uno spazio pubblico per attivisti/e che lavorano per la pace, il disarmo, i diritti umani, la giustizia sociale, economica ed ecologica globale, la resistenza alle politiche neoliberiste, il riconoscimento del debito ecologico e sociale.
domenica 18 dicembre 2011
un bilancio dopo Durban
mercoledì 26 ottobre 2011
A Durban una strada tutta in salita per il clima
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venerdì 21 ottobre 2011
Libia, diritti umani e ingerenza umanitaria
Dapprima denominato Odyssey Dawn e poi Unified Protector, l'intervento internazionale in Libia, approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in seguito all'intensa campagna diplomatica di Nicholas Sarkozy e David Cameron, ha aperto un intenso dibattito nelle opinioni pubbliche progressiste di mezza Europa. Lanciata con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi, e soprattutto per evitare un possibile massacro della popolazione di Bengasi l'operazione militare ha rapidamente assunto i connotati di una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime. Nei fatti l'operazione, nelle intenzioni dei principali sponsor, era mirata a ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO. Dall'inizio della vicenda ad oggi sono state approvate tre risoluzioni, una delle quali , la risoluzione 1973, ha autorizzato l'uso discrezionale della forza a protezione dei civili ed ha marcato un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite. In realta' qualche settimana dopo accadde lo stesso con una risoluzione che autorizzo' l'uso della forza nel conflitto interno in Costa d'Avorio tra le milizie del presidente uscente Laurent Gbagbo e quelle del presidente eletto Ouattara, sempre a seguito di un intenso attivismo dell'Eliseo. In ambo i casi viene per la prima volta messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P) sviluppato per dotare la comunita' internazionale di strumenti legali necessari per attivarsi in interventi umanitari con l'uso della forza. Memori della propria incapacita' di prevenire le stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, le Nazioni Unite istituirono un gruppo di lavoro che elaboro' le linee guida e le giustificazioni giuridiche necessarie allo scopo. In sintesi si delineo' un approccio volto a mettere al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati. Lo snodo centrale della R2P e' il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” , ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di attivarsi qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani fondamentali e compiendo crimini contro l'umanita' o crimini di guerra. Il rapporto stilato dalla Commisione sulla sovranita' degli stati ed adottato nel summit dedicato che si tenne nel 2005 prevede, a differenza delle missioni umanitarie normalmente condotte dall'ONU, l'intervento con possibile uso della forza anche senza il consenso del governo dello stato interessato. Da allora fino all'intervento in Libia pero' il principio della R2P non aveva ancora trovato applicazione pratica. Gli Stati Uniti in particolare tentarono piu' volte e senza successo di invocarlo per costruire il consenso necessario per legittimare un'operazione militare internazionale per porre fine a quell che i fautori dell'intervento avevano definito un genocidio in Darfur. A sei anni dalla sua adozione la R2P rischiava pertanto di rimanere lettera morta e possibilmente cadere in una prescrizione di fatto, nonostante fosse stato recepito in diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Per questa ragione il precedente fissato con la 1973 acquisisce certamente una portata storica, ma potrebbe allo stesso tempo segnare la fine del principio della R2P. Le modalita' con le quali si e' deciso e poi messo in atto l'intervento in Libia infatti mettono a nudo tutte le contraddizioni ed i rischi di un uso strumentale del principio della R2P. Rischi derivanti dal suo uso selettivo, dalla mancata gestione ed attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e dall'uso di strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza, non necessariamente adeguati alla protezione dei civili, nonche' dal possibile sconfinamento delle finalita' iniziali in obiettivi di "regime change". Fin dall’inizio si decise infatti di dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Altro punto riguarda il ruolo del Consiglio di Sicurezza che - a differenza di quanto proposto dalla Commissione ONU sulla sovranita' degli stati che attribuiva all'Assemblea Generale la facolta' di approvare o meno l'uso della forza - ha il diritto di decidere sull'uso della forza. Il fatto che tale decisione venga lasciata al Consiglio di Sicurezza. Cio' rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. La prima questione aperta riguarda quindi le modalita' con le quali si decide di applicare la R2P ed autorizzare l'eventuale uso della forza. Andra' anzitutto affermato che questo principio, ed il conseguente diritto di ingerenza umanitaria, dovrebbero essere discussi e decisi nella maniera più democratica possibile, ossia dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite dove nessuno stato membro ha diritto di veto e dove vige il principio "una testa un voto". Così si potrebbe evitare il rischio di doppi standard e di un'applicazione strumentale del principio, che è pensato per difendere i deboli e non per promuovere gli interessi dei potenti. In attesa di una riforma in seno al Consiglio di Sicurezza potrà essere possibile per una coalizione di stati proporre una risoluzione all'Assemblea Generale, prendendo atto della incapacità del Consiglio di Sicurezza di operare rapidamente, e chiedendo l'applicazione del precedente "Uniting for Peace". Secondo questa procedura l'Assemblea Generale può essere investita di questioni relative alla sicurezza ed alla pace, qualora la situazione sul campo risultasse in rapido deterioramento, venissero meno le opzioni diplomatiche, e