I
ministri degli esteri di almeno 26 paesi aderenti al cosiddetto
“small group” o coalizione internazionale contro il DAESH si
sono riuniti a Roma ieri per fare il punto sui risultati
dell'offensiva internazionale con il Califfato. Piena convergenza tra
il segretario di stato USA John Kerry ed il ministro degli esteri
Paolo Gentiloni per un maggior impegno militare, in realtà già
discusso a livello di ministri della Difesa la scorsa settimana a
Parigi in occasione della missione del segretario della difesa Ash
Carter, mentre si stava perfezionando l'opzione già annunciata dal
premier Renzi di inviare truppe italiane a presidio della diga di
Mosul a protezione dei cantieri dell'impresa Trevi. Missione questa già
di per se assai discutibile, ma che avendo a che fare con una regione
centrale per le strategie di controffensiva del
Pentagono rischia di andare ben oltre gli obiettivi conclamati, e
trasformarsi in intervento attivo in operazioni di guerra. L'impegno di
Roma a Mosul, del quale questo blog ha già
trattato, si aggiunge alla decisione di inviare un ulteriore
contingente di 150 soldati ad Erbil per operazioni di soccorso medico
in teatro di guerra. Anche della Libia si è parlato al summit alla
Farnesina, in attesa dell'agognato via libera dei parlamenti di
Tobruk e Tripoli al governo di unità nazionale. In realtà il punto
ormai non è più sul se, ma sul quando e semmai sul come, ma
l'intervento internazionale in Libia è cosa decisa, anzi in fase di
preparazione avanzata. A mezza bocca, con il contagocce, arrivano
notizie ed informazioni e indiscrezioni sullo spiegamento delle
forze, sui ruoli, sull'ansia dell'Italia di porsi a capo della
coalizione internazionale, nei fatti anche questa cosa in parte fatta
– almeno nell'aspetto militare - con l'affiancamento all'inviato
ONU Martin Kobler, del generale Serra come consigliere militare.
Mentre a capo di Euronavfor MED, missione “passepartout” di
contrasto ai trafficanti di esseri umani, e di blindatura delle
frontiere sud del Mediterraneo è l'ammiraglio italiano Credendino.
Poco per cantare vittoria, visto che il "core business" quello relativo
alla partita politico-diplomatica vede Roma ai margini, giocando un
ruolo puramente gregario. Così gli Stati Uniti premono
sull'acceleratore per iniziare
attacchi mirati contro le roccaforti del Daesh a Sirte, sperando così
di portarsi dietro una manciata di alleati, in primis Palazzo Chigi,
che non vuole rischiare di rimanere al palo e vedersi scavalcare da
una “coalizione dei volenterosi”. In questo quadro a poco
vale continuare a ripetere il mantra secondo il quale
l'intervento dovrà essere subordinato alla costituzione del governo
“di unità nazionale” del premier designato Al-Serraj. Pesa il
recente rifiuto del parlamento di Tobruk, forse preoccupato di
assicurare una poltrona di rilievo al generale Haftar,
autoproclamatosi paladino della lotta al Daesh, e reo di gravi
crimini di guerra. Così dopo l'intervento
internazionale del 2011 che portò alla destituzione di
Muhammad Gheddafi e - nelle modalità praticate - alla
disarticolazione del paese la Libia si appresta a tornare un fronte
di guerra. Di un intervento che appare ineluttabile ma di cui appare
poco chiaro l'obiettivo finale, sia esso la stabilizzazione del
paese, o il nation-building, o la lotta al DAESH. Ennesimo ricorso
storico negli eventi di una regione che portano a nudo proprio le
ferite della storia, le cicatrici riaperte di scelte di spartizione
coloniale, di mani che tracciarono arbitariamente confini su una
carta geografica. “From
the halls of Moctezuma to the shores of Tripoli”
dalle sale, un tempo piene d'oro poi razziato dai Conquistadores, di
Montezuma, alle spiagge di Tripoli, così inizia l'inno dei Marines.
