mercoledì 26 settembre 2012

Nuova cooperazione in un mondo che cambia



In un’epoca di grandi trasformazioni globali, di “interregno” tra una fase storica e l’altra, temi quali la cooperazione allo sviluppo, la lotta alla povertà, e la solidarietà internazionale ritornano con forza al centro della discussione politica e non. In Senato e’ in discussione un progetto di legge di riforma che dovrebbe ribadire il ruolo centrale del Ministero degli Esteri seppur prevedendo una figura di vice-ministro della cooperazione. Contemporaneamente il Ministro della Cooperazione ed integrazione Riccardi (mai finora l’Italia ha avuto un ministro della cooperazione) ha convocato un Forum nazionale sulla cooperazione che si terra’ ai primi di ottobre a Milano. In parallelo si svolgeranno numerose iniziative delle Organizzazioni nongovernative.
Un processo che viene seguito con attenzione e partecipazione da Sinistra Ecologia e Liberta’ e dal gruppo di lavoro tematico del Forum nazionale SEL sulle politiche internazionali. Siamo infatti convinti che la lotta alla poverta’ ed all’esclusione sociale e l’impegno per la conversione ecologica dell’economia riguardino non solo il nostro paese ma una prospettiva cosmopolita e la proiezione dell’Italia al di la’ dei confini nazionali, come attore responsabile in Europa e nel mondo.
A livello internazionale si susseguono processi ed appelli ad un rilancio della cooperazione e ad un suo riadattamento alle mutate circostanze e differenti scenari globali. Non ultimo il fallimentare vertice di Rio+20 del giugno scorso. Una delle questioni centrali riguarda la trasformazione dei rapporti tra cosiddetti paesi del Nord e del Sud del mondo. Negli ultimi anni si sono affacciati sulla scena dell’aiuto altri attori statuali, quali i paesi BRICS (Brasile, Cina, India, Sudafrica) il cui volume di aiuti sarà pari a 50 miliardi di dollari entro il 2025. Le loro modalità operative sono intimamente connesse all’espansione commerciale, all’accesso a materie prime strategiche, e costruzione di grandi infrastrutture,. Nel quadro di un presunto sostegno alla sovranità economica dei paesi destinatari, questa cooperazione rischia di ripetere i danni causati da un approccio verticista, fondato sullo sfruttamento intensivo di materie prime altrui, e di precipitare i paesi destinatari nella morsa di un nuovo indebitamento. A questo fa da contraltare il calo vertiginoso dei contributi alla lotta alla povertà da parte dei paesi una volta definiti del Nord del mondo, con l’Italia ormai fanalino di coda, per quanto concerne le percentuali di prodotto interno lordo destinate all’aiuto pubblico allo sviluppo.
Anche la geografia della povertà sta mutando. Si calcola che entro il 2025 ben 5/6 dei poveri in tutto il mondo saranno in Africa, e principalmente in paesi fragili o vulnerabili alla violenza interna, alle grandi pandemie, ai disastri ambientali, ai mutamenti climatici. Questo comporta una serie di priorità irrinunciabili, dapprima quella di definire come la cooperazione, se ancora di cooperazione si dovrà parlare, potrà intervenire positivamente al di là di logiche puramente assistenzialiste, nell’affrontare alla radice le cause dei conflitti, e contribuire a ricostruire le basi essenziali di un protagonismo diretto delle popolazioni locali in forme di partenariato con realtà operanti nei paesi “donatori”.
Tale scenario pone grandi interrogativi anche su quella che in gergo di chiama “securitizzazione” della cooperazione, ovvero il progressivo agganciamento delle politiche di lotta alla povertà alla presenza militare in aree di conflitto, sia per ovviare a emergenze logistico-operative (come nel caso degli aiuti umanitari) sia come strumento ancillare alle missioni di mantenimento della pace, che spesso si sono dimostrate essere ben altro. Il caso della commistione tra civile e militare nelle operazioni militari italiane prima in Irak e tuttora in Afghanistan ne è la prova evidente. Ciò non riguarda non solo la commistione civile-militare, ma anche l’uso di fondi di cooperazione per finanziare politiche di gestione “poliziesca” dei flussi migratori, come nel caso dell’Unione Europea e di altri stati membri quali l’Inghilterra che con la sua cooperazione ha finanziato campi di detenzione di migranti in Africa.
Ulteriore elemento critico riguarda la comparsa sulla scena del settore privato. L’idea alla base è che solo con un grande protagonismo del settore privato, sostenuto da fondi pubblici o raccolti con operazioni di “fundraising”, si possa moltiplicare l’effetto positivo sulla povertà, e che solo attraverso il mercato si possano risolvere crisi causate dal mercato stesso. I problemi che ne derivano sono molteplici, primo fra tutti il rischio che – in assenza di un quadro di norme vincolanti per le imprese di criteri certi di “finanziamento responsabile” – ciò si traduca in un’ulteriore aggressione ai beni comuni ed i servizi essenziali , senza intaccare le cause che sono alla base della povertà e dell’esclusione sociale. Da non dimenticare poi l’avvento delle grandi fondazioni filantropiche quali la Gates Foundation con un bilancio superiore a quello della Banca Mondiale, e che si è fatta – tra l’altro – promotrice di AGRA . Un’iniziativa che in nome di una nuova “rivoluzione verde” in Africa di fatto apre la strada agli interessi di imprese multinazionali precludendo la possibilità per le popolazioni locali e contadine di perseguire la via della sovranità alimentare.
