ impegno per concludere un accordo internazionale vincolante entro il 2015, (un “coup de theatre” annunciato, dell’Unione Europea che è riuscita in un colpo a farsi portavoce dei paesi più poveri e di quelli insulari e coinvolgere la Cina - magra consolazione per chi chiede un protagonismo maggiore dell’Europa sui temi globali) rischia di perpetuare uno scontro che poco ha a che vedere con il futuro del pianeta e molto di più con il posizionamento strategico o il puro e semplice interesse nazionale nella sua accezione più miope. Eppure, qualche giorno fa il Social Europe Journal, sottolineava come da una parte i governi hanno rinunciato alla loro sovranità nazionale a favore dei mercati finanziari, ed a Standards’ & Poore mentre dall’altra non ne vogliono sapere di cedere sovranità sul tema della riduzione delle emissioni. Eppoi il paradosso è che se per la crisi finanziaria i governi hanno accettato di agire di concerto (seppur proponendo le ricette sbagliate) per quanto riguarda il clima pospongono in continuazione ogni forma di accordo. Ecco l’ennesima contraddizione della quale il processo del negoziato climatico è profondamente intriso. Per tornare al risultato di Durban, secondo la strategia dei “building block” dalla COP17 esce un abbozzo di architettura istituzionale, dal Comitato per l’Adattamento, alla creazione del Fondo Verde per il Clima, alla segreteria per il trasferimento di tecnologia , all’accordo su modalità di informazione e rendicontazione dei programmi di mitigazione e del loro finanziamento, ad un quantomeno vago mandato per continuare nello sviluppo e messa in atto di programmi per la tutela delle foreste. Resta in rianimazione il protocollo di Kyoto, il cui secondo periodo di impegno viene sussunto - come in una matrioska russa - nel quadro di un “pacchetto” che prevede la negoziazione di un accordo globale vincolate per la riduzione delle emissioni entro il 2015 e che verrà negoziato in un gruppo di lavoro ad hoc sulla Piattaforma di Durban per l’azione rafforzata. Kyoto resta un Giano bifronte: da una parte guarda indietro, proponendo misure di mercato quali il commercio di permessi di emissione, soluzioni false all’emergenza climatica e dall’altra guarda in avanti, fornendo la base sulla quale provare a costruire un sistema globale di verifica e sanzioni per chi non ottempera agli impegni di riduzione. Le prospettive generali per il negoziato non sono incoraggianti. I governi si riuniranno di nuovo a maggio a Bonn per poi convergere tutti nella kermesse di Rio+20 dove il rischio di un assalto alla diligenza dei fondi climatici da parte della Banca mondiale è elevatissimo, come grande è la preoccupazione per un ulteriore spinta alla finanziarizzazione delle tematiche ambientali globali in nome di una non meglio definita “Green Economy”. E poi la prossima COP 18 sarà a Doha, in Qatar, cuore dell’impero petrolifero. Che fare allora? Aspettare il 2020 anno nel quale i nuovi possibili accordi diventeranno operativi, o azzardarsi ad implementare gli impegni di riduzione senza aspettare la loro ratifica dalla comunità internazionale? Se guardiamo a casa nostra, oggi, due possono essere le possibili strategie. Da una parte una moratoria all’espansione della frontiera petrolifera nel nostro paese, sostenendo le comunità e le amministrazioni locali, dall’Abruzzo, alla Basilicata alla Puglia che resistono alle trivellazioni. E dall’altra insistere nella costruzione di un blocco “sociale” tra movimenti per la giustizia climatica, associazionismo, amministrazioni locali virtuose, comunità che soffrono gli effetti dei cambiamenti climatici, sindacato, settori imprenditoriali “virtuosi” , settore finanziario “alternativo”. E non aspettare fino al 2020 che i governi decidano per il futuro del Pianeta ma praticarlo fin d’ora.
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