Un anno è passato dal vertice ONU sul Clima di Copenhagen, quando si consumò uno strappo che finora solo in parte è stato possibile ricucire. Complici di tutto ciò furono allora la doppiezza del governo danese, prono agli interessi degli Stati Uniti, il decisionismo di un Barack Obama ancora in testa nei sondaggi di popolarità, il basso profilo della UE, e l’adozione di un accordo non vincolante perseguito con modalità poco inclusive e trasparenti.
Da allora l’irrigidimento delle posizioni di Stati Uniti e Cina ha di fatto condizionato ogni possibile passo in avanti. Ormai da settimane i media internazionali ci preannunciano un risultato di basso profilo, per lo più centrato su misure concrete verso i paesi maggiormente vulnerabili al cambio climatico, riponendo ogni aspettativa per un accordo vincolate sulle riduzioni di emissioni e la stabilizzazione della temperatura globale al 2011 quando i governi si riuniranno a Durban,in Sudafrica.
E così nell’ultimo incontro preparatorio di Tianjin tenutosi ai primi di ottobre è continuato lo scontro tra USA e Cina. La Cina chiede – anche per conto dei G77 – denaro e un impegno chiaro a rispettare i vincoli di Kyoto per i paesi che hanno ratificato quell’accordo, estendendo il regime vincolante anche agli USA.
Washington – a maggior ragione dopo la batosta elettorale subita da Obama alle elezioni di mid-term – si presenterà con un pacchetto di proposte leggerissime, da quelle già lanciate a Copenhagen di una riduzione del 17% delle emissioni dai livelli del 2005 entro il 2020, (in un modello volontario che metterebbe in mora Kyoto) alla richiesta a Cina e G77 di ridurre le emissioni accettando controlli sull’uso dei fondi per il clima.
Ad oggi dei 30 miliardi di dollari annunciati a Copenhagen per il periodo 2010-2012 solo 3 sono stati effettivamente stanziati per programmi di adattamento, e circa 5 per la protezione delle foreste. Per avere un’idea delle proporzioni, si calcola che dal 2012 siano necessari per lo meno100 miliardi di dollari l’anno. Cifre che a fronte delle spese militari globali sembrano quasi irrisorie: solo in Italia per l’acquisto di un centinaio di cacciabombardieri F35 si brucerebbero 29 miliardi di euro mentre la spesa militare globale viaggia intorno al trilione e passa di dollari.
Il dossier “foreste” potrebbe essere l’unico possibile passo in avanti a Cancun. In verità su questo quasi tutti sono d’accordo sul fatto che REDD (Reduced Emissions from Deforestation and Degradation) potrebbe rappresentare la soluzione ideale: pochi impegni di spesa, per sostenere meccanismi di assorbimento dei gas serra, senza necessariamente ridurli nei paesi ricchi, ed in cambio denaro per ripagare i paesi tropicali per le entrate cui dovranno rinunciare per proteggere le loro foreste.
REDD rischia di essere però il topolino partorito dalla montagna, in attesa di tempi migliori verso il prossimo vertice di Durban. Certo è che senza un riconoscimento della centralità della tutela della biodiversità si rischia di sostenere la sostituzione di foreste vergini in piantagioni, magari di biofuel, senza un vincolo sui diritti umani e dei popoli indigeni, si rischia di scatenare una corsa all’oro verde ed alle terre indigene da parte di governi ed imprese.
Mentre grazie ai permessi di emissione generati da REDD i paesi industrializzati e le imprese potranno continuare ad inquinare. Anche REDD potrebbe cadere nella tagliola dei veti incrociati. Fino a qualche settimana fa si ipotizzava che Cancun potesse produrre una serie di decisioni per azioni concrete, incluso quello sulle foreste, struttura del fondo climatico, trasferimento di tecnologie, adattamento e monitoraggio dei programmi di mitigazione.
Ora si propende per un unico documento equilibrato, come da richiesta americana. Tutto o nulla questa è la posta in gioco a Cancun. Il tutto rischia di essere insufficiente, il nulla un duro colpo alla tenuta delle Nazioni Unite e del multilateralismo già duramente messo a dura prova un anno fa nella gelida capitale danese.
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