lunedì 27 maggio 2013

No alla rimozione dell'embargo delle armi UE alla Siria



Oggi i Ministri degli Esteri dell'Unione Europa discuteranno la proposta di un'allentamento dell'embargo di armi alla Siria per "aiutare" i ribelli al regime di Assad. Tra le righe si legge che l'Italia sarebbe disponibile ad un allentamento dell'embargo a condizione che si sappia dove vanno a finire le armi. Qualcuno ci spieghi come sia possibile farlo ora in Siria. La rimozione dell'embargo alle armi nell'illusione di riequilibrare le asimmetrie di potenza militare in Siria è un suicidio politico. Vanifica del tutto il possibile ruolo di mediazione dell'Unione Europea nel conflitto in corso, rischia di pregiudicare una già fragile ipotesi negoziale per una soluzione politica di quella tragedia. E dal punto di vista puramente militare non esiste alcuna garanzia che una tale mossa possa aumentare il vantaggio dei ribelli. Forze estremamente disomogenee, in uno scenario in continua evoluzione, nel quale l'invio di armi rischia in realtà di aumentare anche le chance di un dopo-Assad violento e di sangue. Per questo non si può separare l'aspetto della "militarizzazione" ulteriore del conflitto dalla possibile soluzione politica dello stesso. E opporsi all'invio di armi non significa sostenere il regime di Assad. Il punto è reso in maniera assai chiara in un articolo dell'analista Samer Nassif Abboud, uscito di recente sul sito dell'ISN di Zurigo: http://isnblog.ethz.ch/international-relations/should-western-nations-arm-syrian-rebels. :

"arguing against militarization should not be equated with supporting the regime. One can be opposed to both militarization and the regime. The more intellectually honest question is not either/or but under what conditions can a political solution be arrived at that paves the way for the removal of Asad and a demobilization of violent actors. This is a profoundly complicated question that has no immediate or obvious answer. One thing, however, seems certain: further militarization of the Syrian conflict will not decidedly tip the balance in favor of the rebels and will contribute to further fragmentation in the country. In turn, such fragmentation can only serve as an obstacle to a political solution to the conflict, which is the stated goal of Western and regional powers. The challenge now is agreeing on the contours of such a solution and bringing to bear the political pressures to realize it"

UE all'Italia: meno vincoli di bilancio ma per quale spesa? Crescita o "buen vivir"?


Oggi la stampa annuncia con un certo eccessivo trionfalistmo di parte un "successo" del governo Letta, ossia la proposta del Commissario UE Olli Rehn di chiusura della procedura di infrazione per "sforamento" dei livelli permessi di indebitamento per l'Italia. Si aprirebbe una nuova partita, quando nei prossimi mesi Bruxelles dovrà definire i dettagli della "Golden Rule" ossia delle tipologie di spesa ed investimenti che "generano crescita". Grandi infrastrutture o un piano di spesa pubblica per la piena e buona occupazione magari per la manutenzione del territorio? Sostegno all'estrazione di combustibili fossili magari offshore o una strategia energetica nazionale indirizzata verso la decarbonizzazione dell'economia ed il sostegno a fonti energetiche rinnovabili e su piccola scala? Reddito di cittadinanza o flessibilità alla Fornero? Già perché nelle sei regole dettate da Bruxelles per l'Italia come condizione per il "rilassamento" dei vincoli di bilancio c'è anche quella dell'attuazione della riforma Fornero. E poi, la crescita. Già il mito della crescita, del PIL. Sarà il caso di sfidare culturalmente questo assunto fin d'ora. Il PIL non riassume in sé l'insieme dei fattori che fanno crescere, o meglio progredire un paese. Ce lo ha detto chiaramente l'ISTAT con i suoi nuovi parametri di benessere equo e sostenibile. Un passo in avanti notevole, una sorta di nostro concetto di "buen vivir". Da non lasciar cadere nel dimenticatoio. Anzi da rilanciare e valorizzare.

