Il Manifesto, 9 dicembre 2012
Doha:
porta di entrata per un futuro infernale.
Francesco
Martone (*), Alberto Zoratti (**)
Alla
fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato
approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del
rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il
“Doha Climate Gateway”. Una porta di entrata per il futuro
con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del
risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno
dei paesi industrializzati di stanziare per lo meno una somma pari
alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni.
Una proposta di minima visto che troppi
erano i gap da colmare. E' uno dei tanti paradossi di questa
Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici che è conclusa sul
filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso
cantiere a cielo aperto, sede un incontro che all'inizio si
annunciava come un appuntamento di transizione.
Così non è stato.
Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono
protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà
politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati
Uniti in particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei
fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida
industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio,
– la Cina nello specifico, ma non solo. Ed un ultimo colpo basso
della Polonia con dietro le spalle Russia ed Ucraina intenzionate a
proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di
emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento
totale della Conferenza. Così nella “land of plenty” del
Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin
Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino
dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e
per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata
la condanna all'ergastolo per Mohammed
al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di "sovversione del
sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua
poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”.
Anche qui a
Doha si riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in
Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari
salvando il negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di
tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il
suo potere di trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle
politiche di austerità sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera
Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul
profilo internazionale dell'Unione già compromesso dalla posizione
oltranzista di Varsavia. A Doha c'era da concludere il Piano di
Azione di Bali su temi quali adattamento, mitigazione, foreste,
trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione,
il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali. Si è
faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo
di lavoro creato a Durban che dovrà trattare un accordo globale
vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in vigore nel 2020.
Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di Washington.
Un
passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima volta il
diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e
danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici.
Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero
come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a
Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro
il 2020. A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo
stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri
paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e UE) per
un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, un'
aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori
chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in
via di sviluppo, questi ultimi chiedono invece che si faccia un
verifica degli impegni di spesa dei primi.
L'onda lunga di questo
gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle
foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se
ciò non bastasse. nonostante le decine di
morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono
riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15
gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali
impegni di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia
il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di
emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020,
ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che
riemergeranno con virulenza nei prossimi anni.
La
COP18 riesce nonostante tutto a rimettere faticosamente in
carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il "Second
commitment period" cioè il secondo periodo di impegni di taglio
delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi industrializzati
avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso
profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico
Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1
gennaio 2013 inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali
Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano
solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli
permetterà di consolidare il mercato del carbonio (come il sistema
ETS europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a
convergere) , uno dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente
voluto dai Paesi industrializzati, perchè permette una mitigazione a
basso costo. Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti da
Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e
Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite allo stesso livello
dell'UE) verranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a
Durban un anno fa, verso un regime non vincolante ma di "pledge
and review", impegni volontari da verificare collettivamente.
Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito
di significato, di numeri e di percentuali.
La rigidità di Stati
Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada,
che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi
economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro
sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato
che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni,
sarebbe dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime
vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del
G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta
alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo
impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del
nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente.
Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi. Il picco di emissioni di
C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC, dovrà essere raggiunto
nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare di far
rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento della
temperatura media globale sotto i 2°C, che però può
significare +4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare
all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona
parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità
alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del
tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa
che, ironia della sorte renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento
delle proprie risorse petrolifere.
La prossima Conferenza delle Parti
che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione
con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di
Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando
alla COP20 che si terrà a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà
un'altra guida ed altre ambizioni.
(*)
Sinistra Ecologia Libertà (**) Fairwatch
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