La prima volta che ho provato ad andare
in Palestina, anni or sono, sono stato espulso assieme ad una
delegazione di pacifisti e parlamentari italiani. Vidi solo il
terminal bagagli dell'aeroporto di Tel Aviv, ci misero seduti a
terra, strattonando Marco Revelli e Vittorio Agnoletto, e poi
rispediti su un volo Olympic ad Atene. La nostra colpa quella di
voler andare a portare la nostra solidarietà a Yasser Arafat, allora
sotto l'assedio delle forze armate israeliane, nel suo palazzo a
Ramallah. Dopo anni finalmente ho avuto occasione di toccare con
mano, seppur di striscio, la realtà dell'occupazione e la durezza
della situazione sul campo. Assai denso era il programma della
visita della missione di Sinistra Ecologia Libertà (composta da
Nichi Vendola, Arturo Scotto, Gennaro Migliore ed il sottoscritto).
Ciononostante sono bastate poche ore fin dall'atterraggio del nostro
volo al Ben Gurion per vedere, constatare, immaginare. Ci guida Mike,
nome inglese di un attivista palestinese di sinistra, presentatoci da
Luisa Morgantini, altra preziosa guida nella società civile
palestinese, che ci accompagna. É notte, ma il susseguirsi di reti,
grate, impedimenti alla circolazione, aiuta a delineare i confini
virtuali e quelli reali, blindati, nei quali vive la popolazione
palestinese di Cisgiordania. Strade che non possono essere percorse,
villaggi separati dalle terre da sempre coltivate per la propria
sopravvivenza raggiungibili solo tramite tunnel e sempre a
discrezione dell'esercito israeliano. Insomma quella strada pare la
terra di nessuno nella quale è scomparsa la politica.
Se c'è una prima parola che mi viene
in mente è “politicidio”, termine usato dal grande
politologo e sociologo israeliano Baruch Kimmerling nel suo lavoro
sulla politica di Sharon verso la Palestina. Una strategia minuziosa
e sistematica di demolizione di ogni fondamento reale per la
costruzione dello stato di Palestina, la costante ricerca di modalità
di annichilimento di un'entità statuale e non-statuale, fino alla
sua completa negazione. In Palestina dopo decenni di conflitto ed
occupazione quella che muore è la politica, nonostante gli ultimi
grandi sforzi a parte di Abu Mazen di tenere aperta la porta del
negoziato. Muore la politica tra palestinesi ed israeliani – che
politica ci può essere in una situazione di asimmetria quale quella
che si vive quotidianamente in quelle terre? Quale stato “viabile”
ci potrà essere se da una parte i palestinesi dipendono dagli aiuti
esterni e non possono commerciale i loro prodotti? O se una parte di
loro è ammassata nel'inferno di Gaza e l'altra vive ingabbiata da
un muro? O nei campi profughi? O come cittadino o cittadina di serie
“b” in Israele?
“Distopia” è l'altra parola
che ricorre spesso nella mia mente in quei giorni. Definisce una
asimmetria marcata dalla mano e dalla presenza militare. Il verde che
permea la politica, il verde degli ulivi dei villaggi palestinesi,
ora resi inaccessibili dalla barriera di cemento del muro ed il verde
di Gerusalemme Ovest, la Gerusalemme israeliana, colore evidente di
una guerra sotterranea, quella per il controllo delle risorse idriche
così preziose per la sopravvivenza, si mescola con il verde marcio
delle uniformi dei soldati di Tsahal. Li vedi ogni tanto punteggiare
i luoghi sacri di Gerusalemme, presidiare fermate dei bus nei pressi
degli insediamenti, i checkpoint e i metal detector che
devi attraversare per andare al Muro del Pianto, o nel suk di Hebron.