venerdì 24 maggio 2013

Enrico Letta, i gas di scisto e sponsor scomodi

Ma il Presidente del Consiglio Enrico Letta sa bene che sostenere - come ha fatto lui in aula nel corso del dibattito sulla riunione del Consiglio Europeo del 22 maggio - il shale gas come soluzione al tema dell'efficienza energetica è solo un cavallo di troia per gli interessi delle imprese? E che proprio grazie alle loro lobby ieri l'altro il Consiglio Europeo ha segnato un grave arretramento nelle politiche europee sui cambiamenti climatici? Certo se si dà un'occhiata agli sponsor della sua think-tank VeDrò allora qualche elemento in più compare...Enel, Eni, Edison...

Europa: la cultura è un bene comune non una merce

Take 2: Nel corso della sua audizione presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato il ministro degli Esteri Emma Bonino ha dato grande enfasi al negoziato per l'accordo commerciale transatlantico (di partenariato si dice, ma poi sotto sotto quel che conta sono gli scambi commerciali e gli investimenti - nel settore dei servizi spesso e volentieri) , nell'ottica del rilancio di un partenariato tra Unione Europea e Washington. Obama guarda ora al Pacifico, al rafforzamento delle strategie di espansione commerciale, e di presenza militare nel Pacific Rim già avviate dalle amministrazioni precedenti. Il TPP andrà monitorato attentamente anche dal Parlamento italiano per i possibili effetti su vari comparti nazionali. Importante allora la notizia che giunge dal Parlamento Europeo che ha approvato una risoluzione seppur non vincolante che esclude la cultura dall'agenda dei negoziati. Dovrebbe essere lo stesso per lo meno per tutti i beni comuni ed i servizi pubblici essenziali.

mercoledì 22 maggio 2013

Giustizia fiscale e energie rinnovabili per una nuova Europa



I capi di stato e di governo dell'Unione Europea si riuniscono oggi a Bruxelles: all'agenda del Consiglio Europeo due temi chiave, uno relativo alle politiche fiscali e tributarie e l'altro il rilancio dellepolitiche energetiche per sostenere la competitività dell'industria europea.

Il tema dell'evasione fiscale, e delle fughe di capitali verso paradisi fiscali, già oggetto di numerose campagne per la giustizia fiscale  è stato a lungo dibattuto sia nell'ultima riunione dell'ECOFIN che ieri al Parlamento Europeo , in occasione dell'approvazione del rapporto preparato dall'europarlamentare socialista Mojca Kleva Kekuš.

Nel corso del dibattito sono intervenuti tra gli altri Hannes Svoboda del PSE, e Dani Cohn Bendit dei Verdi. Svoboda ha richiamato l'urgenza di affrontare il tema dell'austerità in particolare attaverso il rilancio di politiche occupazionali e di contrasto alla povertà ed all'ingiutizia sociale. Ha parlato di “austerity kids” i ragazzi dell'austerity, sottolineando il rischio che la fase post-austerità e di crescita sia di una crescita senza occupazione. E poi parafrasando Margaret Thatcher ha chiesto che “vengano restituiti i soldi” - “we want our money back”. Vale la pena di ricordare che ogni anno almeno 1000 miliardi di euro (2000 euro a cittadino europeo) spariscono per l'evasione fiscale o nei paradisi fiscali. Fondi che dovrebbero essere recuperati per la la creazione di nuovi posti di lavoro, nel sostegno alla ripresa, e nella protezione del modello sociale europeo. 

L'Europa dovrà quindi coordinare una risposta ambiziosa per porre fine a questa pratiche illecite rendendo obbligatorio lo scambio automatico di informazioni fiscali tra i paesi membri e non permettere l'esistenza di paradisi fiscali in Europa per perseguire la giustizia sociale e fiscale. Anche i sindacati europei hanno preso posizione in sostegno all'adozione de rapporto Kekuš sulle politiche fiscali e tributarie. Secondo alcune ricerche svolte dal sindacato europeo nella maggior pare dei paesi europei le politiche di austerità e tagli stanno pregiudicando la capacità degli stati di attuare le proprie politiche fiscali, e quindi se i governi vogliono davvero affrontare il tema dell'evasione e frode fiscale dovranno avere le risorse materiali ed umane necessarie. 