si rendesse necessaria una decisione genuinamente multilaterale. Il secondo punto riguarda il quando deve decidere. Sarà necessario proporre che il sistema delle Nazioni Unite rafforzi la sua capacità di "early warning" per prevedere lo scoppio di conflitti che possono mettere a rischio la vita di civili, ed attivare immediatamente l'Assemblea Generale, per mettere in campo tutte le misure politiche-diplomatiche- economiche volte a prevenire il conflitto. Qualora queste si rivelassero impraticabili si dovrà decidere per l'invio di una forza di interposizione (anche armata) che però risponda al comando delle Nazioni Unite, e non - come nel caso libico - ad una coalizione di volenterosi, poi collocata sotto l'ombrello della NATO. L'intervento della comunita' internazionale dovrebbe essere intrapreso attraverso il dialogo diplomatico, l'interposizione, assicurando il pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite e sempre tenendo in considerazione i diritti delle popolazioni minacciate che dovrebbero essere coinvolte e consultate rispetto alle modalità di intervento. Un caso esemplare puo' essere considerato quello del Burundi, nel quale la R2P è stata applicata in tutta la gamma di modalità previste eccetto l'uso diretto della forza: dalla pressione della società civile per un'iniziativa diplomatica regionale, allo schieramento di una forza regionale di "peacekeeping", ed una volta raggiunta la pace, ed effettuate le elezioni, si è passati al sostegno alla ricostruzione post-conflitto. Insomma, il principio di ingerenza umanitaria innesca dinamiche estremamente complesse e spesso contraddittorie, e comporta una serie di attivita' ed iniziative che vanno ben al di la' dell'uso puro e semplice della forza. Una possibile alternativa dovra' pertanto essere fondata su un nuovo approccio che faccia tesoro e si fondi sui principi della nonviolenza, giustizia e prevenzione dei confitti. In questo quadro sara' altrettanto urgente rilanciare proposte concrete su temi quali la sicurezza umana, la prevenzione dei crimini contro l'umanita' , la democratizzazione delle Nazioni Unite, nonche' una ridiscussione del ruolo e dell'utilita' della NATO. Perche' la pace non puo' essere confinata ad una rivendicazione etica pura e semplice, ma deve essere intesa come progetto politico volto a assicurare dignita' e giustizia agli esseri umani e relazioni solidali tra i popoli.
Dalle missioni ad una "mission" di pace nel mondo
Questo dossier intende fornire alcuni elementi necessari per operare un cambio di passo dallo studio critico delle “missioni” internazionali, all’elaborazione di una nuova “mission” pacifista e nonviolenta per il nostro paese, che ripudi la guerra in tutte le sue categorie, vecchie e nuove che siano. Elettra Deiana ci offre un breve excursus storico della trasformazione delle dottrine italiane di difesa e delle finalità delle missioni all’estero, diverse nella loro natura e modalità operative, sottolineando i rischi connaturati alla possibile violazione o elusione dell’articolo 11 della Costituzione. Il contributo di Giulio Marcon tratta della commistione tra cooperazione civile e militare, uno degli elementi di maggior novità negli ultimi anni. Se questo approccio ha trovato la sua prima espressione nell’Operazione Arcobaleno, oggi sembra essere diventato “mainstream”, segnando l’uso dei fondi di cooperazione , già scarsi se non inesistenti, a favore di formule ibride proprie delle operazioni di contro-insurgenza. Altro tema trattato riguarda l’ingerenza umanitaria o “responsibility to protect” ovvero la possibilità della comunità internazionale di intervenire per proteggere i diritti di popolazioni a rischio, qualora quei governi vengano meno alle loro responsabilità. L’intervento internazionale in Libia rischia di sancirne la fine, viste le modalità seguite e l’uso del tutto strumentale per legittimare una guerra volta a rimuovere “manu militari” un regime. Comprimendo al massimo i vincoli del diritto internazionale si aprono così zone grigie di legalità ed illegalità che rischiano di rendere ridondante l’impianto del diritto internazionale, creando uno stato di eccezione permanente volto a legittimare qualsiasi forma di intervento contro il nemico di turno. Sarà pertanto urgente lavorare per la costruzione di un’alternativa plausibile, facendo tesoro di esperienze positive di interposizione quali la missione UNFIL in Libano, oggetto della testimonianza diretta dell’ex ambasciatore italiano a Beirut, Giuseppe Cassini. Oppure traendo le necessarie considerazioni dall’esperienza afghana (riportata da Emanuele Giordana e Gianni Rufini) in una fase storica nella quale l’intervento internazionale piuttosto che assicurare la pacificazione ed il rispetto dei diritti umani è accompagnato da una preoccupante escalation del conflitto anche nelle aree di competenza italiana, e dal crescendo di violazioni dei diritti umani da parte delle forze governative. Al Kosovo dedicheremo uno spazio più ampio in un prossimo numero, vista la rilevanza storica ed il recente riacutizzarsi del conflitto interetnico in quella regione.
Frammenti da un mondo in crisi
È stato liberato dopo oltre 5 anni di prigionia il soldato israeliano Gideon Shalit, in cambio di un migliaio di prigionieri palestinesi. Uno spiraglio per il rilancio della trattativa internazionale si dice. Nel frattempo la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina è passata dal Consiglio di Sicurezza all’organismo dell’ONU preposto a vagliare l’ammissione di nuovi stati. Un escamotage per guadagnare tempo e ridare fiato all’iniziativa del Quartetto? Se da una parte il presidente Obama insiste nella sua decisione di porre un eventuale veto su una decisione del Consiglio di Sicurezza, dall’altra l’offensiva diplomatica palestinese continua. Dal Palazzo di Vetro è passata ora alle singole agenzie specializzate, UNESCO in testa, che stanno valutando il da farsi.