Con i loro mitra di ultima generazione. Già, perché non c'è da
dimenticare che l'occupazione è anche un grande business,
un'industria plurimiliardaria. Un laboratorio di tecniche di
controllo, sorveglianza, securitizzazione che oggi rappresentano
un'importante voce nei bilanci del paese e nell'export. Il verde
militare, il verde dei dollari versati dalle facoltose famiglie
ebraiche statunitensi, il verde del mito fondativo del sionismo, la
conversione del deserto in un nuovo Eden.
Muore la politica in Israele ed
all'interno della Palestina. In ambedue i casi, le élite e
l'establishment politico sembrano congelate in una logica di
confronto-scontro propria del millennio scorso e non capaci di
cogliere o metabolizzare e disinnescare le pulsioni che provengono
dal basso. Di un'opinione pubblica da una parte preda di un
sentimento diffuso di ostilità verso i palestinesi, dall'altra
stanca e sfiduciata verso i propri leader. Ed assistiamo dal vivo
alla morte della politica internazionale, del tentativo estremo del
Segretario di Stato americano John Kerry di tenere aperta la via
della trattativa. Alle mosse inedite di Abu Mazen, ultima tra queste
una dichiarazione senza precedenti che riconosce l'Olocausto come
orrendo crimine contro l'umanità, si contrappone la dura posizione
di Tel Aviv. Se Abu Mazen - anche lui abbiamo incontrato - comunica
l'intenzione di firmare convenzioni ONU sui diritti umani, o se
intende addirittura aprire la strada ad una presenza militare
internazionale per assicurare la sicurezza dei confini e dello stato
d'Israele, nulla conta. La risposta è sempre quella, o sei
inaffidabile, perché non vuoi riconoscere Israele come stato ebraico
(Eretz Israel, il nucleo del progetto di Theodor Herzl) o sei
complice dei terroristi perché fai l'accordo di riconciliazione con
Hamas a Gaza. O non hai la legittimità politica in tutta la
Palestina anche se fai un accordo storico di riconciliazione.
Insomma un gioco al massacro, nel quale risulta evidente la assoluta
assenza di volontà politica da parte del governo israeliano e della
maggior parte delle forse politiche (ad eccezione di Meretz ed altre
formazioni di sinistra) di voler dar credito ad Abu Mazen.
Così il nostro viaggio si è snodato
su più livelli: quello della ridda di dichiarazioni e
controdichiarazioni del mondo “politico” istituzionale da una
parte e quello della realtà sul terreno, della constatazione
quotidiana dei cosiddetti “facts on the ground”. Fatti che
dicono di un esperimento di disarticolazione del territorio,
dell'utilizzo dell'architettura e dell'urbanistica come strumenti di
politica di potenza, della manipolazione dei fatti storici e l'uso
dell'archeologia per affermare la propria storica potestà su una
terra che proprio per sua vocazione dovrebe essere terra aperta, di
tutti. La terra dove sono nate le tre più importanti religioni
monoteiste della storia, e che invece da decenni soffre la spinta
disumanizzante e sanguinosa della sua eredità. Ancora cancelli,
blocchi di cemento, inferriate, “razor-wire”, barriere blu della
polizia, scudi di plexiglass accatastati all'entrata della spianata
delle Moschee, telecamere, torri di controllo. Quelle annerite dal
fumo dei copertoni bruciati per chiudere la visuale ai soldati
israeliani lungo il muro o quelle che sembrano di latta a presidiare,
tra un tripudio di bandiere israeliane, quell'ultimo pianerottolo
strappato ai palestinesi.
I “settlement” sono questo:
dai villaggi modello alla lotta quotidiana all'interno di uno stesso
condominio che percepisci dietro ogni angolo della Gerusalemme
vecchia. Una rete fittissima, ormai forse inestricabile, che avanza
giorno per giorno. Non a caso le ultime mosse del governo Nethanyahu,
la goccia che ha fatto traboccare il vaso - per stessa ammissione di
alti funzionari del dipartimento di Stato – sono state quelle di
varare 400 nuovi insediamenti. (Diceva uno storico israeliano: Bibi
pare come quel pizzettaro che ti taglia la pizza ma si mangia tutte
le fette). Quel Nethanyahu che nel suo discorso in occasione della
toccante cerimonia di commemorazione della Shoah nello Yad Vashem ha
usato le parole del guerriero, della spada pronta a colpire il
prossimo nemico, l'Iran, che null'altro desidererebbe se non la
distruzione dello stato di Israele.
