lunedì 5 marzo 2012

Appunti per una riforma della cooperazione allo sviluppo nell'era delle crisi

Si è tenuta la scorsa settimana a Roma, convocata dalle principali associazioni di Organizzazioni Nongovernative operanti nel settore (Link2007, Associazione delle ONG, CINI) una conferenza sulle prospettive della cooperazione italiana allo sviluppo.
Quest’ iniziativa si svolge in una congiuntura particolare. Per la prima volta in Italia esiste una figura istituzionale di Ministro della Cooperazione, Andrea Riccardi. Il Ministro ha svolto una relazione introduttiva nella quale ha abbozzato una serie d’ipotesi di lavoro e tentato di contestualizzare la cooperazione e le sue prospettive nel quadro di un mondo in rapida evoluzione, con l’emergere di nuovi soggetti, ed il bisogno di un ripensamento dell’aiuto allo sviluppo. In realtà il Ministro e la grande maggioranza dei relatori hanno omesso di ricordare che già in passato, nella corsa legislatura, si è tentato un processo del genere, attraverso gli Stati Generali della Cooperazione e le iniziative dell’allora Vice Ministro della Cooperazione Patrizia Sentinelli.

Questo finale di legislatura può fornire quindi l'occasione per un percorso di rilancio del dibattito sulla cooperazione allo sviluppo e sulla sua riforma, che ponga le basi concrete, concettuali e partecipative per poi riattivare un iter parlamentare verso l’effettiva riforma della legge 49. Il Ministro ha annunciato l’intenzione di svolgere una Conferenza nazionale a maggio, e di ottenere dal governo garanzie sul suo ruolo centrale di “coordinamento” delle attività di cooperazione internazionale dei vari ministeri, Ministero dell’Economa e Finanze in primis. Giacché è proprio il Ministero delle Finanze che controlla e gestisce la stragrande maggioranza dei fondi internazionali di sviluppo da quelli che vanno alla cooperazione europea a quelli destinati alle Banche multilaterali quali la Banca Mondiale.

Oggi le agende dello sviluppo sostenibile, della lotta alla povertà, della governance globale, dei beni pubblici globali, dei processi di globalizzazione, commercio, investimenti, assieme alle grandi crisi ambientali sono strettamente legate, e chiamano ad un impegno rispetto alla coerenza delle varie politiche. Tale impegno però non potrà esaurirsi in modelli gestionali o istituzionali ma presuppone un ripensamento che va alla radice del significato stesso dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo.

Un aiuto pubblico oggi caratterizzato da una deriva “emergenziale”, dalla commistione tra cooperazione civile e attività militari, dall’enfasi sulla cooperazione come leva per il settore privato e per i partenariati pubblico privato. Al punto che oggi spesso la povertà, (o meglio l’impoverimento) più che prodotto di violazioni di diritti fondamentali, o di esclusione e marginalizzazione dai processi di partecipazione, rischia di diventare solo un prodotto di marketing per la raccolta fondi. Questo in uno scenario nel quale in termini quantitativi, l’impegno italiano nell’aiuto allo sviluppo ha raggiunto minimi storici, minando non solo la credibilità del paese a livello europeo e globale ma anche e soprattutto le attività di una gran parte di soggetti che tentano a fatica di praticare una cooperazione “altra” rispetto al modello dominante.

Ecco il secondo punto. Tra qualche mese si terrà la Conferenza ONU Rio+20 che tratterà temi quali la lotta alla povertà, il reperimento di nuove risorse finanziarie per lo sviluppo, la necessaria integrazione dei pilastri dello sviluppo sostenibile. La UE ha già annunciato che uno degli obiettivi sarà quello di ottemperare agli impegni finanziari per la lotta alla povertà, e l’Italia dovrà fare la sua parte. Quello che a Rio si muoverà in termini di società civile organizzata e movimenti sociali rappresenterà non solo un’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte degli impegni internazionali sullo sviluppo sostenibile, ma anche per mettere a sistema varie elaborazioni critiche, e pratiche di soggetti che provano a costruire processi di uscita dalla povertà e dalla pluralità di crisi (economica, finanziaria, alimentare, energetica e climatica) che siano alternativi a quelli proposti dal paradigma centrato sulla crescita, seppur “sostenibile”. E lo faranno anzitutto mettendo in discussione cosa sia oggi lo sviluppo, provando a capovolgere l’ordine dei fattori, partendo dai diritti fondamentali, dai beni comuni, dal riconoscimento del debito ecologico e sociale, affrontando quei meccanismi d’impoverimento causati dal modello liberista a danno della grande maggioranza dei popoli del Pianeta non più solo nel tradizionale Sud ma ormai anche nella nostra Europa.