Ricorda l'intervento armato contro il Bey di Tripoli, nell'anno 1804
. A quei tempi la Costa dei Barbari era il fronte avanzato di una
jihad contro l'Occidente e di trattative tra Washington, Londra e i
suddetti “barbari” o pirati, per assicurare il libero transito
delle navi commerciali occidentali. Insomma si pagava un “pizzo”
in cambio di un lasciapassare, un passaporto mediterraneo. E chi non
ci stava o chiedeva troppo veniva punito con le armi. Con lo
sbarco di Marines a Tripoli appunto. Si dice che già ce ne
siano, di forze speciali anche italiane, a Misurata. Se ne sono viste
in occasione dell'arrivo di un C-130 italiano a Misurata che avrebbe
poi portato a Roma all'ospedale militare del Celio alcuni miliziani
feriti in un attacco del Daesh. C'è poi la notizia dello spostamento
di quattro AMX in Sicilia, e indiscrezioni trapelate sul possibile
uso degli assetti ora in forza all'operazione Euronavfor MED per
operazioni lampo contro Daesh o in difesa delle installazioni
petrolifere dell'ENI. Eccola una delle sottotracce che rivelano la
vera posta in gioco e che aprono un quadro assai più chiaro delle
scelte e delle direttrici di politica estera del paese. Per non
parlare dei cospicui interessi che ruotano intorno al Fondo Sovrano
libico il LIA, azionista in varie imprese italiane (tra cui
Eni, Enel, Unicredit, Intesa Sanpaolo, Mps, Finmeccanica,
Fiat-Chrysler, Telecom) per un totale di 3 miliardi di dollari. Se
però da una parte appare lineare nella sua logica la priorità
data agli interessi 'impresa ed in particolare a quelli del cane a
sei zampe, e del progetto di creazione di un “hub” di gas
naturale made in Italy fondato su un accordo con l'Egitto di Al Sisi,
Tel Aviv e il nuovo governo libico, dall'altra sembrano meno logiche
le scelte di schieramento di Roma nel complesso scacchiere libico.
Prendere posizione accanto ad una delle due parti in contesa, la
scelta di puntare sulle milizie di Misurata come i nuovi “ascari”
e il piano di inviare carabinieri per garantire la sicurezza di
Tripoli nei fatti pregiudicano lo sforzo di cercare una
mediazione tra Tripoli e Tobruk. Tentativo faticoso portato avanti
dall'inviato speciale ONU Martin Kobler, che certo non viene
facilitato dal continuo tintinnare di sciabole, e dal richiamo
continuo ad un intervento internazionale che piuttosto che intimidire
o fungere da deterrente pare sortire con il DAESH l'effetto opposto.
Quello di una ulteriore escalation negli attacchi ai terminali
petroliferi, e un afflusso maggiore di miliziani pronti al martirio.
Sembra la riedizione della strategia della “carta moschicida”
applicata a suo tempo da Washington in Afghanistan, la cosiddetta
“flypaper effect”: attiriamo tutti i jihadisti in un solo posto
per sferrare il colpo finale. Strategia fallita miseramente a suo
tempo ma che se ora applicata alla Libia dalla controparte rischia
davvero di scatenare una tempesta perfetta per tutti coloro che nella
galassia del DAESH o jihadista si unirebbero in una crociata contro
l'Occidente. L'ennesima jihad. E così nella carta moschicida
rimarrebbe impantanata la retorica del premier e dei suoi ministri,
che rivendicano il ruolo guida dell'Italia nella ricostruzione e
stabilizzazione dell'ex-colonia. Mentre rischiano la morte quelle
migliaia e migliaia di disperati che cercheranno di fuggire dagli
orrori della guerra e che troveranno le porte sbarrate da un'Europa
ormai oltre una semplice crisi di nervi.
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