Come you masters of war
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
You that build all the guns
You that build the death planes
You that build the big bombs
You that hide behind walls
You that hide behind desks
I just want you to know
I can see through your masks
(B.Dylan, 1963)
Di Francesco Martone
(*)
per Alternative per il Socialismo
Ottobre 2016
15 anni sono passati
dall’11 settembre 2001, dall’attacco alle Torri Gemelle che ha rappresentato un
vero e proprio spartiacque nelle relazioni internazionali, con l’avvento della
guerra globale permanente al terrorismo. Strategia elaborata per riaffermare il dominio statunitense in un
mondo che alla caduta del Muro di Berlino sembrava sempre più orientato verso
una sorta di unipolarismo a stelle e strisce. Erano i tempi nei quali l’ideologo neocon Robert Kagan beffeggiava l’Europa
per la sua ritrosia nel sostenere la teoria e la dottrina della guerra
preventiva, tranquilla com’era quella Venere nel vivere la pax kantiana sotto la copertura armata di Marte, del Pentagono. [1]
La stessa Europa che
oggi si vuole trasformare in Marte nell’illusoria ricerca di un antidoto alla
propria crisi di identità e “mission”.
A Washington ci s'illudeva allora di poter plasmare con la guerra un’
intera regione, quella Medio-Orientale e di prossimità, disfacendo confini ed
assetti statuali per ricomporli a seconda degli interessi delle potenze di
turno. Per poi risvegliarsi in uno stato
di “sindrome da stress postcoloniale”
che impedisce di leggere gli eventi in altra ottica, e pertanto determina
risposte e reazioni a tali eventi e crisi che finiscono per perpetuarle queste
crisi, piuttosto che contribuire a
risolverle. Un tragico effetto domino.
Insomma se una cosa
l’onda lunga dell’11 settembre ha dimostrato, è stato che la storia non è
certamente finita, per parafrasare Francis Fukuyama, anzi, si è nuovamente
trasformata in storia di conflitti, corsa al riarmo convenzionale e nucleare,
focolai di guerre latenti o guerreggiate, per procura o dall’alto dei cieli.
Con l‘invio di truppe speciali, spesso sotto copertura, o l’addestramento di
truppe altrui, con l’uso della forza aerea, bombardieri d’alta quota o drone, o
con l’invio di armi. Con l’adozione di legislazione e strategie contro il
“terrorismo” che hanno aperto pericolose crepe nello stato di diritto, e nella
cornice di riferimento fissata dal diritto internazionale. Con l’avanzare di
uno scenario da guerra fredda di confronto tra Russia e Stati Uniti che si
pensava ormai relegato negli anfratti della storia passata. Ad un conflitto
possibile i cui prodromi si stanno ripresentando con frequenza e continuità
allarmante si accompagnano le guerre guerreggiate, quelle che mietono migliaia
di vittime civili, sotto le macerie di Aleppo.
O insanguinano le periferie del Sud Sudan, nei deserti del Mali, o negli
altopiani d’Afghanistan o nelle regioni del Nord Iraq. Guerre d’occupazione, sapientemente
mascherate da operazioni di ordine pubblico, come in Palestina, o guerre che covano sotto le ceneri, come il
conflitto mai sopito tra India e Pakistan in Kashmir, o quello tra popolo
Sahrawi e Marocco.
Guerre di egemonia in
un Medio Oriente squassato alle fondamenta, nei suo confini postcoloniali ed
assetti statali e di governo. Guerre per il controllo di risorse strategiche o
per riaffermare il proprio controllo su aree storicamente sotto il proprio cono
di influenza, come le guerre francesi contro DAESH nel Sahel, o la guerra di Vladimir
Putin a fianco di Assad e del suo regime
in Siria, chiave di volta per un rientro di Mosca in un Medio Oriente ormai
marginale nelle priorità strategiche di Washington.
