Inside-outside. Dentro-fuori. Mi torna spesso alla mente quest'ipotesi
di lavoro per cercare di immaginare una qualche risposta "politica"
all'ennesimo dramma che occupa ora le nostre teste, e le testate di
giornali di tutto il mondo. Solo frammenti di ipotesi di lavoro. Il
primo: prendere coscienza del punto dal quale parte il nostro sguardo
sugli eventi. Un punto di partenza di cittadini e persone di sinistra, o
per lo meno preoccupate di assicurare i diritti, promovere la pace, ed
il bene comune. Io persona di sinistra, non islamica, che si sforza ma
che si rende conto di non poter avere tutti gli strumenti per capire un
mondo "altro". Allora riconoscere la propria limitatezza e la propria
"alterità" serve a decifrare meglio le ipotesi sulle quali provare ad
avviare una riflessione concreta. Secondo: che l'Islam lo conosce e lo
vive chi è islamico, chi è laico ma deriva da quella storia, chi si
sforza di superare barriere, chi costruisce ponti e prova a ridisegnare
frontiere. Che la linea di frontiera la definisce chi sta da una parte
ma anche da chi sta dall'altra parte. E' lì il tema della negoziazione,
della mediazione, della traduzione delle differenze. Allora ne sovviene
la terza: ogni esperimento di igngegneria sociale, di costruzione a
tavolino di società multiculturali è fallito, dall'Inghilterra alla
Francia. E si deve riprendere il discorso su altri fondamenti, quelli
della centralità del soggetto che si vorrebbe beneficiario di tale
politica. Credo che l'unica maniera per poter affrontare questo grande
interrogativo che ci pone l'integralismo islamico, con le sue derive
violente e militari sia quello di provare a sostenere una strategia
dentro-fuori. Chi è dentro quel mondo sa ed ha gli strumenti per mettere
in discussione le sue degenerazioni, ha i linguaggi, le pratiche, nel
sangue, nella mente. Sono loro che - senza applicare distinzioni tra
islam radicale o moderato - sono cittadini e cittadine di cultura,
estrazione o religione islamica che ripudiano la guerra, la violenza, il
fanatismo, che vogliono vivere in una società plurale che sappia
valorizzare le differenze senza necessariamente omologarle a forza. Sono
loro cui spetta il lavoro "dentro", E noi possiamo solo contribuire a
creare le condizioni perché questo avvenga. Ossia, la politica invece di
dichiarare guerra dovrebbe mettere in campo iniziative, progetti,
risorse per dare capacità "empowerment" per quelle persone, assicurare
la circolazione di idee, agevolare lo scambio, sostenere iniziative
culturali e di dialogo all'interno di quella o quelle comunità. Eppoi
far si che ogni possibile rigurgito razzista, islamofobico, xenofobo sia
messo al bando, perseguito che alla fine l'agenda politica di chi
uccide in nome di Allah è identica a quela di chi vuole sbarrare le
frontiere, perseguire chi si percepisce come diverso. Aprire spazi di
dialogo ed interlocuzione all'interno, e costruire barriere di
protezione dei diritti civili ed umani, di rispetto della dignità della
persona all'esterno e dall'esterno. Per far sì che anche la necessaria
opera di tutela della "sicurezza", significhi protezione e tutela della
dignità e dei diritti delle persone, non deriva securitaria.
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