Il corpo martoriato del dittatore viene esposto come trofeo o simbolo di una nemesi storica per suggellare la chiusura violenta del passato di un paese, la Libia, che oggi dichiara la sua liberazione. Restano molti interrogativi ai quali si dovrà dare risposta. Quali segreti si porta nella sua tomba segreta Mohammar Gheddafi? Quale prospettiva di pace in un paese che ora entrerà nella fase più difficile, quella della ricostruzione e della riconciliazione nazionale, spaccato com’è tra varie fazioni fino ad ora unite contro un unico nemico? La storia dell’operazione internazionale in Libia ci interroga su questioni molto controverse. Su come tutelare i diritti umani senza legittimare la rimozione violenta di un regime e quale scala di priorità dare tra pace e giustizia. A suo tempo il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale Moreno Ocampo venne criticato per aver spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi e la sua famiglia mentre erano in corso trattative per una soluzione negoziale del conflitto. Si disse che quella scelta fosse stata controproducente e si argomentò molto sulla relazione che intercorre tra pace e giustizia internazionale. Una presuppone o esclude l’altra? Piuttosto che essere giustiziato per una taglia da 20 milioni di dollari Gheddafi avrebbe dovuto essere stato giudicato da un tribunale internazionale. Così non è stato.
A riflettere sulle immagini di piazza Syntagma dei giorni scorsi, di un parlamento sotto assedio ormai ridotto ad immagine senza sostanza, “imago sine re” dicevano i Romani, e condannato ad accettare supinamente le prescrizioni della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale vengono alla mente le parole dell’economista Dani Rodrik. Nella sua ultima fatica, “Il paradosso della globalizzazione”, Rodrik ci dice che non è affatto vero che i mercati globali prosperino grazie ad uno stato “leggero”, anzi ci dimostra il contrario. Semmai il problema da affrontare è quello di sciogliere un “trilemma”, tra democrazia, globalizzazione economica ed interesse nazionale. “Non possiamo perseguire contemporaneamente tutt’e tre” aggiunge, e conclude ” Dobbiamo fare delle scelte, ed io voglio essere chiaro sulle mie: la democrazia e l’autodeterminazione devono essere prioritarie rispetto all’iperglobalizzazione. Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro contratti sociali e quando questo diritto confligge con le esigenze dell’economia globale dovrà essere il primo a prendere il sopravvento”. Con buona pace dei deputati greci e dei parlamentari italiani cui era stato proposto di introdurre in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio con l’avallo di buona parte del centrosinistra.
Si riaccende lo scontro in Kurdistan turco. Dopo la recente offensiva del PKK dura è stata la risposta dell’esercito di Ankara in un conflitto che si trascina ormai da anni, e supera i confini nazionali, aggravando ulteriormente la situazione già difficile in Irak. Come fantasmi della storia riemergono le rivendicazioni di popoli senza stato, dal Kurdistan al Sahara Occidentale, riemergono le tensioni in Kosovo, mentre dal paese basco arriva la notizia dell’abbandono definitivo delle armi da parte dell’ETA. Quella stessa Turchia che aspira a svolgere un ruolo di “playmaker” nel Mediterraneo, secondo i principi del “neo-ottomanesimo” e che l’Unione Europea ha fin troppo tardato ad accogliere. Quella Turchia che avrebbe mediato per la liberazione di Gideon Shalit, e che di recente avrebbe concluso un accordo con la Norvegia per la formazione alla diplomazia di pace, e prevenzione dei conflitti. E che oggi al suo interno non trova la chiave di svolta per porre fine ad un conflitto senza altre vie d’uscita, per il popolo kurdo e per quello turco.
Si avvicina la data fatidica delle elezioni in Tunisia, culmine della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini, mentre in Egitto la transizione appare sempre più complessa e piena di rischi. Al Cairo i militari continuano a tenere il bastone dalla parte del manico forti di un possibile accordo con i Fratelli Musulmani per costruire uno stato egiziano nazionalista con forte impronta islamica. In Tunisia le aspettative sono differenti, vista la differente genesi del processo di trasformazione. Un ruolo forte dei sindacati, di alcuni partiti politici della sinistra, un ruolo defilato dei militari lascerebbero ben sperare. Sullo sfondo, una grave crisi economica e sociale, e l’avanzata galoppante del partito islamico Ennahdha, il cui leader Rachid Ganouchi qualche giorno fa ha prospettato il rischio di brogli elettorali, e minacciato una rivolta. Quale che sia l’esito finale chi andrà al potere in Tunisia dovrà imbarcarsi nell’arduo compito di riscrivere la Costituzione, e tenere in vita uno spirito “costituente” affermatosi non nel Palazzo ma nelle piazze e nelle strade del paese.
Peacereporter ci informa della pubblicazione di un documento sullo stato del conflitto in Afghanistan. Secondo l’Afghan NGO Safety Office (Aprile 2011), si è registrato un aumento degli attacchi da parte delle varie componenti dell’insurgenza afghana del 51% rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno. Nel marzo 2011 sono stati registrati ben 1102 attacchi, mentre nel primo trimestre si è registrato un aumento del 115% nella regione di Herat e del 164% in quella di Farah, nelle quali operano i contingenti italiani, per un totale di 116 attacchi. Un conflitto senza uscita, scomparso dall’attenzione dei media, caratterizzato da quello che viene definito “stallo perenne sotto escalation”, nel quale le operazioni di controinsurgenza di fatto rafforzerebbero le attività dell’insurgenza. Ed accanto a ciò si nota l’intensificarsi delle attività di gruppi armati irregolari, al soldo di capi tribali o politici locali, e tollerati dagli Stati Uniti.
venerdì 26 agosto 2011
Debito ecologico, diritti e sviluppo in America Latina
Sulla Manta-Manaus si veda anche: http://mantamanaos.blogspot.com/
giovedì 4 agosto 2011
I VERI CREDITORI SIAMO NOI
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Dieci anni fa a Genova chiedevamo la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti e la fine degli aggiustamenti strutturali imposti su quei popoli dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale con insostenibili costi sociali ed ambientali. Dopo Genova si sono registrati molti passi in avanti sulla questione del debito: l'Ecuador ha compiuto un importante processo di auditoria, la Norvegia primo stato al mondo, ha riconosciuto l'illegittimità; del debito estero, l'Italia che si è dotata per prima una legge sul debito -la 209 - ha applicato la cancellazione vanificandone gli effetti positivi, poiché contestualmente ha cancellato i cosiddetti aiuti allo sviluppo.