Guerre che vengono
combattute dagli altri, e quindi spesso rimosse dalla percezione e
dall’attenzione dell’opinione pubblica. Certamente i fallimenti derivanti dalle
operazioni in Iraq ed Afghanistan hanno portato ad una certa cautela nel
mandare repentinamente “boots on the
ground”, si veda ad esempio il caso della Libia. In questo caso però le
esitazioni sono state superate con un ipocrita ricorso al operazioni di forze
di sicurezza “undercover”, o con la
retorica “umanitaria” alla quale il
governo di Matteo Renzi in particolare ha fatto ricorso per giustificare l’invio
di un contingente di paracadutisti a Misurata.[2]
Retorica “umanitaria”
o della lotta al “terrorismo” a parte, la logica della guerra rimane la stessa:
al venir meno delle ragioni della politica si fa avanti la logica delle armi.
Come spiegare altrimenti le proposte fatte dall’Alto Rappresentante dell’Unione
Europea Federica Mogherini, riprese in certa maniera da Francia e Germania, di
un rilancio dell’industria della difesa europea, di un comando unificato, di
investimenti massicci e una più forte presenza di truppe europee nei teatri di
guerra come possibile antidoto alla crisi di identità e legittimità dell’Europa
politica? Va a tal riguardo rammentato
come la strategia di sicurezza europea
ed il portato del trattato di Lisbona sulla politica europea di sicurezza e
difesa siano state determinate dalla forte pressione delle lobby delle
industrie degli armamenti. [3]
Già
il rapporto “Lobbying warfare: the arms
industry role in building a military Europe” del Corporate Europe
Observatory del settembre 2011 [4] dimostra come le lobby dell’industria della
difesa europea non solo determinano le linee di politica industriale ma anche
le strategie di politica estera e di difesa.
Per non parlare del recentissimo rapporto del Transnational Institute di
Amsterdam intitolato “Border Wars”
che documenta come l’industria europea
della difesa si sta riadattando alla domanda di sistemi di sorveglianza e
monitoraggio delle frontiere. [5] Nel 2015 solamente l’Unione Europea ha speso
ben 203.143 miliardi di euro nel comparto difesa. Un trend
destinato a crescere anche attraverso nuovi corposi sussidi pubblici .[6] Insomma si assiste al passaggio da “welfare europeo” a “warfare europeo”
di cui parlava a suo tempo Christian Marazzi. [7] Altro che “quantitative easing
for the people”, [8]soluzione possibile e necessaria da contrapporre al modello di
austerità al quale l’industria militare sembra essere immune ed immunizzata.
Gli elementi e i
fattori critici si incrociano, si sovrappongono. E’ quella che Jean Baudrillard
ha definito assai argutamente nel suo saggio “Power Inferno, requiem per le Torri Gemelle”, scritto all’indomani
delle Torri Gemelle, [9]
guerra come “continuazione
dell’inesistenza della politica con altri mezzi”. Eppure ad un certo punto
pareva che i movimenti pacifisti potessero rappresentare un contropotere, forti
com’erano nello sfidare il potere della menzogna e della prevaricazione
unilaterale che permeava l’avventurismo neocoloniale delle “potenze”
occidentali in Iraq ed Afghanistan. La
terza potenza mondiale la chiamò il New York Times, assimilando alla politica di
potenza di chi faceva la guerra, il potere, la puissance, dei movimenti, due elementi assai distinti. E’ la
distinzione fra “potere” e “potenza” che va messa a nudo? O forse è il termine stesso “guerra” che non aiuta a
leggere le tracce, e identificare le modalità con le quali la politica estera
di potenza si esplicita e pertanto ad individuarne e mettere in campo i
necessari anticorpi?