C'è poi un' altra sottotraccia che ha
attraversato il nostro breve viaggio. L'incontro con chi sta cercando
di resistere, di ricostruire un senso comune, tenere aperti ponti,
lanciarne di nuovi. Chi chiede ora solo di poter vivere degnamente,
di vedersi riconosciuti il proprio diritto a vivere in pace (“el
derecho de vivir en paz” cantava il grande Victor Jara) Il figlio
di Marwan Barghouthi o il direttore del centro culturale di Umm el
Fahm. Uno parla le parole del futuro, nell'altro si snodano le
immagini del passato, del necessario recupero della memoria per
difendere la propria identità e la propria dignità. Un futuro
incerto, duro, forse fatto di rassegnazione ma anche di piccoli atti
di resistenza, forse disperata. Alcune immagini mi sono rimaste
impresse come tracce di resistenza: lo sguardo forte di Vera
Baboun, sindaco di Betlemme, una città la cui realtà, nascosta alle
frotte di pellegrini e turisti, è di disoccupazione, povertà,
emigrazione. Parole di pace e riconciliazione.
O l'incontro con i comitati per la
resistenza nonviolenta del campo di Al Aida, che ci spiegano perché
hanno deciso di non ricorrere alla lotta armata. “Se prendi un
fucile sei solo in questa decisione, non crei comunità, non
costruisci le premesse per un futuro di giustizia. La scelta della
nonviolenza è anche scelta di costruzione della nostra comunità,
per riuscire a resistere dobbiamo essere uniti”. Così ci
dicevano sotto l'ombra del muro, e le fineste blindate di una scuola
sostenuta dall'ONU, ed in passato bersaglio dei cecchini israeliani.
A Betlemme parlo a lungo con il
direttore del conservatorio Edward Said, un italiano che da anni vive
lì cercando di far dialogare ragazzi israeliani e palestinesi con la
musica. Proprio come fa il grande Daniel Baremboim, cittadino del
mondo, con il suo progetto, fondato proprio con Said, della East-West
Divan Orchestra. Sono gli stessi ragazzini che al microfono
dell'intervistatore quando gli venne chiesto se per loro fosse un
problema che Baremboim, cittadino israeliano andasse a dirigere la
sua orchestra a Gaza risposero con sincerità disarmante ” Qual'è
il problema? scusa ma quando mai abbiamo potuto ascoltare Beethoven
dal vivo?” E che magari poi come un flash, spuntano
improvvisamente ai bordi della strada e lanciano qualche sasso
contro un bus di coloni israeliani.
C'è un cumulo di pietre lungo la
strada che collega H1 ad H2, le due sezioni di Hebron separate ancora
una volta da un checkpoint blindato. C'è rassegnazione forse ma
anche impeto irrefrenabile di rivendicare la propria esistenza e
diversità. Il proprio diritto ad esistere, magari tracciando con un
pennarello un disegno incerto di un mitragliatore, oppure urlando
“Allah Akbar” ogni volta che qualche gruppo di israeliani – con
la loro kippah – entra nella spianata delle Moschee per
rivendicarne la propria potestà. “Se Israele riuscisse nel suo
intento di spianare la Moschea di Omar per costruirci il proprio
tempio, sarà la terza guerra mondiale” ci dicono. Il colore
nero delle donne in velo fa il pari con il colore nero degli
ortodossi ebrei che costellano di notte il muro del pianto. Separati
gli uomini con le loro palandrane lunghe, i cernecchi, i cappelli a
falda larga o singolari colbacchi di pelliccia, separate le donne,
vestite all'antica, “come al ghetto di Varsavia”. In un flashback
mi torna alla mente Varsavia, le piastrelle che ricordano il muro del
Ghetto, il bel museo della cultura ebraica. Il museo dello Yad Vashem
ci ricorda quella storia, la ripercorre, lì a spiegare la Shoah, lo
sterminio.