I G8 che seguirono Genova misero in agenda il debito raccontandoci la solita favola di una presunta epocale e reale cancellazione. L'Italia ha brillato in questa bugia beffarda. Noi lo dicemmo allora e lo diciamo ancora oggi: per perseguire reali e verificabili cancellazioni del debito è necessaria una forte azione di monitoraggio da parte della società civile per sapere come e se e come queste cancellazioni vengono praticate.
Da quegli anni però qualcosa è cambiato: oggi abbiamo maturato una nuova consapevolezza. Oggi siamo noi cittadini e cittadine d'Europa a dover chiedere conto del nostro debito pubblico e degli effetti delle manovre finanziarie imposte dal patto per l'Euro e dalla Banca Centrale Europea sui nostri diritti.
Oggi la stragrande maggioranza degli aiuti del FMI sono diretti ai paesi europei, mentre altri paesi quali l'Egitto hanno rifiutato aiuti delle Istituzioni di Bretton Woods , in quanto le condizionalità; macroeconomiche annesse sono contrarie al pubblico interesse.
Oggi i nostri diritti fondamentali ed i beni comuni subiscono un attacco senza precedenti, in nome del pareggio di bilancio e dell'uscita dalla crisi prodotta dallo strapotere dei mercati finanziari e dal restringimento progressivo della capacità dei paesi e degli organismi democraticamente eletti di recuperare un potere di indirizzo sulle proprie economie e spesa pubblica.
Ci dicono che non c'è alternativa. I movimenti del Sud del mondo ci mostrano invece che un'alternativa esiste, e dobbiamo pretenderla con determinazione.
Abbiamo il diritto di sapere, e rivendichiamo il nostro diritto di non pagare i debiti odiosi e illegittimi prodotti da chi ha costruito la propria ricchezza con la corruzione e la gestione del potere economico e finanziario con l'unico scopo di soddisfare ragioni private, a chi sui beni comuni vuole continuare ad arricchirsi, sottraendoli al pubblico interesse. Se per pagare il debito pubblico si accumula un debito sociale ed ecologico per queste generazioni e quelle a venire, questo debito non va pagato.
Abbiamo pertanto anzitutto il diritto di sapere come questo debito si è accumulato, le responsabilità politiche, quale non va pagato perchè legato a corruzione, fughe di capitali, speculazioni finanziarie, investimenti fallimentari in infrastrutture inutili alla collettività, spese militari e quale può; essere rinegoziato. E quale debito andrà pagato, facendo tesoro delle proposte alternative formulate da campagne quali Sbilanciamoci.
Sia in Grecia che in Irlanda, come in Spagna e Francia, movimenti sociali e cittadini chiedono la convocazione di una commissione pubblica di "auditing" del debito, sulla scorta delle esperienze fatte in paesi quali l'Ecuador, il Brasile e le proposte formulate dai movimenti sociali del Sud del mondo.
Un "auditing" del debito italiano è il primo passo per costruire una soluzione politica alla crisi, che possa aprire una via alternativa, che deve necessariamente affrontata con maggior democrazia e partecipazione, e dovrà essere improntata su principi di giustizia sociale, economica ed ambientale.
Per questo ci opporremo all'introduzione del vincolo di pareggio di bilancio nella Costituzione italiana, giacché quella Costituzione è alla base dei nostri diritti fondamentali che non potranno mai essere messi allo stesso livello degli interessi dei mercati finanziari. A questo sarà necessario aggiungere altre proposte a livello europeo, quali l'adozione di un' imposta sulle transazioni finanziarie, l'abolizione dei paradisi fiscali, la creazione di un'agenzia europea di rating, modalità di indirizzo e controllo politico sulla Banca Centrale Europea, un'agenzia fiscale europea, l'emissione di Eurobonds ed il sostegno a programmi virtuosi di spesa per il rilancio delle piena e buona occupazione, una riconversione ecologica dell'economia, un welfare europeo fondato sul reddito di cittadinanza.
Crediamo che la soluzione al problema della crisi debba passare attraverso un rinnovato ruolo dell'Europa, ed un rilancio del progetto politico dell'Unione Europea, un progetto incompiuto, mentre procede a gran forza l'altra Europa, quella del patto di stabilità, del patto dell'Euro. Un rilancio che passa necessariamente attraverso maggior partecipazione e coinvolgimento diretto dei cittadini e cittadine d'Europa come proposto dalle varie campagne per le iniziative dei cittadini europei.
Per questo oggi crediamo che debba partire proprio da Genova un messaggio chiaro. Questa crisi provocata dalle speculazioni finanziarie noi non la vogliamo pagare né farla pagare alle generazioni a venire.
