Editoriale per il dossier sulle spese militari di Mosaico di Pace (Settembre 2012)
Questo dossier è stato ideato e prodotto in una congiuntura
temporale nel corso della quale il
Parlamento discuteva di Spending Review e di ridefinizione dello strumento
militare, il SIPRI rendeva noto il suo ultimo rapporto sulle spese militari,
trapelavano notizie sull’escalation del coinvolgimento italiano in operazioni
offensive e di bombardamento a terra in Afghanistan, la campagna “Taglia le ali
alle armi” presentava i risultati della sua mobilitazione in Parlamento, ed a New
York i rappresentanti dei governi si riunivano per negoziare il trattato ONU
sul commercio di armi (ATT). Proprio dall’analisi della spesa militare nel
tempo della crisi (oggetto dell’articolo di Giulio Marcon) si può partire per
ricostruire un percorso collettivo di proposta sulla riconfigurazione dei
modelli di difesa e sicurezza, la conversione dell’industria bellica, la
regolamentazione del commercio di armi. Tre punti sui quali la partita è tutta
da giocare. Sulla riconfigurazione dei modelli di difesa, la discussione in
corso in Parlamento sulla ridefinizione dello strumento militare denota un
approccio più vicino agli interessi delle imprese del settore che al contributo
che questo strumento potrebbe fornire in una visione di politica estera fondata
sulla prevenzione
nonviolenta dei conflitti, e la gestione degli stessi attraverso gli
strumenti propri della diplomazia e della mediazione. Insomma, quella che viene
proposta come decisione puramente contabile nei fatti nasconde la decisione tutta politica, (sganciata
però da una dottrina o “vision” sulla sicurezza), di dare prevalenza
all’acquisizione di armamenti altamente sofisticati, che presuppongono un ruolo
puramente offensivo e di proiezione globale della forza delle forze armate. Ci
troviamo di fronte ad una definizione “per default” delle priorità delle
politiche di difesa. Questo sembra essere il primo vero vulnus del dibattito
sulle spese militari, relativo a democrazia e trasparenza, Di democrazia giacché il Parlamento viene
chiamato solo a decidere su capitoli di spesa e non ad un ruolo di indirizzo
politico (visto che delegherebbe la definizione del modello di difesa al
governo). Di trasparenza perché se nono fosse stato per opera meritoria dei
movimenti e di alcuni operatori dell’informazione, questo dibattito sarebbe
passato in sordina. Fa bene a ricordare Carlo Tombola nella sua analisi del
rapporto OPAL come “guardare all’interno
del mercato della armi è un esercizio essenziale della libertà democratica e
del diritto di espressione dei cittadini”. A ciò si aggiunge l’incongruenza rispetto alle vere emergenze sociali
e lavorative che oggi affliggono il paese. Sulle inaccettabili sperequazioni
tra i costi - crescenti ed al di fuori di ogni controllo - del programma F35
(tema del contributo di Don Renato Sacco) e la riduzione delle spese sociali si
detto molto. Un dato su tutti dà la cifra del passaggio da un sistema di
“welfare” ad uno di “warfare”: con un solo cacciabombardiere F35 si potrebbero
costruire 387 asili nido con 11.610 famiglie beneficiarie e circa 3.500 nuovi
posti di lavoro o aiutare con
servizi di assistenza 14.742 famiglie con disabili e anziani non autosufficienti. Va sottolineata con
forza l’infondatezza
dell’argomentazione secondo la quale un sostegno all’industria bellica è
necessario per proteggere o costruire nuove opportunità lavorative. Nel suo
articolo sulla discussione parlamentare sullo strumento militare, Massimo Paolicelli,
cita uno studio dell’Università
del Massachussetts, secondo il quale un miliardo investito nella difesa produce
11mila posti di lavoro, che passano a 17mila se la stessa somma fosse stanziata
per energie rinnovabili ed a 29mila se fosse investita nell’educazione. La discussione su occupazione e
industria bellica può qundi essere affrontata secondo alcuni criteri. Il primo
è quello dei posti di lavoro “negati” dalla spesa militare, il secondo quello della
riduzione dei posti di lavoro di competenza
del Ministero della Difesa. Nella sua proposta di revisione dello strumento
militare, che prevede tagli al personale militare, il Ministro Di Paola propone una redistribuzione delle
risorse così risparmiate su sistemi d’arma sofisticati e capacità operative e
di proiezione globale. Il terzo,
oggetto del contributo di Gianni Alioti, riguarda quei posti di lavoro che
vengono persi in seguito agli sviluppi strutturali del comparto difesa. Si
calcola che solo per il comparto aerospaziale europeo dal 1980 al 2008 i posti
di lavoro nel settore militare si sono dimezzati a fronte di un aumento del 40%
dell’impiego nel settore civile, Questo a causa dell’innovazione tecnologica,
dell’aumento del fatturato per addetto e delle strategie di fusione di imprese
in grandi conglomerati. A questa situazione va contrapposto il rilancio di un
percorso di conversione dell’industria bellica, sulla scorta di esperienze già
fatte a livello europeo e
italiano. Tema - quello della riconversione - già
riconosciuto dalla legge 185/90
oggetto di contini stravolgimenti da parte dei governi di turno - governo Monti incluso - volti a ridurre
i vincoli di trasparenza e rendicontazione delle esportazioni di armi italiane
nel mondo. Così il governo italiano mentre da una parte partecipa al negoziato
ONU sull’ATT sostenendone l’adozione, dall’altra si adopera a vantaggio delle
imprese di un settore sempre in gran salute. Nel 2011 l’esportazione di armi italiane è aumentata di
oltre il 5 percento per un valore di 3 miliardi e 59 milioni di euro. Armi vendute a paesi che violano i
diritti umani, o in aree di conflitto (Egitto, Oman, Qatar, Israele, Marocco,
Turchia, Arabia Saudita). Ci sarà allora molto da fare ancora per porre fine a
queste incongruenze, doppi standard, discrasia tra politica , interessi
imprenditoriali e strategie militari, per costruire, assieme ad una moltitudine di soggetti, politici,
sociali, sindacali, imprenditoriali le premesse per un “disarmo” dell’economia
e della politica. Un compito
urgente ed ancora attuale per tutto il movimento pacifista italiano ed
internazionale.
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