Il rapporto Kekuš chiede l'adozione rapida nel Consiglio della direttiva sulla tassazione dei redditi da risparmio in forma di pagamento di investimenti e della bozza di direttiva sulla base fiscale comune consolidata per le imprese nel 2011 ed estendere l'obbligo di scambio di informazioni tra paesi alle imprese che operano cross-border in ogni ambito. 
Bernardette Ségol, segretario generale dell'ETUC ha dichiarato che il segreto bancario, i centri offshore e paradisi fiscali sottraggono risorse finanziarie per sostenere le politiche di welfare europee e prevengono la crescita sostenibile. assieme alle politiche di austerità ciò a contribuito all'aumento dell'ineguaglianza e la concentrazione della ricchezza nelle mani di una piccola minoranza. Il rapporto del Parlamento Europeo approvato ieri non potrà essere ignorato dai governi dei paesi membri.  In sostegno a politiche antievasione si è dichiarato anche il GUE, che per bocca del suo eurodeputato Thomas Händel ha salutato con favore l'adozione del rapporto Kekuš rilanciando la richiesta di criteri vincolanti contro l'evasione fiscale, e sanzioni pesanti sugerendo di mettere sulla lista nera gli stati che rifiutino di condividere informazioni affinchè non possano ricevere alcun sostegno dall'Unione Europea.  
Ciononostante l'ultimo ECOFIN non ha raggiunto alcun accordo su come affrontare il tema dei paradisi fiscali né su un minimo livello di imposizione fiscale che possa evitare la possibilità di evasione fiscale ma piuttosto adottato un testo vago che si riferisce generalmente ad un codice di condotta contro la competizione fiscale senza riuscire a risolvere il conflitto duraturo sui temi della giustizia fiscale .
L'altro tema del Consiglio Europeo di oggi è la politica energetica. La proposta della Commissione  che verrà discussa al Consiglio sembra essere del tutto improntata sull'urgenza di fornire energia a basso costo per le imprese e per riattivare la crescita, così cedendo alle pressioni delle lobby industriali. 
Queste chiedono la riduzione del prezzo dell'energia ed il perseguimento della sovranità e sicurezza energetica degli approvvigionamenti, esortando il Presidente della Commissione Barroso a metter da parte l'obiettivo della mitigazione dei cambiamenti climatici. Ciò significa l'espansione delle attività estrattive in settori non-convenzionali quali il shale gas (gas da scisto) attraverso tecniche quali il fracking. Il rischio è che l'Unione Europa si avvii verso una strategia energetica che guarda al passato, e che non fornisce incentivo in sostegno alle energie rinnovabili su piccola scala, nell'illusione di acquisire accesso a fonti energetiche a basso costo per le imprese. E Letta nel suo intervento di ieri in Senato sembra voler sostenere lo "shale gas". I Verdi Europei hanno sottolineato più volte il rischio dell'estrazione di shale gas attraverso il fracking. Un rischio economico, giacché la riduzione del prezzo di petrolio e gas e carbone sarà un disincentivo per investire in energie alternative. E poi per l'impatto ambientale e sulla salute (in particolare per la contaminazione dell'acqua e la produzione di sostane chimiche tossiche). Per questo ieri in occasione del dibattito in Parlamento sul Consiglio Europeo, i parlamentari di Sinistra Ecologia e Libertà Zan ed Uras hanno sottolineato con forza l'urgenza di fornire massimo supporto alle energie rinnovabili e su piccola scala, per contribuire a rafforzare anche il ruolo dell'Italia e dell'Unione Europa nella lotta ai cambiamenti climatici. Considerando anche che le prossime due conferenze delle parti della Convenzione ONU sui mutamenti climatici si terranno in paesi membri della UE, Polonia quest'anno e Francia nel 2014. Temi questi che saranno al centro dell'iniziativa di Sinistra Ecologia e Libertà per un'Europa verde e per la conversione ecologica delle sue economie.