Oltre a discutere sulle risorse finanziarie e su come ottemperare agli impegni presi anche di recente a livello europeo e raggiungere così quella soglia di credibilità fissata dall’Unione, sarà allora urgente riaprire la discussione su cosa sia veramente lo sviluppo, quali siano gli attori e le modalità nuove che siano all’altezza delle sfide contemporanee.

Ci si dovrà interrogare e comprendere se oggi l’obiettivo della cooperazione debba essere quello di contribuire ad assicurare attraverso partenariati fondati sull’equità ed il protagonismo diretto dei beneficiari, delle comunità, il perseguimento dei diritti economici, sociali, culturali ed ambientali . Insomma sostenendo processi di “empowerment”, autoproduzione e sovranità alimentare, gestione dei beni comuni, accesso alla salute alla cultura, attività di microimprese, cooperative che operino nelle green economies ed economie di transizione. E collocando questo modello di partenariato, in un quadro più ampio, nel quale si dia centralità alle necessarie riforme delle politiche globali di commercio, investimento, aiuto multilaterale, politiche fiscali, debito estero, per generare risorse economiche in loco per la lotta all’esclusione sociale.

Quello che il Ministro Riccardi ha definito “bisogno di una visione strategica dello sviluppo” andrò quindi affrontato in un percorso di confronto collettivo che valorizzi le pratiche e culture della cooperazione di tutti i soggetti che oggi, in molti casi con enormi difficoltà, fanno cooperazione, non solo ONG, ma reti solidali, movimenti sociali, realtà territoriali, soggetti della cooperazione decentrata.

Ripensare la cooperazione quindi, il modo in cui si fa, chi la fa e come, prendere in considerazione i nuovi attori, il ruolo dell’Italia in un mondo multipolare, che vede l’ascesa di nuovi possibili paesi donatori, i BRICS, e l’affermarsi di una filosofia di fondo secondo la quale l’aiuto pubblico allo sviluppo debba essere “leva” per il settore privato. Quando invece la cooperazione dovrebbe essere “leva” per la tutela e la promozione della dignità delle persone. Ripensare così anche lo sviluppo come mito fondativo di quella visione delle relazioni Nord Sud che oggi non risulta più adeguata alle sfide del futuro. E utilizzare la discussione sulla cooperazione come opportunità per contribuire alla costruzione dell’Europa politica.

Il coordinamento dei vari soggetti istituzionali che oggi fanno cooperazione, è infatti cruciale anche per dare maggior protagonismo al nostro paese nella cooperazione allo sviluppo europea. Oggi la stragrande maggioranza dei fondi di cooperazione italiana vanno al multilaterale e di questi la maggioranza alla UE. Sarà urgente assicurare una maggior partecipazione dei soggetti di cooperazione italiani alla gestione ed utilizzo di questi fondi ed alla definizione delle strategie. Ricordando che anche in Europa esiste un problema evidente di coerenza tra politiche di sviluppo indirizzate alla promozione e tutela dei beni comuni, e dei servizi essenziali, e le strategie commerciali e di investimento, che invece sono tese ad aprire opportunità di mercato per le imprese europee operanti in quei settori.

Così facendo non solo si riuscirà a capitalizzare su un contributo italiano di rilievo e finora poco valorizzato, ma anche a contribuire alla costruzione di un’Europa politica, soggetto ed attore responsabile nello scacchiere globale e nel Mediterraneo in primis, così necessaria a fronte dell’attuale congiuntura politica, economica e finanziaria. Un’Europa che non può esaurirsi nelle prescrizioni della Banca Centrale Europea, ma che deve riscoprire la sua vocazione originaria, di soggetto responsabile nel mondo.

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