martedì 27 settembre 2016

Referendum, democrazia reale, buen vivir


Sto riflettendo sul referendum di dicembre e non posso non pensare a quello purtroppo fallito contro le trivelle, o meglio sarebbe stato definirlo e gestirlo come referendum per la giustizia ecologica. Vabbé tant’è. Ma vedo le due cose ben connesse. Credo infatti che i due pilastri sui quali si debba rielaborare un progetto ed una pratica di giustizia, che sia sociale, economica ed ecologica siano il buen vivir inteso come trasformazione radicale del modello produttivo, ed il riconoscimento dei diritti della natura, la fuoriuscita dalla trappola del petrolio, e la democrazia reale. Il rapporto diretto e stretto tra cittadini e cittadine, e chi si offre per il governo della cosa pubblica. Sono due elementi profondamente intrecciati tra loro quello del contrasto al capitalismo estrattivista e quello della trasformazione dei processi democratici verso forme d democrazia diretta e partecipativa, di prossimità, di municipalismo libertario da una parte e ricostruzione del “demos” e del “nomos” europei.
Insomma, credo che oggi sia fondamentale rivedere i luoghi dell’agire politico, e del conflitto, ripensare il livello nazionale, e cercare invece di consolidare le forme di municipalismo “virtuoso” e di ricostruzione di uno spazio comune e transnazionale a livello europeo.
Per far questo però è necessario un doppio passaggio: da una parte tenere aperto lo spazio di agibilità per permettere di “approfondire” i processi e le pratiche democratiche, appunto prendendo atto  della crisi della “rappresentanza” a livello nazionale, per costruire altre forme dirette, aperte, inclusive ed includenti. E dall’altro praticarle, e metterle a sistema. Questo spazio deve rimanere aperto, per questo credo che oggi il tema del referendum costituzionale vada visto in una prospettiva più ampia. Non può essere visto come un referendum contro una persona o contro un partito, per quanto io non condivida nell’essenza cosa quel partito sia o le linee politiche interpretate dal premier  e dalla sua maggioranza. In quanto atto costituzionalmente riconosciuto di democrazia diretta, insomma un piccolo mattoncino di quella democrazia reale che vorremmo, quello strumento è a disposizione di tutti e di nessuno. Dei cittadini e delle cittadine anzitutto, e non di singoli partiti politici. E un’eventuale vittoria del No, non può essere messa a disposizione di nessuno se non dei cittadini e delle cittadine che avranno votato NO. E che ahimé non rappresentano in maggioranza la mia idea di società o di politica.
Ora, credo che la Costituzione non possa essere intesa come un monoblocco intangibile, impermeabile alle trasformazioni sociali, ma neanche può essere intesa come un menu à la carte, da rivedere e correggere alla bisogna ed in ossequio ad interessi particolari. Giacché dietro il pretesto di efficienza e efficacia, di good governance e certezza della legge, di lotta alla casta ed agli sprechi, ingredienti che infarciscono la retorica renziana, si cela il vero obiettivo. Ovvero una torsione che accentra potere nelle mani del premier e indebolisce gravemente le prerogative del Parlamento, cancella luoghi di democrazia di prossimità, e quantomeno sposta il confine che si vorrebbe spingere ancor più in avanti verso la democrazia reale, drammaticamente indietro. E fa di ciò  uno dei pilastri dello stato, come si fece con l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Che guarda caso è legato a doppio filo a questa trasformazione della “governance” che la riforma costituzione vorrebbe imprimere. Allora, è ovvio che schierarsi per il NO oggi significa anche contrastare un modello non solo politico ma anche economico, che prevede appunto il restringimento degli spazi di democrazia reale, in ossequio ad un principio di “efficacia” ed “efficienza” elementi essenziali per attrarre investimenti e agevolare gli interessi d’impresa.  Spazi che sono di tutti e tutte, e vanno difesi con le unghie ed i denti, con lo sguardo e la prospettiva rivolte in avanti.


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