Per i diritti dei popoli indigeni

In questi giorni si tiene a New York il Foro Permanente delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni in preparazione della prima conferenza mondiale dei popoli indigeni che si terrà presso l'Assemblea Generale dell'ONU nel 2014 su proposta della Bolivia. Sinistra Ecologia e Libertà chiede al governo italiano di ratificare la Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro OIL 169 sui diritti dei popoli indigeni e tribali, e di allineare le proprie politiche internazionali agli standard ed impegni internazionali sui diritti umani e dei popoli indigeni. Il governo italiano, ed il Parlamento, nell'imminente apertura del dibattito sulla riforma della cooperazione internazionale dovranno impegnarsi a sostenere la applicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni (UNDRIP) nelle politiche di cooperazione, seguendo l'esempio del governo tedesco. Per questo il presidente del gruppo parlamentare di SEL alla Camera Gennaro Migliore ha presentato, assieme ad altri parlamentari di SEL un disegno di legge per la ratifica della OIL 169

mercoledì 15 maggio 2013

Alla diplomazia della crescita di Emma Bonino preferiamo quella della solidarietà, della pace e del disarmo

Ma Emma Bonino e' Ministro degli Esteri o del Commercio e delle imprese? Apre la sua audizione solo sulle politiche commerciali, l'internazionalizzazione delle imprese e aumento dell'export. Centra la discussione sulla cooperazione solo in questa chiave. Parla di 'diplomazia della crescita'. Rivendica una fede europeista e federalista restando pero' sul vago su come perseguire l'obiettivo dell'Eur...opa politica. Richiama il partenariato transatlantico ed il negoziato su area di libero scambio tra UE ed USA - sottolinea le crisi in Siria, Libia ed accenna di sfuggita al rilancio del negoziato israelo-palestinese rilanciando la formula due popoli-due democrazie ma senza dare alcun indizio su come giungere ad una soluzione equa, giusta e condivisa. Anzi cita solo il diritto - seppur legittimo - alla sicurezza di Israele. ma i diritti del popolo palestinese? le violazioni del diritto internazionale? il muro? Eppoi Afghanistan, America Latina, disarmo e diplomazia di pace, un'altro modello di cooperazione, un ruolo attivo dell'italia come mediatore terzo nei conflitti, ruolo dell'ONU non trovano spazio nella sua vision di 'diplomazia della crescita'. E l'Italia continua a non avere una politica estera propria ma solo definita di risulta rispetto agli eventi, alle emergenze ed agli imperativi del mercato ed i bisogni delle imprese.

sabato 11 maggio 2013

Giustizia per i Maya in Guatemala

80 anni di galera per Efraim Rios Montt. Condannato per le sue responsabilità per il genocidio dei Maya in Guatemala. Andai in Guatemala nel 1990, in un viaggio tra le zone dove era ancora attiva la guerriglia. Per un pelo scampammo ad un assalto armato ad un convoglio militare nella zona di Atitlan. Ricordo il nome di Rios Montt vergato su un muro come candidato di allora alla presidenza, accanto all'immancabile insegna della Coca Cola. Un criminale che per decenni ha infestato la vita politica e pubblica del Guatemala. Ora, finalmente, un atto di giustizia, finalmente. Ora cessino immediatamente tutte le misure repressive e restrittive attualmente in atto in regioni indigene quali il Quiché. Il mio pensiero va ad una donna straordinaria conosciuta allora, quando ambedue lavoravamo con Greenpeace America Latina, Marcie Mersky, infaticabile attivista per i diritti umani, oltre 20 anni passati in Guatemala, anche nella commissione per la verità sui genocidi e con le Nazioni Unite. Ora Marcie è direttrice del International Center for Transitional Justice a New York. http://ictj.org/

