Si avvicina la data di inizio della
Conferenza delle Parti ONU sui cambiamenti climatici qua a Lima.
Prima del 1 dicembre si susseguiranno iniziative di movimenti sociali
ed indigeni, che culmineranno con l'apertura di un Padiglione degli
indigeni amazzonici e dall'8 dicembre con la “Cumbre de los Pueblo”
con la marcia dei popoli per la giustizia climatica ed i diritti
umani. Nel mentre rappresentanti indigeni si riuniscono in questi
giorni per mettere a punto la loro piattaforma ed aprire un tavolo di
dialogo con rappresentanti di governi. Tra i punti all'ordine del
giorno l'urgenza di assicurare che il nuovo accordo sul clima che
verrà approvato alla COP21 di Parigi 2015 sia centrato su un
approccio fondato sui diritti umani e dei popoli indigeni in
particolare, tema che sarà il “leitmotiv” di tutte le ONG e
movimenti sociali che confluiranno nei prossimi giorni a Lima.
Questo significa che ogni programma o progetto relativo al climate
change, che sia di protezione delle foreste, o altre forme di
"mitigazione" dei cambiamenti climatici, deve rispettare i
diritti umani, e quelli dei popoli indigeni alla terra, territori e
risorse, assicurare la piena partecipazione e il principio del
consenso previo libero ed informato. Eppoi che se da una parte i
popoli indigeni oggi sono in prima nel subire gli effetti dei
cambiamenti climatici sugli ecosistemi dai quali dipendono,
dall'altra attraverso le loro pratiche di gestione e conoscenza
tradizionale possoo svolgere un ruolo di primo piano nella
prevenzione, mitigazione ed adattamento. Ed attraverso la loro
resistenza all'invasione delle loro terre prevengono il rischio di
ulteriore "landgrabbing" su terre e territori già messi a
dura prova. Il secondo punto critico è che centrando tutto sulla
mitigazione, si lascia scoperto un punto chiave quello del debito
ecologico sofferto da popolazioni vittime dei cambiamenti climatici.
E' lì che assume rilievo invece il tema dell'adattamento, ma
adattare è meno appetibile alle imprese che mitigare, ed allora
meglio concentrarsi sulla green economy piuttosto che la giustizia
ecologica. Il documento base di negoziato su questo tema non ha alcun
riferimento a diritti umani, ambientali o sociali, chiede solo ai
governi se lo desiderano di informare su come le attività di
mitigazione contribuiscono alla riduzione delle emissioni di
carbonio. Questo non è sufficiente. Mentre il documento che formerà
la base del negoziato di Parigi a differenza di quanto scritto in
precedenza ora contiene un riferimento esplicito alla necessità di
ripsettare i diritti umani e dei popoli indigeni. Ma il tema che
resta aperto è quello di andare oltre un testo "cosmetico"
di buone intenzioni e provare a rimettere in discussione l'intero
paradigma. Giacchè il tema dei cambiamenti climatici non può essere
ridotto ad un mero calcolo di benefici e costi economici ed in
termini di gas serra. “System change not climate change” come
dicono e reti per la giustizia climatica. Dall'altro capo del mondo
parte un messaggio che dovrebbe entrare dritto nelle orecchie di chi
a casa nostra dalle parti di Palazzo Chigi ha deciso di rilanciare
l'estrazione di petrolio e combustibili fossili. E dall'altra parte
stanzia oltre 300 milionidi euro per il Fondo Verde per il Clima. Già
perché a vederla da qua l'Italia oggi è un mix tra territori che
soffrono gil effetti dei mutamenti climatici (e che hanno diritto a
politiche di adattamento, ad esempio attraverso piani di gestione del
territorio) e territori e comunità che resistono all'espansione
della frontiera petrolifera, spinta dall'urgenza di fare cassa e
rimettere a posto i bilanci sotto la pressione della Trojka. Qua la
versione andina è prerogativa del Fondo Monetario, ma mutando
l'ordine dei fattori il risultato non cambia.
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