Le guerre sono
economiche, commerciali, telematiche e nel cyberspazio, guerre al terrore o al
terrorismo, guerre sotterranee, guerre di posizionamento e guerre per le
risorse. Guerre alimentate dalle risorse e dal loro sfruttamento e commercio
illegale, o per controllare risorse scarse. Qualche anno fa le Nazioni Unite
calcolavano che almeno 1/5 dei conflitti armati nel mondo avessero a che fare
con le risorse naturali. O per assicurare il proprio controllo, o perché alimentate
dal loro contrabbando (Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la regione
dei Grandi Laghi ne sono l’esempio più evidente), o perché il loro sfruttamento
indiscriminato ha portato ad un reazione armata da parte delle popolazioni
impattate. Il caso del MEND prima e dei Niger
Delta Avenger nel Delta del Niger, gruppi armati che si opponevano alle
attività di imprese petrolifere, inclusa l’AGIP, a causa del devastante impatto
socio-ambientale delle loro attività, sono lì a dimostrarlo. Le prossime guerre
saranno per il controllo di risorse scarse, quali l’acqua o scatenate dagli
effetti nefasti dei mutamenti climatici.
Guerre “paradigmatiche”
insomma, strettamente connesse ai costi sociali ed ecologici del modello
dominante di sviluppo, quello del capitalismo “estrattivo”.
Ci sono le guerre
contro Al Qaeda prima ed il DAESH ora. Guerre in regioni già provate da forti
trasformazioni, o che si sono definite nelle crepe aperte dagli interventi
unilaterale del dopo 11 settembre. A
differenza del passato, però, quella che pareva essere una maledizione o una
salvezza per altri popoli, oggi entra dentro la nostra quotidianità. Lo fa
attraverso legislazioni di emergenza, la militarizzazione dell’ordine pubblico,
la securitizzazione di sempre più ampi spazi pubblici e privati.
Varie sono state nel
corso della storia le analisi e le strategie che si sono sviluppate intorno
alla guerra, “una forza che ci dà
significato” diceva nel 2004 in un suo saggio il giornalista investigativo
Chris Hedges. [10] Analisi
volte a giustificarne il ricorso, che fossero “sante” o giuste”, a scagionare
talune potenze rispetto alla tragedia di taluni popoli, a cercare di
disinnescare il potenziale di nuove guerre, o portare a termine quelle in
corso. Antagonisti della guerra e fautori della guerra in un modo o nell’altro
hanno adottato schemi di analisi equivalente, che siano quelli della
geopolitica o della realpolitik, della primazia dei diritti umani e
dell’esportazione della democrazia, con o senza armi. Forse il punto centrale
nel tentare di proporre un quadro di riferimento politico e concettuale per
disinnescare la miccia della guerra va trovato altrove, in una nuova
prospettiva strategica e concettuale. Identificando dapprima i nessi e le
correlazioni, a partire dal nostro “punto di enunciazione”, e del ruolo che
l’Italia svolge nella logica e nella pratica della guerra. Ed in seguito elaborando
un quadro di riferimento teorico, politico e concettuale che possa
rappresentare un valido paradigma alternativo per la politica estera del paese,
ispirato al rifiuto netto della guerra ed al concetto ed alla pratica della
“neutralità attiva”.
Oggi l’Italia, il
sistema Italia, derubricato come pura formalità il ripudio costituzionale alla
guerra, la guerra la fa per interposta persona o partecipando direttamente, si
attrezza per la guerra, si adatta alle nuove modalità di guerra, con uso di
drone armati e forze speciali.
Vende armi in giro
per il mondo, e aumenta la propria spesa militare: secondo il Documento di
Programmazione Economica per il 2016-2018 solo nel 2016 l spesa militare
italiana ammonterà a 13.36 miliardi di euro, che, considerate anche le spese
per le missioni e lo sviluppo e produzione di sistemi d’arma, arrivano ad un
totale di 17,7 miliardi. Le vendite ed esportazioni di armi italiane [11]
sono triplicate nel 2015 raggiungendo un valore totale di 54 miliardi di euro.
Accettando il dispiegamento sul suolo nazionale di bombe
atomiche americane di ultima generazione si offre una volta ancora come la portaerei della NATO,
nella nuova allarmante fase di un confronto con la Russia di Vladimir Putin che
sta portando ad una ripresa del riarmo nucleare. [12]
Come strappare
quindi la maschera dei “mercanti della
guerra”?
