giovedì 3 aprile 2014

Oltre l'aiuto allo sviluppo per relazioni giuste tra i popoli


É in dirittura d'arrivo in commissione esteri al Senato, per poi passare alla Camera, il dibattito sulla riforma della cooperazione allo sviluppo. Un dejà vu che va avanti da anni, senza che finora si fosse riusciti a compiere un significativo passo in avanti sul riassetto istituzionale e la cornice di riferimento dell'aiuto pubblico allo sviluppo. Oggi il quadro pare mutato, e non solo in conseguenza del “furore per le riforme” del nuovo Presidente del Consiglio ma anche per una convergenza di interessi “bipartizan” e con gran parte degli attori della cooperazione. Organizzazioni nongovernative ad esempio, che da anni chiedono maggiori garanzie e tutela per i propri operatori, ed impegni certi in termini di risorse finanziarie, dopo anni ed anni di continua erosione dei bilanci dedicati alla cooperazione. Dopo anni di “melina” dentro e fuori le aule parlamentari, ci si dice, è finalmente giunto il momento topico e si deve fare presto. La fretta però può essere cattiva consigliera, se pur di far presto il governo decide di presentare un suo disegno di legge pieno di insidie e lati critici, e che ciònonostante viene preso come base di discussione al Senato e la cui sostanza non viene messa in discussione dagli emendamenti proposti dal relatore Giorgio Tonini. Un disegno di legge che nasce vecchio, e che rischia di essere obsoleto nel giro di pochi anni e quindi inadeguato a governare le prossime sfide della cooperazione. Basti pensare che tra un anno e mezzo circa le Nazioni Unite terranno un Vertice internazionale per rielaborare i pilastri centrali e le pratiche di lotta alla povertà e di solidarietà internazionale. Un evento che si sviluppa sulla base di un mezzo fallimento, quello del non perseguimento nei tempi prestabiliti, ossia il 2015, dei cosiddetti Obiettivi di Sviluppo del Millennio. A rigor di logica si sarebbe potuta aspettare la conclusione del Vertice ONU per poi riformulare la propria “visione” di cooperazione internazionale. Invece questo disegno di legge tradisce una visione “antica” ed assistenzialista della cooperazione, non intesa come relazione e partenariato tra eguali, ma come aiuto concesso verso popolazioni bisognose, magari aiuto umanitario, più probabilmente sostegno alle imprese italiane per produrre occasioni di affari in mercati ancora poco sfruttati. Se ciò non bastasse, la cooperazione resata saldamente nelle mani della Farnesina, dei diplomatici, al punto da farla diventare non elemento qualificante delle relazioni internazionali del paese, ma strumento integrante di politica estera, quindi sottoposta agli obiettivi strategici, geopolitici e commerciali del cosiddetto “sistema-Italia”. Se ciò non bastasse, trovano poco spazio i nuovi soggetti che fanno cooperazione, intesa non necessariamente come fornitura di servizi, o attuazione di progetti, ma come capacità di mettere in rete ed in relazione competenze, esperienze, capacità, e lasciare ai supposti “beneficiari” la discrezione di decidere modi e tempi per tentare di uscire dalla morsa dell'impoverimento. “impoverimento” si badi bene e non povertà, una scelta politica che sta a significare che la povertà non è un dato di fatto ma risultato di processi economici, finanziari, endogeni ed esogeni, e che per affrontarla occorre andare alle radici stesse del problema. Questo è il tema centrale della coerenza delle politiche, secondo cui ad esempio si dovrà assicurare che le politiche commerciali o di investimenti, le politiche agricole, o quelle energetiche, le decisioni prese in ambito multilaterale, (vedi WTO o FMI o Banca Mondiale) dovranno essere in linea con gli obiettivi di sradicamento della povertà. Niente di tutto questo è presente nella proposta del governo, proposta, nelle intenzioni del Viceministro Pistelli come primo passo per superare le reticenze di Farnesina e Ministero delle Finanze, il vero “elephant in the room” della vicenda. Sinistra Ecologia Libertà ha presentato una serie di emendamenti, frutto del lavoro proprio di elaborazione ed analisi, e dell'interlocuzione con varie realtà della cooperazione internazionale con l'intento di fornire strumenti di dibattito che possano prefigurare un approccio radicalmente diverso al tema. Anzitutto affermando la autonomia della cooperazione dalla Farnesina, attraverso una figura di governo di alto livello (in prima istanza un Ministro della Cooperazione), un'agenzia esterna dedicata non all'esecuzione dei progetti ma all' ideazione, proposta, monitoraggio, valutazione , insomma una sorta di “hub” che facilita relazioni, connessioni, messa in sinergia di capacità e competenze. Un Fondo unico, (derubricato nella proposta governativa a semplice artificio contabile) sempre gestito dall'Agenzia nel quale far convergere tutte le risorse dedicate alla cooperazione internazionale al fine di assicurare un quadro omogeneo e coerente di gestione. Chiare condizioni all'eventuale partecipazione con propri fondi di attori non-statuali, ad esempio piccole e medie imprese che dovranno sottostare a rigidi controlli e valutazioni circa il loro operato e la capacità di rispettare norme intenrazionali sull'ambiente ed i diritti umani. E soprattutto il riconoscimento del ruolo centrale dei partenariati locali, della miriade di soggetti ed esperienze che fanno solidarietà internazionale, il microcredito, il volontariato, il servizio civile, i corpi civili di pace, che producono innovazione, che non rinunciano al ruolo “politico” della cooperazione come sostegno a processi di emancipazione e liberazione, di critica e fuoriuscita dalle logiche caritatevoli come a quelle del mercato liberista o dei conflitti. Ecco in fondo la vera posta in gioco, il ripensamento del concetto stesso di cooperazione ed “aiuto”, le sue priorità ed il valore aggiunto che l'Italia può portare, una sfida che non puà essere lasciata esclusivamente alle aule parlamentari, ma dovrebbe attraversare anche la discussione sull'AltraEuropa. Giacché gran parte dei fondi di cooperazione “multilaterali” che potrebbero essere co-gestiti dall'Italia sono comunitari. Ed anche la UE si sta imbarcando in una rielaborazione delle proprie direttrici e finalità della cooperazione, strumento importante per un'attore globale che stenta a parlare unitariamente nei consessi internazionali. Se Sparta piange, Atene non ride: anche l'approccio UE è fortemente condizionato dalla commistione “pubblico-privato” e dall'urgenza di sostenere l'espansione delle sfere di azione delle proprie imprese, nonché dall'approccio della condizionalità, ossia più soldi in cambio di riforme democratiche, approccio che ha mostrato tutti i suoi limiti nella gestione delle relazioni con i paesi dell'altra sponda del Mediterraneo. Una strada tutta in salita quindi, da affrontare con coerenza, uno spazio che pare incolmabile tra visioni e prospettive differenti della solidarietà, un dibattito al quale ci apprestiamo con spirito costruttivo ma anche determinati a far valere le nostre proposte ed il nostro approccio “altro” alle relazioni tra i popoli. 

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