É in dirittura d'arrivo
in commissione esteri al Senato, per poi passare alla Camera, il
dibattito sulla riforma della cooperazione allo sviluppo. Un dejà vu
che va avanti da anni, senza che finora si fosse riusciti a compiere
un significativo passo in avanti sul riassetto istituzionale e la
cornice di riferimento dell'aiuto pubblico allo sviluppo. Oggi il
quadro pare mutato, e non solo in conseguenza del “furore per le
riforme” del nuovo Presidente del Consiglio ma anche per una
convergenza di interessi “bipartizan” e con gran parte degli
attori della cooperazione. Organizzazioni nongovernative ad esempio,
che da anni chiedono maggiori garanzie e tutela per i propri
operatori, ed impegni certi in termini di risorse finanziarie, dopo
anni ed anni di continua erosione dei bilanci dedicati alla
cooperazione. Dopo anni di “melina” dentro e fuori le aule
parlamentari, ci si dice, è finalmente giunto il momento topico e si
deve fare presto. La fretta però può essere cattiva consigliera, se
pur di far presto il governo decide di presentare un suo disegno di
legge pieno di insidie e lati critici, e che ciònonostante viene
preso come base di discussione al Senato e la cui sostanza non viene
messa in discussione dagli emendamenti proposti dal relatore Giorgio
Tonini. Un disegno di legge che nasce vecchio, e che rischia di
essere obsoleto nel giro di pochi anni e quindi inadeguato a
governare le prossime sfide della cooperazione. Basti pensare che tra
un anno e mezzo circa le Nazioni Unite terranno un Vertice
internazionale per rielaborare i pilastri centrali e le pratiche di
lotta alla povertà e di solidarietà internazionale. Un evento che si
sviluppa sulla base di un mezzo fallimento, quello del non
perseguimento nei tempi prestabiliti, ossia il 2015, dei cosiddetti
Obiettivi di Sviluppo del Millennio. A rigor di logica si sarebbe
potuta aspettare la conclusione del Vertice ONU per poi riformulare
la propria “visione” di cooperazione internazionale. Invece
questo disegno di legge tradisce una visione “antica” ed
assistenzialista della cooperazione, non intesa come relazione e
partenariato tra eguali, ma come aiuto concesso verso popolazioni
bisognose, magari aiuto umanitario, più probabilmente sostegno alle
imprese italiane per produrre occasioni di affari in mercati ancora
poco sfruttati. Se ciò non bastasse, la cooperazione resata
saldamente nelle mani della Farnesina, dei diplomatici, al punto da
farla diventare non elemento qualificante delle relazioni
internazionali del paese, ma strumento integrante di politica estera,
quindi sottoposta agli obiettivi strategici, geopolitici e
commerciali del cosiddetto “sistema-Italia”. Se ciò non
bastasse, trovano poco spazio i nuovi soggetti che fanno
cooperazione, intesa non necessariamente come fornitura di servizi, o
attuazione di progetti, ma come capacità di mettere in rete ed in
relazione competenze, esperienze, capacità, e lasciare ai supposti
“beneficiari” la discrezione di decidere modi e tempi per
tentare di uscire dalla morsa dell'impoverimento. “impoverimento”
si badi bene e non povertà, una scelta politica che sta a
significare che la povertà non è un dato di fatto ma risultato di
processi economici, finanziari, endogeni ed esogeni, e che per
affrontarla occorre andare alle radici stesse del problema. Questo è
il tema centrale della coerenza delle politiche, secondo cui ad
esempio si dovrà assicurare che le politiche commerciali o di
investimenti, le politiche agricole, o quelle energetiche, le
decisioni prese in ambito multilaterale, (vedi WTO o FMI o Banca
Mondiale) dovranno essere in linea con gli obiettivi di sradicamento
della povertà. Niente di tutto questo è presente nella proposta del
governo, proposta, nelle intenzioni del Viceministro Pistelli come
primo passo per superare le reticenze di Farnesina e Ministero delle
Finanze, il vero “elephant in the room” della vicenda. Sinistra
Ecologia Libertà ha presentato una serie di emendamenti, frutto del
lavoro proprio di elaborazione ed analisi, e dell'interlocuzione con
varie realtà della cooperazione internazionale con l'intento di
fornire strumenti di dibattito che possano prefigurare un approccio
radicalmente diverso al tema. Anzitutto affermando la autonomia della
cooperazione dalla Farnesina, attraverso una figura di governo di
alto livello (in prima istanza un Ministro della Cooperazione),
un'agenzia esterna dedicata non all'esecuzione dei progetti ma all'
ideazione, proposta, monitoraggio, valutazione , insomma una sorta di
“hub” che facilita relazioni, connessioni, messa in sinergia di
capacità e competenze. Un Fondo unico, (derubricato nella proposta
governativa a semplice artificio contabile) sempre gestito
dall'Agenzia nel quale far convergere tutte le risorse dedicate alla
cooperazione internazionale al fine di assicurare un quadro omogeneo
e coerente di gestione. Chiare condizioni all'eventuale
partecipazione con propri fondi di attori non-statuali, ad esempio
piccole e medie imprese che dovranno sottostare a rigidi controlli e
valutazioni circa il loro operato e la capacità di rispettare norme
intenrazionali sull'ambiente ed i diritti umani. E soprattutto il
riconoscimento del ruolo centrale dei partenariati locali, della
miriade di soggetti ed esperienze che fanno solidarietà
internazionale, il microcredito, il volontariato, il servizio civile,
i corpi civili di pace, che producono innovazione, che non rinunciano
al ruolo “politico” della cooperazione come sostegno a processi
di emancipazione e liberazione, di critica e fuoriuscita dalle
logiche caritatevoli come a quelle del mercato liberista o dei
conflitti. Ecco in fondo la vera posta in gioco, il ripensamento del
concetto stesso di cooperazione ed “aiuto”, le sue priorità ed
il valore aggiunto che l'Italia può portare, una sfida che non puà
essere lasciata esclusivamente alle aule parlamentari, ma dovrebbe
attraversare anche la discussione sull'AltraEuropa. Giacché gran
parte dei fondi di cooperazione “multilaterali” che potrebbero
essere co-gestiti dall'Italia sono comunitari. Ed anche la UE si sta
imbarcando in una rielaborazione delle proprie direttrici e finalità
della cooperazione, strumento importante per un'attore globale che
stenta a parlare unitariamente nei consessi internazionali. Se Sparta
piange, Atene non ride: anche l'approccio UE è fortemente
condizionato dalla commistione “pubblico-privato” e dall'urgenza
di sostenere l'espansione delle sfere di azione delle proprie
imprese, nonché dall'approccio della condizionalità, ossia più
soldi in cambio di riforme democratiche, approccio che ha mostrato
tutti i suoi limiti nella gestione delle relazioni con i paesi
dell'altra sponda del Mediterraneo. Una strada tutta in salita
quindi, da affrontare con coerenza, uno spazio che pare incolmabile
tra visioni e prospettive differenti della solidarietà, un dibattito
al quale ci apprestiamo con spirito costruttivo ma anche determinati
a far valere le nostre proposte ed il nostro approccio “altro”
alle relazioni tra i popoli.
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