Genova, 22 luglio 2011
Primi firmatari:
Raffaella Chiodo, Francesco Martone, Vittorio Agnoletto, Nicola Vallinoto, Raffaella Bolini , Francesco Luca Basile, Maurizio Gubbiotti, Enrico Calamai, Gianfranco Benzi, Mariuccia Cadenasso, Roberto de Montis, Giuseppe Morrone, Loretta Mussi, Silvana Pollice
mercoledì 20 luglio 2011
per una "Auditoria" del debito pubblico italiano
http://www.nuevatribuna.es/articulo/economia/2011-07-15/attac-pide-auditoria-deuda-cada-pais/2011071513024400361.html
http://www.jubileedebtcampaign.org.uk/Nick%20Dearden%20blog%20from%20Athens%20Debt%20conference+6986.twl
martedì 21 giugno 2011
Sulla guerra in Libia e le possibili soluzioni politiche
Le ultime drammatiche notizie provenienti dalla Libia su nuove vittime civili causate dai bombardamenti della NATO, (probabilmente non le uniche, vista l’intensità dei raid aerei dell’Alleanza e le denunce fatte in precedenza da alte personalità religiose locali) riportano all’attenzione della pubblica opinione la natura stretta dell’operazione militare internazionale ora denominata “Unified Protector” e lanciata a suo tempo con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi. Questa è una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime, e per ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO. Ancora una volta – come in Afghanistan – ci viene poi detto che è in gioco la credibilità ed il futuro della NATO, alleanza alla ricerca costante di una nuova ragione di esistere. In questo contesto, le vittime prime continuano ad essere il diritto internazionale e quelle popolazioni civili supposte beneficiarie dell’intervento, e che oggi si trovano intrappolate in un fuoco incrociato, tra bombe umanitarie, operazioni militari sul terreno, e crimini di guerra commessi da tutte le parti in conflitto. Questi elementi, assieme alla querelle tutta interna alla maggioranza sulla continuazione della missione in Libia , e l’annuncio dato nelle scorse ore da Berlusconi circa la decisione di porre termine alla partecipazione italiana alle operazioni a settembre, ci devono impegnare ad una più forte iniziativa di pace. Soprattutto in una fase nella quale opinione pubblica ed i media sembrano aver rimosso la guerra. Obiettivo principale dovrà essere quello di rilanciare una soluzione pacifica e diplomatica al conflitto, in sostegno ad una transizione pacifica verso la democrazia in Libia, anche sulla scia di quanto approvato nel documento dell’ultima Assemblea nazionale di SEL. Le operazioni militari sul campo ormai sono in un’impasse, un braccio di ferro nel quale la NATO spera di fiaccare definitivamente le truppe “lealiste” per poi costringerle a forza di defezioni , alla resa negoziata. Nelle condizioni attuali non sarà possible neanche lontanamente immaginare una tale soluzione. Anzi quanto più le ostilità si protrarranno, tanto più impraticabile diverrà quest’ ipotesi. Sarà perciò urgente attivarsi ad ogni livello per un cessate il fuoco immediato e la sospensione delle operazioni militari, proponendo un processo di mediazione internazionale gestito e coordinato da governi e organizzazioni “terze” che non hanno avuto alcun ruolo nel conflitto in corso, e l’invio di una forza di interposizione ONU a tutela dei civili e del cessate il fuoco, composta da paesi che non hanno partecipato alle operazioni militari. Di recente l’International Crisis Group, che già a suo tempo aveva stigmatizzato la decisione della comunità internazionale di imporre una “no fly zone” evidenziandone i rischi e le contraddizioni, ha rilanciato una proposta di mediazione e soluzione politica, che possa creare le giuste premesse per un futuro di pace e libertà in Libia (http://www.crisisgroup.org/en/regions/middle-east-north-africa/north-africa/libya/107-popular-protest-in-north-africa-and-the-middle-east-v-making-sense-of-libya.aspx) . Tra le proposte quella di sostenere un processo di transizione democratica negoziata tra i ribelli ed il regime, grazie all’intermediazione di soggetti non coinvolti nel conflitto. Certamente, e come riaffermato dalla think-tank, le dichiarazioni fatte nell’ultimo vertice del G8 di Deauville (“Gheddafi se ne deve andare”) sembrano chiudere ogni ipotesi di trattativa che possa prevedere un possibile esilio di Gheddafi. Qualche tempo prima il Procuratore Generale della Corte Penale Internazionale Moreno Ocampo aveva spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi , che a questo punto non ha altra alternativa che quella di vendere cara la pelle. A meno che l’abbandono della scena da parte di Gheddafi venga considerato non come condizione necessaria per l’avvio del processo di transizione democratica, ma la sua conseguenza. Proprio su questo punto si è arenata la recente missione di mediazione russa a Tripoli, mentre la Cina ha deciso pragmaticamente di cambiare rotta aprendo un canale diretto con il governo provvisorio di Bengasi. Più in generale, ed anche in vista della necessaria elaborazione programmatica di SEL e dell’interlocuzione con le forze del centrosinistra e della sinistra diffusa e sociale, sarà necessario comprendere a fondo le sfide politiche e intellettuali che questo intervento militare in Libia propone. La risoluzione 1973 marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite. E’ la prima volta - infatti - che viene messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati Su questo punto andrà fatta chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità. In linea di principio può essere condiviso il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di attivarsi qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani. Con altrettanta fermezza però va affermato che il principio della R2P può essere accettato solo se non utilizzato in maniera selettiva, assicurandone la gestione e l’attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e laddove la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Il problema vero è quando sulla scorta di un principio, condivisibile sulla carta, si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che creano pericolosi precedenti per giustificare la guerra. La genesi e lo svolgimento della guerra in Libia ne sono la riprova, visto che fin dall’inizio si decise di dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale. Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, (che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza attraverso il diritto di veto), rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali. Per dare un senso compiuto al principio della “non indifferenza” o meglio della “responsabilità” , e sgombrare il campo da ogni applicazione opportunistica dettata solo da interessi geopolitici, andrà pertanto riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere. L’Assemblea Generale dovrà avere un ruolo centrale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P che dovranno essere tolti alla competenza del Consiglio di Sicurezza. Andranno poi creati strumenti d’interposizione ed intervento a difesa dei civili sotto comando delle Nazioni Unite e non subappaltati alla NATO. Inoltre sarà necessario sviluppare politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Quegli stessi che oggi muoiono sotto le bombe della NATO o quelle delle truppe “lealiste”, a Tripoli come a Misurata.
