articolo per Mosaico di Pace, marzo 2016
L’annuncio dell’accordo per un governo unitario
in Libia potrebbe, a cinque anni dall'intervento internazionale che portò alla
caduta del regime di Gheddafi, dare il via libera ad una nuova avventura
militare in Libia, in un contesto caratterizzato dalle difficoltà di
raggiungere una soluzione politica tra le varie fazioni e dalla presenza
crescente del Califfato islamico (DAESH). Di fronte alla prospettiva di una
nuova guerra alle nostre porte, dei rischi che questo potrebbe comportare per
una soluzione politica e diplomatica alla crisi che attraversa tutto il Medio
Oriente ed il Maghreb, all'incolumità di migliaia di persone in cerca di
rifugio o asilo politico, è urgente uno sforzo comune per la pace.
La Libia
racchiude molti aspetti legati tra loro e se non si fanno i conti una volta per
tutte con il passato e la storia coloniale dell’Italia non ci sarà soluzione
politica che tenga in Libia, come nelle crisi nel Corno D'Africa o nei
tentativi di governare i flussi migratori da quella tormentata regione. La
Libia di oggi è risultato del fallimento della dottrina dell'ingerenza
umanitaria. Odyssey Dawn, sulla carta sferrata per proteggere la popolazione civile, si
dimostrò essere pretesto per un cambio
eterodiretto di regime. Senza nulla condonare allo spietato regime di Muhammad
Gheddafi, resta un bilancio fallimentare, conseguenza della scelta di
smantellare ogni residuo di “architettura” di governo del paese, quell'ossatura
sulla quale ricostruire semmai un tessuto connettivo sociale e politico di
dialogo e condivisione. Così la Libia si
è spaccata in due, tra governo e parlamento di Tripoli, più vicina alla
Fratellanza Musulmana, e Tobruk, sostenuto dall'Egitto e dalle potenze
“occidentali” preoccupate di prevenire l'islamizzazione del paese.
Questa
segmentazione “verticale” della Libia non rende giustizia della complessità della
questione, testimoniata dalle grandi difficoltà incontrate nel tentativo
dell'inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Kobler di costituire un
governo unitario nelle mani di un premier, Al Serraj, fino a poco tempo fa “esiliato” in Tunisia e
che nonostante l'accordo raggiunto sulla carta a febbraio non gode di tutta la
legittimità necessaria né a Tobruk che Tripoli. Una soluzione eterodiretta
fondata su basi fragili quindi ulteriormente pregiudicata
dall'altro fronte di instabilità, oltre al DAESH, delle tribù, numerosissime in
Libia, che rappresentano un potere territoriale di grande rilevanza, e che
rischiano di sentirsi escluse dalla partita della ricostruzione dell'assetto di
governo del paese. Ciononostante, si è rinunciato
a perseguire una via alternativa che mettesse attorno allo stesso tavolo tutti
gli attori politici e sociali in Libia, incluse le tribù e le autorità di
governo locali. Una situazione nella
quale la fretta di sferrare un colpo micidiale al DAESH, che in
Libia sta consolidando la sua presa dopo
varie battute d'arresto in Siria ed Iraq, è pessima consigliera.
La fragilità
della soluzione politica condizione necessaria per un’intervento militare, verrebbe
aggravata da un intervento militare internazionale che potrebbe trasformare la
Libia nell'ennesimo teatro di una guerra “santa” del DAESH contro l’Occidente,
nella quale si innesta una guerra per procura tra potenze regionali e non.
Basta leggere la trama dietro il generale Khalida Haftar, signore della guerra
già gheddafiano, fortemente sostenuto dal Cairo, reo di crimini di guerra nella
sua operazione “Dignità” volta a reprimere assieme al DAESH ogni formazione
islamica organizzata. Dietro Haftar soffiano
gli interessi geopolitici e strategici del Cairo che vorrebbe maggior controllo,
fino a prefigurare la sua annessione, sulla regione della Cirenaica, chiave per le
rotte energetiche. Quelle del gas naturale, che per Roma rappresentano una
partita di tutto rilievo, in particolare nella strategia ENI di creare un hub
per la redistribuzione del gas proveniente da Egitto, Libia e Israele. Il
prezzo da pagare per Roma è il silenzio sulle violazioni dei diriti umani in
Egitto, paese tornato alla ribalta con l’efferato assassinio di Giulio Regeni, o
sui diritti del popolo palestinese.
Dai
pozzi dell'ENI di Mellitah già sotto attacco da parte delle milizie del
DAESH, al gasdotto Greenstream, alla partecipazione del Fondo Sovrano Libico
(il LIS) con quote azionarie in varie imprese e banche italiane, risultano
evidenti le ragioni dell'insistenza di Palazzo Chigi per un ruolo guida nella
ricostruzione e stabilizzazione del paese. Che si tratti o meno di mettere a disposizione
assetti aerei o truppe speciali, addestratori o carabinieri incaricati di
assicurare l'ordine pubblico a Tripoli, ci si sta preparando ai vari scenari, ognuno
con i suoi rischi evidenti di trascinarci in un Vietnam tricolore, pena
l'essere anticipati da altri alleati, quali gli Stati Uniti, o l'Inghilterra o
la Francia, che già spinsero sull'acceleratore dell'intervento militare a suo
tempo. Per non parlare infine della questione migranti e di una nuova possible
ecatombe dopo quella che nel corso degli anni ha trasformato il Mediterraneo in
una fossa comune, e che potrebbe riattivarsi qualora in Libia esploda un
conflitto sanguinoso e senza prospettive di pacificazione effettiva. Con
persone che spingono per entrare in un'Europa nella quale rischia di saltare
tutto il sistema Schengen.
In questo quadro quale sarebbe il compito di chi ha
a cuore la pace? Anzitutto quello di mettere in crisi il ricorso allo strumento
militare, evidenziarne le contraddizioni ed i rischi per la pace e la stabilità
e rilanciare su ipotesi di lavoro che mettano al centro la politica ed il
dialogo per la Libia e di polizia internazionale rigorodamente sotto l’egida ed
il comando dell’ONU, intelligence e prevenzione per quanto riguarda il DAESH. Andrà
poi svelata senza mezzi termini la vera posta in gioco nella politica italiana in Medio Oriente, tra cui gli
interessi d'impresa dell'ENI rilanciando e chiedendo con forza una strategia
energetica che preveda l'uscita dalla trappola dei combustibili fossili .
Infine, andrebbero lanciate nuove iniziative per l'accoglienza, la
“smilitarizzazione” delle politiche migratorie, e la creazione di canali umanitari . Tre cardini di
un'agenda di lavoro che può rappresentare un'occasione di importante e
necessario rilancio delle iniziative di movimenti e società civile nel nostro
paese e far si che dal no alla nuova guerra in Libia nascano proposte concrete
di costruzione della pace, di giustizia ambientale e di rispetto e tutela della
dignità e dei diritti delle persone.
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