La cosa giusta anche in Europa

Oggi in contemporanea a "La cosa giusta" a Roma, i federalisti europei parlano a Firenze di Stati Uniti d'Europa. Ho mandato l'adesione alla loro iniziativa, importante perché ci ricorda uno dei livelli imprescindibili del nostro agire politico, e del nostro essere cittadini e cittadine. Un agire politico che affonda le radici nella realtà quotidiana, nelle crisi e nelle opportunità, nelle buone pratiche, nei conflitti e nelle rivendicazioni nei luoghi della nostra esistenza. Quelli che in maniera troppo abusata si chiamano i territori. Territori legati a filo doppio con il mondo, come ci insegna in maniera memorabile Saskia Sassen. Territori che non possono essere il limite della nostra visione di una nuova sinistra. Allora la nostra testa dovrà stare in Europa, in un progetto politico che prenda finalmente piede ed il sopravvento rispetto a quello economico-finanziario. Gli Stati Uniti d'Europa sintetizzano l'obiettivo di un'Europa federale, solidale, responsabile. Ma non un progetto in vitro, bensì alimentato del protagonismo e delle iniziative delle reti, movimenti sociali, sindacali, sinistra diffusa e sociale. Per sostituire alla logica del Fiscal Compact, un patto dei cittadini e cittadine, un "citizen pact", e proporre un "social compact" per la piena e buona occupazione, il reddito di cittadinanza, la conversione ecologica dell'economia. La cosa giusta, appunto, anche in Europa.

mercoledì 8 maggio 2013

Corno d'Africa e decolonizzazione - una sfida per la politica estera italiana


Abbiamo una responsabilità storica nei confronti del Corno d'Africa, del popolo eritreo, etiope e somalo. Ora la Somalia sembra lentamente e con grande difficoltà avviarsi verso un percorso di "pacificazione", ed in questo andrà sostenuta. Peccato che l'Italia abbia perso un'occasione per provare a resitituire questo debito verso il popolo somalo, scavalcata dal forte attivismo diplomatico ed economico della Gran Bretagna. Dopo la morte di Meles Zenawi in Etiopia e le notizie di tensioni all'interno dei corpi militari che sostengono Isaias Afeworki in Eritrea, tutta la regione è attraversata da un dinamismo che offre grandi opportunità. Male farebbe l'Italia a non cogliere quest'occasione. Non ne va semplicemente della necessità non più prorogabile di una presa di coscienza "postcoloniale" e di una decolonizzazione dello sguardo e dell'approccio verso l'Africa, Ne va della dignità di migliaia e migliaia di persone, uomini, donne, bambini che vivono - come nel caso dell'Eritrea in una prigione a cielo aperto. Ne va della libertà loro e dei loro cari, di quelli che rischiando la vita attraversando il deserto ed il mare sono ora qua da noi, spesso vivendo in condizioni estreme. Io credo che il nodo "coloniale" debba essere ripreso e sciolto una volta per tutte, per ricostruire codici di comportamento, e linguaggi rispettosi dell'altro, che bandiscano non solo nel vocabolario ma anche nelle pratiche, una cultura escludente, se non razzista. Basti pensare allo squallido armamentario di insulti e pochezza rivolto nei giorni scorsi verso il Ministro dell'Integrazione Cecile Kyenge.
Ecco io credo che un partito, una forza politica di sinistra come Sinistra Ecologia e Libertà dovrà mettere nel suo DNA una forte visione postcoloniale, che restituisca dignità a coloro che finora vengon considerati subalterni, politicamente, economicamente o culturalmente nel nostro paese e fuori dai confini. Ed attraverso questi codici formulare la sua proposta di politica internazionale. 