domenica 29 maggio 2011
Medio Oriente, guerra, crescita e rigore fiscale: le ricette del G8
Primavera araba, crisi economico-finanziarie, rilancio della cooperazione internazionale, tecnologie dell’informazione, crescita verde, guerra in Libia, sicurezza nucleare dopo il disastro di Fukushima, cambiamenti climatici e biodiversità, questi alcuni dei temi che hanno caratterizzato gli incontri appena conclusi del vertice dei G8 in Francia. Quest’anno il Presidente francese Nicholas Sarkozy si trova a presiedere i due consessi internazionali che raggruppano a modulazione variabile le potenze vecchie e nuove del Pianeta - gli otto paesi industrializzati nel G8 e nel quadro del G20 anche le potenze emergenti , quali India, Sudafrica, Brasile, Cina. L’allargamento del G8 al G20 è ormai un dato di fatto, al punto da aver eroso progressivamente la rilevanza del primo a vantaggio della maggior rappresentatività del secondo. Certo è che se al G8 i governi non hanno faticato molto a trovare un accordo su questioni globali d’interesse ed approccio comune, lo stesso non sarà per il G20 dove la presenza dei paesi BRICS si farà sentire con forza. Basti pensare ai vari dossier ancora aperti nei quali i paesi emergenti potranno mostrare i muscoli, dalla riforma del sistema finanziario, al rilancio del Round di Doha al WTO, al negoziato sul clima. Per non dimenticare il braccio di ferro sulla successione di Dominique Strauss Kahn al vertice del Fondo Monetario Internazionale. Una disputa che, seppur chiusa poi dalla Cina con il sostegno alla candidatura Lagarde, lascia un suo strascico polemico con una dura lettera scritta dai direttori esecutivi dei quattro paesi BRICS in merito alle procedure di selezione ed alla storica consuetudine di designare un europeo al vertice dell’istituzione. L’impressione che si ricava da questo ultimo vertice è quella di un disperato tentativo dei G8 di riprendere una propria rilevanza e leadership globale. Risuonano ancora le parole determinate di Barack Obama pronunciate qualche giorno prima a Westminster quando, sotto lo sguardo di David Cameron, ha rilanciato il ruolo centrale di leadership delle potenze occidentali nei confronti dei paesi emergenti, rinsaldando l’asse anglo-statunitense. È di qualche mese fa fa la pubblicazione di un cablo wikileaks nel quale si evidenziava la forte preoccupazione dell’amministrazione Obama nell’offensiva diplomatica di Brasile, India, Cina e Sudafrica (il nuovo gruppo BASIC nato ai margini del negoziato sul clima) e l’invito a rafforzare l’alleanza con l’Unione Europea. Insomma, se a Deauville i G8 hanno cercato di “imporre la linea” sui temi globali e regionali, al G20 la partita sarà tutta da giocare. Con la Francia che almeno sulle questioni finanziarie parte avvantaggiata vista l’insistenza sulla riforma della “governance” finanziaria globale, la proposta di tassazione sulle transazioni finanziarie, e la prevenzione delle speculazioni sulle risorse naturali ed il cibo. Certo è che se si guarda nel merito delle decisioni prese a Deauville, altro non emerge se non la vecchia ricetta neoliberista e securitaria, che da anni questi vertici partoriscono, e che negli anni dimostra la sua inadeguatezza e nocività. La crescita economica resta saldamente il principale parametro di riferimento del benessere e della dignità delle persone. Basta leggere le dichiarazioni finali del G8, quella intitolata “Impegno rinnovato per la libertà e la democrazia” e quella sulla Primavera araba. Tra le righe – retorica a parte - risaltano alcune parole-chiave che danno il senso complessivo del messaggio politico inviato al mondo. “Sosterremo la crescita verde come garanzia per la costruzione di posti di lavoro e la prevenzione dei mutamenti climatici”. Un cambio di passo notevole in termini concettuali rispetto ai termini non certo sinonimi di “economia verde” o “greening of the economy”, tema portante del vertice Rio+20 che si terrà nel 2012 in Brasile che già si preannuncia come un possibile “flop” diplomatico. Per tenere insieme Europa, Stati Uniti, Giappone e Russia, il testo omette qualsiasi riferimento al fattore “K”, ovvero l’impegno per il secondo periodo di attuazione del Protocollo di Kyoto, e nulla viene detto sull’urgenza di uno sganciamento definitivo dalla dipendenza dai combustibili fossili. Queste sono le vere poste in gioco nel negoziato che avrà sbocco a dicembre alla Conferenza delle Parti di Durban. Sul nucleare, preso atto del disastro di Fukushima, non c’era certo da aspettarsi grandi passi indietro, tant’è che nella dichiarazione finale si fa riferimento esclusivamente a questioni di sicurezza nucleare e non certo ad una messa in discussione dell’opzione nucleare. Una posizione scontata vista la politica nuclearista dei padroni di casa . Andiamo alle politiche macroeconomiche: “l’Europa continuerà a perseguire rigorose politiche di consolidamento fiscale e riforme strutturali per incentivare la crescita”, un linguaggio che ignora le gravissime ricadute sociali della stretta di vite di Bruxelles sui conti e le politiche macroeconomiche dei paesi membri. Ancora, “ per facilitare la ripresa, “il G8 riafferma il proprio impegno alla liberalizzazione degli scambi commerciali” ed al rilancio del Round di Doha . Un processo quello all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ormai agonizzante da anni, vista la mancanza di volontà politica dei paesi industrializzati di riconoscere eguali diritti ai paesi in via di sviluppo, in particolare nel settore agricolo, e l’ostinatezza ad inserire “dossier” critici