giovedì 27 novembre 2014

Diritti e rovesci a C-Lima

 
Si avvicina la data di inizio della Conferenza delle Parti ONU sui cambiamenti climatici qua a Lima. Prima del 1 dicembre si susseguiranno iniziative di movimenti sociali ed indigeni, che culmineranno con l'apertura di un Padiglione degli indigeni amazzonici e dall'8 dicembre con la “Cumbre de los Pueblo” con la marcia dei popoli per la giustizia climatica ed i diritti umani. Nel mentre rappresentanti indigeni si riuniscono in questi giorni per mettere a punto la loro piattaforma ed aprire un tavolo di dialogo con rappresentanti di governi. Tra i punti all'ordine del giorno l'urgenza di assicurare che il nuovo accordo sul clima che verrà approvato alla COP21 di Parigi 2015 sia centrato su un approccio fondato sui diritti umani e dei popoli indigeni in particolare, tema che sarà il “leitmotiv” di tutte le ONG e movimenti sociali che confluiranno nei prossimi giorni a Lima. Questo significa che ogni programma o progetto relativo al climate change, che sia di protezione delle foreste, o altre forme di "mitigazione" dei cambiamenti climatici, deve rispettare i diritti umani, e quelli dei popoli indigeni alla terra, territori e risorse, assicurare la piena partecipazione e il principio del consenso previo libero ed informato. Eppoi che se da una parte i popoli indigeni oggi sono in prima nel subire gli effetti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi dai quali dipendono, dall'altra attraverso le loro pratiche di gestione e conoscenza tradizionale possoo svolgere un ruolo di primo piano nella prevenzione, mitigazione ed adattamento. Ed attraverso la loro resistenza all'invasione delle loro terre prevengono il rischio di ulteriore "landgrabbing" su terre e territori già messi a dura prova. Il secondo punto critico è che centrando tutto sulla mitigazione, si lascia scoperto un punto chiave quello del debito ecologico sofferto da popolazioni vittime dei cambiamenti climatici. E' lì che assume rilievo invece il tema dell'adattamento, ma adattare è meno appetibile alle imprese che mitigare, ed allora meglio concentrarsi sulla green economy piuttosto che la giustizia ecologica. Il documento base di negoziato su questo tema non ha alcun riferimento a diritti umani, ambientali o sociali, chiede solo ai governi se lo desiderano di informare su come le attività di mitigazione contribuiscono alla riduzione delle emissioni di carbonio. Questo non è sufficiente. Mentre il documento che formerà la base del negoziato di Parigi a differenza di quanto scritto in precedenza ora contiene un riferimento esplicito alla necessità di ripsettare i diritti umani e dei popoli indigeni. Ma il tema che resta aperto è quello di andare oltre un testo "cosmetico" di buone intenzioni e provare a rimettere in discussione l'intero paradigma. Giacchè il tema dei cambiamenti climatici non può essere ridotto ad un mero calcolo di benefici e costi economici ed in termini di gas serra. “System change not climate change” come dicono e reti per la giustizia climatica. Dall'altro capo del mondo parte un messaggio che dovrebbe entrare dritto nelle orecchie di chi a casa nostra dalle parti di Palazzo Chigi ha deciso di rilanciare l'estrazione di petrolio e combustibili fossili. E dall'altra parte stanzia oltre 300 milionidi euro per il Fondo Verde per il Clima. Già perché a vederla da qua l'Italia oggi è un mix tra territori che soffrono gil effetti dei mutamenti climatici (e che hanno diritto a politiche di adattamento, ad esempio attraverso piani di gestione del territorio) e territori e comunità che resistono all'espansione della frontiera petrolifera, spinta dall'urgenza di fare cassa e rimettere a posto i bilanci sotto la pressione della Trojka. Qua la versione andina è prerogativa del Fondo Monetario, ma mutando l'ordine dei fattori il risultato non cambia.

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