Altro fattore da tenere in considerazione è l’impatto dei mutamenti climatici e della crisi ambientale globale sulla lotta alla povertà . Uno studio di qualche anno fa pubblicato dalle Nazioni Unite ha valutato gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici sul perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio in Africa Subsahariana. Oggi la controversia in atto nel negoziato sul clima sugli aiuti climatici, (si parla di un volume annuo pari a circa 100 miliardi di dollari) rischia di mettere in contrapposizione due obiettivi. Quello della lotta alla povertà che come abbiamo visto vedrà nell’Africa il suo punto focale e quello della mitigazione degli effetti dei mutamenti climatici, (quella che in termini tecnici può essere chiamata anche Green Economy) che sarebbe concentrata principalmente in America Latina e Asia, principali produttori di gas climalteranti.
Il punto centrale di tutta la discussione sulla riforma della cooperazione però riguarda la filosofia di fondo ed il senso della cooperazione allo sviluppo. ora ed in futuro, impresa che va ben oltre un lavoro di decodificazione semantica dei termini. Cosa che comunque va fatta, accantonando una volta per tutte il concetto di cooperazione per quello più consono di partenariato, o abbandonando quello di “sviluppo” ormai fin troppo abusato per legittimare strategie che hanno continuato ad impoverire i presunti beneficiari. O di un riassetto dell’impianto istituzionale, cosa anch’essa urgente dopo anni di crisi della cooperazione e di tutto il settore. E necessaria al fine di assicurare maggior coordinamento, l’istituzione di una figura di governo di alto livello, la creazione di un’Agenzia come strumento operativo di supporto e coordinamento, con sedi in loco, un Fondo unico per assicurare una gestine unitaria dei fondi ora “spalmati” tra Ministero degli Affari Esteri, Ministero dell’Economia e Finanze, Ambiente ed altri.
Prima di procedere a ciò sarà urgente ridefinire modalità, soggetti, obiettivi della cooperazione del futuro, senza necessariamente reinventare la ruota. Esistono infatti da anni pratiche, modalità, tra soggetti sociali, comunità, enti locali, che costruiscono relazioni paritarie, a forte vocazione territoriale, che sono improntate sul protagonismo diretto delle popolazioni locali, ed ancorate a criteri fondati sui diritti umani e sulla giustizia ecologica ed ambientale. Realtà composite che operano nella convinzione che non basti farsi “attuatori” di progetti o strategie preconfezionate dai governi o dai grandi donatori. E che ritengono che vada anzi superata quella logica per restituire alla cooperazione il suo significato più prettamente “politico”, di strumento atto ad “aggredire” le cause che sono alla radice dell’impoverimento, dal debito estero all’assenza di riconoscimento dei diritti, all’espansione incontrollata dei mercati e degli investimenti diretti esteri, alla mercificazione dei beni comuni.
Questa è la domanda centrale: ovvero se la cooperazione resta solo uno strumento di gestione dello status-quo o al limite delle ricadute e dei costi sociali ed ambientali del modello di sviluppo dominante, o se deve essere strumento di trasformazione, e di rafforzamento del protagonismo diretto delle popolazioni, e di relazioni “post-coloniali” tra paesi. Una domanda che sembra rimanere al margine nel dibatitto “politico” nel nostro paese, sia nelle elaborazioni del Forum proposto dal Ministro della Cooperazione che nel dibattito al Senato.
Pur mettendo mano ad una materia che da decenni attende di essere normata , la proposta di legge di riforma appare tutta stretta in un approccio tecnicistico, ispirato principalmente a ridefinire la struttura burocratico-amministrativa, riaffermando la centralità del ruolo della Farnesina, quando invece oggi la cooperazione necessita di un approccio olistico ed intersettoriale. E di non essere strumento di un non meno definito interesse nazionale.
Se ciò non bastasse, la filosofia di fondo pare tuttora ispirata alla cooperazione come elargizione di aiuti e di progetti”. Non a caso difficilmente, nell’assetto previsto dal disegno di legge troveranno cittadinanza quelle forme di cooperazione tra territori (non necessariamente inquadrabili in cooperazione decentrata, ma forse in cooperazione “people-to-people” o tra comunita’), soggetti sociali e movimenti che non sono inquadrabili nel cosiddetto mondo delle ONG, e che convintamente continuano a perseguire altre strade.
L’impianto stesso della legge risale a quasi un decennio fa, addirittura prima dello spartiacque dell’11 settembre, quando il mondo era ben diverso da oggi, e la triplice crisi globale non ancora aveva dispiegato la sua potenza distruttrice. Piuttosto che ragionare prima sulle sfide globali del futuro, e sul possibile ruolo innovativo o complementare dell’Italia, il dibattito in Parlamento resta così incardinato su una riforma – se così si può dire – istituzionale, volta ad assicurare la gestione di fondi pubblici e privati, che rischia in futuro di essere obsoleta e non all’altezza delle problematiche da affrontare. se non addirittura segnando un ulteriore passo indietro.
Il tema quindi è essenzialmente politico, riguarda il modello economico globale, le dinamiche di diseguaglianza, ed esclusione sociale (e non solo più nel vecchio “terzo mondo” ma anche a casa nostra), il riconoscimento delle persone come soggetti attivi e non oggetti di tutela, la riaffermazione dei diritti economici e sociali, un approccio fondato sui diritti umani, sulla tutela dei beni comuni, e dei beni pubblici globali. Ed una volta definiti questi pilastri portanti, costruire un’impianto istituzionale-amministrativo in grado di assolvere in maniera efficace i propri compiti. Altrimenti qualsiasi ipotesi di riforma si dimostrerà essere solo un’operazione di architettura istituzionale, piuttosto che la scelta politica di farne elemento realmente qualificante delle politiche internazionali del nostro paese.


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