Siria ed Palestina un filo da riannodare




Si svolgerà a Roma oggi e domani un vertice internazionale bilaterale tra il segretario di stato statunitenste John Kerry ed il governo italiano, primo appuntamento di rilievo internazionale per ministro degli esteri Emma Bonino, nel quale squadernare i temi più caldi della politica estera italiana prossima futura in quello scacchiere ormai attraversato da conflitti intrecciati, tragedie umanitarie e incapacità di intervento politico-diplomatico della comunità internazionale. Lo testimonia la notizia recentissima delle possibili dimissioni di Lakhdar Brahimi, incaricato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba per la Siria, dallo stesso prospettate in seguito al riconoscimento da parte della Lega Araba dell'opposizione siriana. Cosa che a suo dire minerebbe la “terzietà” e neutralità necessarie per svolgere un ruolo di vera mediazione. Un incarico già reso difficile di suo dallo stallo persistente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che la settimana scorsa non è andato oltre una presa di posizione informalissima, nella quale si stigmatizza la violenza nel conflitto. Nel mentre nelle capitali si è ripreso a parlare di armi chimiche, della “linea rossa”, termine usato da Barak Obama per definire il limite massimo di atrocità – l'uso di armi chimiche contro i civili - oltre il quale si renderebbe irrinunciabile un intervento militare di Washington nel conflitto siriano. Da qualche giorno si susseguono speculazioni sullo spessore di questa linea rossa, sulla solidità delle prove disponibili con gli esperti del settore che affermano di non essere in grado, sulla base di campioni disponibili - assolutamente non rappresentativi - di affermare l'uso di armi chimiche. Sullo sfondo la denuncia non circostanziata da parte di Carla De Ponte ora membro della Commissione ONU sulle violazioni dei diritti umani in Siria, di uso di armi chimiche , ma da parte dei ribelli. Se da una parte le dichiarazioni della De Ponte allontanerebbero l'eventualità di ritorsioni contro Assad da parte di un riluttante Obama, dall'altra aprirebbero le porte ad altre giustificazioni per un intervento “esterno” che sia a firma di Washington o Tel Aviv. Chi sarebbero i ribelli che hanno accesso alle armi chimiche? E se fossero jihadisti? E così partono gli assaggi di attacchi preventivi da parte dell'aviazione israeliana su territorio siriano, volti - secondo quanto affermato da Tel Aviv - ad evitare che missili ed altri arsenali cadano in mano alle milizie libanesi di Hezbollah. Tuona il regime di Damasco, definendo l'attacco una dichiarazione di guerra, tuona Teheran chiamando i paesi arabi ad insorgere. Sarà dura provare a riannodare il filo mai interrotto, ma di certo assai flebile del negoziato politico. E' urgente pertanto che il governo italiano si metta a disposizione di questo e non di eventuali scelte in senso opposto. Come è urgente che si lavori al rilancio del negoziato tra Palestina ed Israele. arenato da anni. Anche il piano della Lega Araba è stato di recente e nuovamente respinto da Hamas. La formula rituale dei “due stati per due popoli” fino ad oggi ha congelato ogni trattativa piuttosto che favorire una soluzione giusta al conflitto, con il governo israeliano che da una parte parlava di trattativa e dall'altra conquistava passo passo terreno per gli insediamenti. Sarà urgente uno slancio di creatività per rielaborare la formula tenendo conto del fatto che ormai la Cisgiordania è intessuta di insediamenti di coloni ebraici, e che esistono in Israele centinaia di migliaia di palestinesi, cittadini di serie “b” , e migliaia di rifugiati palestinesi che invocano il loro diritto al ritorno alle loro terre. Sarà necessario pensare fuori dagli schemi tradizionali dello “stato nazione”, e piuttosto tentare con quello che alcuni chiamano “country state” stato plurale, non fondato sulla nazionalità, la terra, il sangue, l'etnia, la religione, bensi sul diritto di tutti coloro che vivono nei suoi confini a vivere una vita degna, e godere dei diritti fondamentali. Sperimentare cioé forme di coabitazione e convivenza nella diversità, in forme confederali, di cittadinanza transnazionale, riprendendo lo spirito del piano del 1947 che non era basato sulla separazione etnica, ma sul principio di uno stato arabo ed uno ebraico e di Gerusalemme come “corpo separato” Un ragionamento che si sta facendo strada da più parti, e che sarebbe opportuno esplorare più a fondo per tentare di riavviare un processo che dagli accordi di Oslo in poi non accenna a ripartire.

Il Manifesto, 8 maggio 2013