Se c'è un muro che divide, ce n'è uno
che volenti o nolenti unisce. Il muro del pianto da una parte è
luogo di preghiera per i chassid, dall'altra muro di contenimento
della spianata delle Moschee. Allora quale tremendo cortocircuito
storico fa sì che in quella terra non possa essere pace? Forse
andranno invertito l'ordine dei fattori? Lo chiedo alla moglie di
Marwan Bargouthi: “tu dici che senza pace non potranno esserci
diritti. Ma non può essere vero anche il contrario? Che senza
diritti non ci potrà essere pace?” Se per pace si intende solo
l'assenza di guerra, oggi in Palestina ed Israele la guerra non c'è.
Il consigliere aggiunto per la sicurezza nazionale del governo a Tel
Aviv ci indica il muro, visibile ad occhio nudo da una collina di
Gerusalemme Ovest. Il muro ha portato alla fine degli attacchi
suicidi ci dice. Se la pace è pace “armata” diventa un concetto
“ameba” plasmabile a seconda degli interessi politici o della
propria visione del mondo.
Il figlio di Barghouthi ci parla di
diritti, come ce ne parla i giornalista israeliano Meron Rappaport o
il direttore del blog progressista + 972 Noam Sheifaz. I due stanno
lavorando ad una piattaforma ampia di intellettuali giornalisti e
società civile israeliana e palestinese che tenti di coniugare la
formula dei due stati per due popoli superando l'approccio meramente
territoriale e prevedendo invece un assetto confederativo fondato
sull'affermazione dei diritti di tutti e tutte coloro che vivono in
quei due stati. Un progetto ambizioso, di lungo periodo, ma che cerca
di costruire un processo di pace “dal basso” fondato appunto sui
diritti. Un'ipotesi che seppur mantenendo la formula due popoli –
due stati deve fare i conti con la questione del ritorno dei profughi
palestinesi ad esempio. Mi dicono: “guarda ma nell'area Schengen
voi potete muovervi, circolare liberamente decidere di andare a
vivere in un altro paese, e come cittadini europei avete eguali
diritti. Perché non tentare anche qua?”.
Mentre siamo in Israele e Palestina, in
Italia si sta svolgendo la campagna elettorale per le europee, i cui
temi di fondo mai o quasi mai prendono in considerazione l'importanza
del Medio Oriente e del Mediterraneo. Eppure qua l'Europa viene vista
come modello da imitare, come possibile alleato per la pace, visto
che le sue decisioni - ad esempio quele sull'etichettatura dei
prodotti provenienti dalle colonie stanno avendo un certo effetto sul
dibattito politico in Israele. Quando questo riuscirà a smuovere le
acque è tutto da vedere. Intanto sarà il caso che anche l'Italia
faccia la sua parte.
Certo è che quei due popoli continuano
a percorrere “strade che divergono”, come sintetizza un bel
saggio di Judith Butler sull'ebraismo ed il sionismo. Finché, dice
la Butler, non ci si renderà conto che la convivenza è un dato di
fatto piuttosto che una scelta, e che si esiste per il solo fatto di
essere in una terra comune. Lei ricorda Annah Arendt, quando dice che
non si può scegliere con chi coabitare nel mondo. Il diritto ad
esserci, a stare assieme su quella terra. Una sfida forse
impossibile, ma da tentare . Mentre mi perdo in queste
considerazioni ad Hebron, fa per avvicinarsi un ragazzino
palestinese, forse vuole venderci qualche braccialetto (grave reato
quello di portarsi a casa souvenir acquistati nei territori
occupati). Non riesce a dire due parole che un altro ragazzo
israeliano, di qualche anno più grande, in divisa verde e con il
solito mitragliatore a tracolla lo blocca, lo aggredisce verbalmente
e lo allontana con forza da noi.
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