quali quello sui servizi e gli investimenti e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Insomma, libero commercio, rigore, e crescita sono ancora i pilastri portanti dell’economia globale, in un quadro rigido di “governance” che non permette passi indietro o vie alternative. Sull’aiuto allo sviluppo, si riaffermano gli impegni a sostegno dei grandi fondi e partnership partoriti in questi anni, da quella sull’AID, TBC e Malaria (lanciata a Genova, e verso la quale l’Italia ha accumulato un notevole ritardo nell’esborso dei propri contributi al punto da essere di recente esclusa dal Fondo), all’iniziativa sui vaccini, quella sullo sradicamento della polio. Si nota un aumento delle risorse finanziarie messe a disposizione per l’APS a livello globale – da 82.55 a 89.25 miliardi di dollari (altro dato critico per l’Italia vista la pressoché totale scomparsa dell’aiuto pubblico allo sviluppo con il governo Berlusconi) , ben poco se confrontato all’ammontare totale dei fondi di risparmio sovrani (sovereign wealth funds) di alcuni paesi ricchi di petrolio, pari a 3 trilioni di dollari! Si sottolineano comunque i ritardi nell’attuazione degli impegni, mentre il riferimento rituale al sostegno agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio pare un alibi per eludere impegni certi e verificabili di spesa futura. Ad esempio per l’iniziativa de L’Aquila sulla Sicurezza Alimentare risultano sborsati solo il 22% dei fondi promessi. Due capitoli su Africa e sviluppo fondato sulle grandi infrastrutture troveranno invece spazio nell’agenda del G20 di novembre. E passiamo al dossier Pace e Sicurezza, con la Libia in primo piano. “Gheddafi se ne deve andare” senza mezzi termini il G8 chiude ogni porta al possibile negoziato per un esilio – opzione attualmente perseguita dal presidente sudafricano Zuma –appoggiando poi con forza l’iniziativa della Corte Penale Internazionale che ha emesso un mandato di cattura internazionale per il dittatore libico. Senza alcun posto dove andare, il colonnello continuerà a combattere. Il dossier Palestina risente del recente discorso di Obama sul Medio Oriente, nel quale si rilancia il negoziato bilaterale e si pone un freno alla campagna internazionale di riconoscimento dello stato di Palestina presso le Nazioni Unite. Un’ opzione rilanciata nei giorni scorsi dalla Lega Araba e che resta al vaglio di alcuni paesi membri dell’Unione Europea. Si riconoscono inoltre i supposti passi in avanti del governo Karzai nella pacificazione dell’Afghanistan ed i progressi nel processo di rappacificazione e riconciliazione. In tutta risposta i Talebani hanno distrutto all’indomani del G8 una base militare uccidendo - tra gli altri - tre militari tedeschi e ferendo gravemente un generale della NATO. Un attentato che richiama all’attenzione le contraddizioni delle cosiddette operazioni di peacekeeping, ai quali il G8 dedica l’ultimo trafiletto - il paragrafo 93 - auspicando un maggior coordinamento con le Nazioni Unite, e dimenticando che dovrebbero essere invece le Nazioni Unite a gestirle. Non a caso il precedente della Libia e del ruolo attivo della NATO pesa come un macigno. L’Africa resta in secondo piano a prescindere da dichiarazioni di rito, vista l’ assoluta rilevanza data al Medio Oriente ed in particolare al Maghreb. La dichiarazione del G8 sulla Primavera Araba fa il pari con la “Partnership per la prosperità condivisa e la democrazia” lanciata dalla Commissione Europea a Marzo, con il discorso di Obama sul Medio Oriente, la nuova politica di vicinato della UE lanciata il 24 maggio scorso. Insomma, la parola d’ordine è “more for more”. Più soldi in cambio di maggiori riforme democratiche, e dell’apertura dei mercati del lavoro e dei servizi. Un fondo di 40 miliardi di dollari che andrebbe anzitutto ad Egitto e Tunisia e poi via via a quei paesi che decidano di aderire alla “Partnership di Deauville” lanciata dal G8, nel quadro rigido delle riforme macroeconomiche preconfezionate dal Fondo Monetario Internazionale per facilitare la penetrazione delle imprese transnazionali. Insomma, in un frangente nel quale restano alti i rischi d’involuzione sia in Egitto che in Tunisia, spingere l’acceleratore sulle riforme politiche e sulle libere elezioni rischia di tagliar fuori quei nuovi soggetti politici e sociali cui si deve la Primavera araba, e perpetuare il predominio delle vecchie elite politiche ed economiche amiche. Chi gestirà questi fondi, le vecchie strutture di potere o quelle nuove democraticamente elette? Ed ancora, sul tema del debito estero di Egitto e Tunisia, come voltare pagina facendo giustizia nei confronti delle responsabilità dei governi autoritari nell’accumulo di tale debito che in quanto odioso ed illegittimo non dovrebbe essere pagato dal popolo egiziano e quello tunisino? L’approccio di Europa e G8 verso il Maghreb conferma che non ci potrà essere un nuovo corso nelle relazioni tra paesi e popoli del Mediterraneo senza una profonda disamina delle responsabilità storiche dei governi delle imprese, delle organizzazioni internazionali. Aspettarsi questo da chi fino a ieri sosteneva quei governi autoritari non è possibile né auspicabile. Proporre questo come punto di lavoro per i movimenti sociali che lavoreranno ora al forum sociale mondiale 2013 nel Maghreb/Mashrek, è una possibilità, che Sinistra, Ecologia e Libertà porterà assieme ad altre proposte e attività a fine luglio a Genova quando i movimenti nazionali ed internazionali si riuniranno per fare il punto a dieci anni dai tragici fatti del G8 2001.
