Sto riflettendo sul referendum di dicembre e
non posso non pensare a quello purtroppo fallito contro le trivelle, o meglio
sarebbe stato definirlo e gestirlo come referendum per la giustizia ecologica.
Vabbé tant’è. Ma vedo le due cose ben connesse. Credo infatti che i due
pilastri sui quali si debba rielaborare un progetto ed una pratica di
giustizia, che sia sociale, economica ed ecologica siano il buen vivir inteso
come trasformazione radicale del modello produttivo, ed il riconoscimento dei
diritti della natura, la fuoriuscita dalla trappola del petrolio, e la
democrazia reale. Il rapporto diretto e stretto tra cittadini e cittadine, e
chi si offre per il governo della cosa pubblica. Sono due elementi
profondamente intrecciati tra loro quello del contrasto al capitalismo
estrattivista e quello della trasformazione dei processi democratici verso
forme d democrazia diretta e partecipativa, di prossimità, di municipalismo
libertario da una parte e ricostruzione del “demos” e del “nomos” europei.
Insomma, credo che oggi sia fondamentale
rivedere i luoghi dell’agire politico, e del conflitto, ripensare il livello
nazionale, e cercare invece di consolidare le forme di municipalismo “virtuoso”
e di ricostruzione di uno spazio comune e transnazionale a livello europeo.
Per far questo però è necessario un doppio
passaggio: da una parte tenere aperto lo spazio di agibilità per permettere di
“approfondire” i processi e le pratiche democratiche, appunto prendendo atto della crisi della “rappresentanza” a livello
nazionale, per costruire altre forme dirette, aperte, inclusive ed includenti.
E dall’altro praticarle, e metterle a sistema. Questo spazio deve rimanere
aperto, per questo credo che oggi il tema del referendum costituzionale vada
visto in una prospettiva più ampia. Non può essere visto come un referendum
contro una persona o contro un partito, per quanto io non condivida
nell’essenza cosa quel partito sia o le linee politiche interpretate dal
premier e dalla sua maggioranza. In
quanto atto costituzionalmente riconosciuto di democrazia diretta, insomma un
piccolo mattoncino di quella democrazia reale che vorremmo, quello strumento è
a disposizione di tutti e di nessuno. Dei cittadini e delle cittadine
anzitutto, e non di singoli partiti politici. E un’eventuale vittoria del No,
non può essere messa a disposizione di nessuno se non dei cittadini e delle
cittadine che avranno votato NO. E che ahimé non rappresentano in maggioranza
la mia idea di società o di politica.
Ora, credo che la Costituzione non possa essere
intesa come un monoblocco intangibile, impermeabile alle trasformazioni
sociali, ma neanche può essere intesa come un menu à la carte, da rivedere e
correggere alla bisogna ed in ossequio ad interessi particolari. Giacché dietro
il pretesto di efficienza e efficacia, di good governance e certezza della
legge, di lotta alla casta ed agli sprechi, ingredienti che infarciscono la
retorica renziana, si cela il vero obiettivo. Ovvero una torsione che accentra
potere nelle mani del premier e indebolisce gravemente le prerogative del
Parlamento, cancella luoghi di democrazia di prossimità, e quantomeno sposta il
confine che si vorrebbe spingere ancor più in avanti verso la democrazia reale,
drammaticamente indietro. E fa di ciò
uno dei pilastri dello stato, come si fece con l’inserimento del
pareggio di bilancio in Costituzione. Che guarda caso è legato a doppio filo a
questa trasformazione della “governance” che la riforma costituzione vorrebbe
imprimere. Allora, è ovvio che schierarsi per il NO oggi significa anche
contrastare un modello non solo politico ma anche economico, che prevede
appunto il restringimento degli spazi di democrazia reale, in ossequio ad un
principio di “efficacia” ed “efficienza” elementi essenziali per attrarre
investimenti e agevolare gli interessi d’impresa. Spazi che sono di tutti e tutte, e vanno
difesi con le unghie ed i denti, con lo sguardo e la prospettiva rivolte in
avanti.
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