venerdì 29 gennaio 2016

Dalle spiagge di Tripoli alle valli del Tigri


I ministri degli esteri di almeno 26 paesi aderenti al cosiddetto “small group” o coalizione internazionale contro il DAESH si sono riuniti a Roma ieri per fare il punto sui risultati dell'offensiva internazionale con il Califfato. Piena convergenza tra il segretario di stato USA John Kerry ed il ministro degli esteri Paolo Gentiloni per un maggior impegno militare, in realtà già discusso a livello di ministri della Difesa la scorsa settimana a Parigi in occasione della missione del segretario della difesa Ash Carter, mentre si stava perfezionando l'opzione già annunciata dal premier Renzi di inviare truppe italiane a presidio della diga di Mosul a protezione dei cantieri dell'impresa Trevi. Missione questa già di per se assai discutibile, ma che avendo a che fare con  una regione centrale per le strategie di controffensiva del Pentagono rischia di andare ben oltre gli obiettivi conclamati, e trasformarsi in intervento attivo in operazioni di guerra. L'impegno di Roma a Mosul, del quale questo blog ha già trattato, si aggiunge alla decisione di inviare un ulteriore contingente di 150 soldati ad Erbil per operazioni di soccorso medico in teatro di guerra. Anche della Libia si è parlato al summit alla Farnesina, in attesa dell'agognato via libera dei parlamenti di Tobruk e Tripoli al governo di unità nazionale. In realtà il punto ormai non è più sul se, ma sul quando e semmai sul come, ma l'intervento internazionale in Libia è cosa decisa, anzi in fase di preparazione avanzata. A mezza bocca, con il contagocce, arrivano notizie ed informazioni e indiscrezioni sullo spiegamento delle forze, sui ruoli, sull'ansia dell'Italia di porsi a capo della coalizione internazionale, nei fatti anche questa cosa in parte fatta – almeno nell'aspetto militare - con l'affiancamento all'inviato ONU Martin Kobler, del generale Serra come consigliere militare. Mentre a capo di Euronavfor MED, missione “passepartout” di contrasto ai trafficanti di esseri umani, e di blindatura delle frontiere sud del Mediterraneo è l'ammiraglio italiano Credendino. Poco per cantare vittoria, visto che il "core business" quello relativo alla partita politico-diplomatica vede Roma ai margini, giocando un ruolo puramente gregario. Così gli Stati Uniti   premono sull'acceleratore per iniziare attacchi mirati contro le roccaforti del Daesh a Sirte, sperando così di portarsi dietro una manciata di alleati, in primis Palazzo Chigi, che non vuole rischiare di rimanere al palo e vedersi scavalcare da una “coalizione dei volenterosi”.  In questo quadro a poco vale continuare a ripetere il  mantra  secondo il quale l'intervento dovrà essere subordinato alla costituzione del governo “di unità nazionale” del premier designato Al-Serraj. Pesa il recente rifiuto del parlamento di Tobruk, forse preoccupato di assicurare una poltrona di rilievo al generale Haftar, autoproclamatosi paladino della lotta al Daesh, e reo di gravi crimini di guerra.    Così dopo l'intervento internazionale del 2011 che portò alla  destituzione di Muhammad Gheddafi e - nelle modalità praticate - alla disarticolazione del paese la Libia si appresta a tornare un fronte di guerra. Di un intervento che appare ineluttabile ma di cui appare poco chiaro l'obiettivo finale, sia esso la stabilizzazione del paese, o il nation-building, o la lotta al DAESH. Ennesimo ricorso storico negli eventi di una regione che portano a nudo proprio le ferite della storia, le cicatrici riaperte di scelte di spartizione coloniale, di mani che tracciarono arbitariamente confini su una carta geografica. “From the halls of Moctezuma to the shores of Tripoli” dalle sale, un tempo piene d'oro poi razziato dai Conquistadores, di Montezuma, alle spiagge di Tripoli, così inizia l'inno dei Marines. Ricorda l'intervento armato contro il Bey di Tripoli, nell'anno 1804 . A quei tempi la Costa dei Barbari era il fronte avanzato di una jihad contro l'Occidente e di trattative tra Washington, Londra e i suddetti “barbari” o pirati, per assicurare il libero transito delle navi commerciali occidentali. Insomma si pagava un “pizzo” in cambio di un lasciapassare, un passaporto mediterraneo. E chi non ci stava o chiedeva troppo veniva punito con le armi. Con  lo sbarco di Marines a Tripoli appunto.  Si dice che già ce ne siano, di forze speciali anche italiane, a Misurata. Se ne sono viste in occasione dell'arrivo di un C-130 italiano a Misurata che avrebbe poi portato a Roma all'ospedale militare del Celio alcuni miliziani feriti in un attacco del Daesh. C'è poi la notizia dello spostamento di quattro AMX in Sicilia, e indiscrezioni trapelate sul possibile uso degli assetti ora in forza all'operazione Euronavfor MED per operazioni lampo contro Daesh o in difesa delle installazioni petrolifere dell'ENI. Eccola una delle sottotracce che rivelano la vera posta in gioco e che aprono un quadro assai più chiaro delle scelte e delle direttrici di politica estera del paese. Per non parlare dei cospicui interessi che ruotano intorno al Fondo Sovrano libico il LIA, azionista in  varie imprese italiane (tra cui Eni, Enel, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Finmeccanica, Fiat-Chrysler, Telecom) per un totale di 3 miliardi di dollari. Se però da una parte appare lineare nella sua logica  la priorità data agli interessi 'impresa ed in particolare a quelli del cane a sei zampe, e del progetto di creazione di un “hub” di gas naturale made in Italy fondato su un accordo con l'Egitto di Al Sisi, Tel Aviv e il nuovo governo libico, dall'altra sembrano meno logiche  le scelte di schieramento di Roma nel complesso scacchiere libico. Prendere posizione accanto ad una delle due parti in contesa, la scelta di puntare sulle milizie di Misurata come i nuovi “ascari” e il piano di inviare carabinieri per garantire la sicurezza di Tripoli nei fatti pregiudicano lo sforzo di  cercare una mediazione tra Tripoli e Tobruk. Tentativo faticoso portato avanti dall'inviato speciale ONU Martin Kobler, che certo non viene facilitato dal continuo tintinnare di sciabole, e dal richiamo continuo ad un intervento internazionale che piuttosto che intimidire o fungere da deterrente pare sortire con il DAESH l'effetto opposto. Quello di una ulteriore escalation negli attacchi ai terminali petroliferi, e un afflusso maggiore di miliziani pronti al martirio. Sembra la riedizione della strategia della “carta moschicida” applicata a suo tempo da Washington in Afghanistan, la cosiddetta “flypaper effect”: attiriamo tutti i jihadisti in un solo posto per sferrare il colpo finale. Strategia fallita miseramente a suo tempo ma che se ora applicata alla Libia dalla controparte rischia davvero di scatenare una tempesta perfetta per tutti coloro che nella galassia del DAESH o jihadista si unirebbero in una crociata contro l'Occidente. L'ennesima jihad. E così nella carta moschicida rimarrebbe impantanata la retorica del premier e dei suoi ministri, che rivendicano il ruolo guida dell'Italia nella ricostruzione e stabilizzazione dell'ex-colonia. Mentre rischiano la morte quelle migliaia e migliaia di disperati che cercheranno di fuggire dagli orrori della guerra e che troveranno le porte sbarrate da un'Europa ormai oltre una semplice crisi di nervi.

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