mercoledì 4 maggio 2011
Le rivolte arabe, la democrazia, l'Europa
(editoriale per dossier di Mosaico di Pace, Maggio 2011)
Da Piazza Tahrir, alle strade di Tunisi, dalla Siria allo Yemen, alla Libia ed il Marocco milioni di persone, giovani, anziani, donne, disoccupati e lavoratori da mesi si mobilitano per chiedere un cambiamento radicale del sistema politico che per anni ha frustrato ogni loro aspirazione alla libertà ed alla dignità. Parlare di Maghreb oggi, con un dossier scritto quasi interamente al femminile è una sfida ed allo stesso tempo esercizio complesso giacché in questo periodo liminale che intercorre tra la fine dei regimi, e la costruzione di altre ipotesi politiche può succedere di tutto. Si possono accelerare le spinte alla radicalizzazione del conflitto, si può rischiare il ritorno alla normalità, o consolidare le istanze ed i soggetti che oggi chiedono democrazia. Una democrazia sostanziale, che si riappropria degli strumenti della politica della modernità, (il sistema elettorale, i processi costituenti) , ma li trasforma e li rielabora in una visione nuova, non più etero diretta, e nella quale la dignità è il pilastro centrale. Certamente ci sono molte differenze da paese a paese, dovute alla storia ed alla conformazione dei gruppi di potere che per anni hanno inibito ogni prospettiva di cambiamento. Eppoi la presenza dell’Islam (da quello moderato e quello salafita) che ha rappresentato uno dei pretesti centrali delle potenze occidentali per puntellare quei regimi che qualcuno ha definito vittime di un “jetlag storico” o meglio ancora di un “disordine temporale postcoloniale” ancorati com’erano ad una visione assoluta del potere, ad un autoritarismo che ormai nulla ha a che vedere con le aspirazioni legittime di quei popoli. Oltre ai governi autoritari la primavera araba pare essersi portata via anche qualsiasi velleità integralista, il grande piano di Al Qaeda di penetrare il tessuto sociale di quei paesi. Si è detto che la chiave di volta di questo sommovimento va trovata in una complessità di fattori, ed indubbiamente così è. Oggi le politiche di riduzione della spesa pubblica si accompagnano ad un’ ulteriore contrazione del potere di acquisto delle classi popolari, dovuto in primis all’aumento dei prezzi dei generi alimentari, conseguenza delle speculazioni finanziarie sui prodotti agricoli. Aggiungiamo a questo il potere tremendo del web. la sua capacità di permettere la comunicazione oltre la censura ed il controllo di polizia, la possibilità di costruire un sentire collettivo, pratiche e culture politiche tra popoli e generazioni accomunati oggi dalla stessa disperazione e voglia di riappropriarsi di persona del proprio futuro. Le rivolte di oggi non sono solo di carattere economico, ma soprattutto politico. Sono l’esito di un processo di “ebollizione” che per anni covava sotto traccia e che forse oggi ha trovato un suo sbocco naturale nelle crepe aperte dalla nuova amministrazione Obama e dal fallimento delle politiche euro mediterranee dell’Unione Europea. Il discorso di Obama al Cairo, l’invito ai popoli arabi a costruire la democrazia secondo le proprie modalità, l’apertura verso l’Islam, e l’abbandono delle velleità di George Bush di esportare la democrazia nel Grande Medio Oriente hanno segnato indubbiamente un passaggio chiave per comprendere gli sviluppi nell’area. La crisi finanziaria ed economica ha poi portato alla luce l’ ambiguità dell’Unione Europea, di una politica, dal processo di Barcellona all’Unione del Mediterraneo, che sulla carta parla di democrazia e diritti umani ed in realtà cela obiettivi ben differenti di blindatura delle proprie frontiere ai flussi migratori, liberalizzazione degli scambi commerciali, accesso alle risorse naturali ed al mercato del lavoro a basso costo. Un mix micidiale che non ha certo contribuito a costruire le premesse per società più libere e giuste. Anzi. Oggi - in questo periodo liminale tra conservazione e cambiamento, tra stabilità e trasformazione - si gioca il futuro del Mediterraneo e dell’Europa. Con i paesi della sponda Nord che continuano a usare gli strumenti della realpolitik per tentare disperatamente di riconfermare il proprio ruolo centrale nei destini della regione. E non esitano ad usare la forza delle armi, con il pretesto dell’ingerenza umanitaria in Libia per tentare di riaffermare il proprio protagonismo, in un’internazionalizzazione di una guerra civile che può rappresentare un grave rischio per quei processi di trasformazione. Gli eventi del Maghreb assumono pertanto una grande importanza. Ci interrogano sul significato della democrazia, ma anche sul tema della dignità, sulla costruzione partecipata di un nuovo spazio pubblico, su come promuovere i diritti dell’uomo in un mondo ormai post-occidentale. Più in generale su come provare a costruire assieme a quei popoli - con capacità di ascolto e la doverosa umiltà - un’ipotesi di pace e democrazia transnazionale, euro-mediterranea, che dia senso ad una visione cosmopolita che rifugge le tentazioni dell’uso della forza e sia saldamente ancorata al diritto ed ai diritti universali.
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