Dal punto di vista
della strategia necessaria per resistere alla guerra, andrà anzitutto
riconosciuto che la guerra non si può fare senza armi. Pertanto è nell’industria
delle armi, con il suo volume impressionante di fatturato globale che va
cercata la soluzione, ossia nel disvelare l’intreccio tra la stessa e le scelte
di politica estera. Ed avviare un’iniziativa globale per la riduzione delle
spese militari (che secondo le stime del SIPRI per il 2015 ammontano oggi a
oltre 1.7 trilioni di dollari[13])
assieme alla conversione dell’industria bellica ed il disarmo, come proposto in un importante
conferenza su Disarmo e pace tenutasi a settembre scorso a Berlino ed
organizzata dall’International Peace
Bureau. [14]
Uno degli ambiti da
quali partire per evidenziare tali nessi e immaginare possibili vie d’uscita
riguarda la relazione tra produzione e vendita di armi e politica estera. Premessa essenziale è il riconoscimento del
fatto che la politica estera oggi ha un carattere multidimensionale, riguarda
non solo relazioni tra paesi, tramite alleanze, o la cessione di sovranità ad
ambiti multilaterali , ma anche ed in misura crescente le relazioni
commerciali, industriali, la commistione tra interessi di impresa, economici, strategici- geopolitici.
A ciò va aggiunto che
nella genesi della politica estera, da quella tradizionalmente improntata sulla
realpolitik, a quella di potenza, a quella “etica” dell’ingerenza umanitaria e dell’esportazione della democrazia e dei
diritti umani, si è andata ormai affermando una visione di politica estera che “securitizza”
ogni suo aspetto, dalla cooperazione allo sviluppo, alle relazioni
diplomatiche, a quelle commerciali. Questo
punto appare ormai imprescindibile in ogni analisi relativa alla politica
estera visto che ne è l’elemento centrale, e non solo per una scelta politica consapevole
di abdicazione alle ragioni del diritto e della diplomazia.
C’è poi un elemento
che richiama quella che Seymour Melman a suo tempo definiva la permanent
war economy [15],
o più semplicemente l’esistenza di un
apparato industrial-militare che determina le relazioni e i nessi causa effetto
tra interessi del settore difesa e la definizione ed implementazione della
politica estera di un paese. .
In tale contesto, anzitutto
va evidenziato il ruolo sempre crescente del Ministero della Difesa e
dell’Industria nella definizione delle linee strategiche del paese e della
proiezione del paese vero l’esterno ed allo stesso tempo depositario ed attore
di primo piano nella diplomazia industrial-militare. A ciò va aggiunta la
proliferazione di accordi bilaterali di
cooperazione tecnico-industriale nel settore militare, volàno per la cooperazione
nel settore degli armamenti e dell’industria.
L’Italia così continua
a vendere armi all’Egitto e ad altri paesi che violano di diritti umani, e ad
inviare bombe all’Arabia Saudita, dove di recente si è recata in pompa magna il
Ministro Pinotti [16],
impegnata in una guerra sanguinosa e
brutale contro le milizie DAESH in Yemen con enormi costi in termini di vittime
civili.
Portando il discorso
alle estreme conseguenze si potrebbe affermare che l’invio di armi in paesi in
conflitto equivale a partecipare (seppur indirettamente) a quella guerra. E
quindi ad essere corresponsabili dei crimini di guerra commessi.[17]
Ad un aumento delle esportazioni di armi in zone di conflitto da una parte
(quindi una sorta di guerra per procura, all’interno della coalizione contro il
DAESH ad esempio, senza però l’invio di “scarponi sul terreno” visti gli alti
rischi ed i possibili costi “politici” di un’eventuale operazione)
corrisponde l’aumento delle
collaborazioni industriali con paesi che offrono maggiori opportunità di
affari, dall’Asia, agli Emirati, all’Africa, all’America Latina.
A questo punto va
detto chiaramente che inviare armi in
zone di conflitto è una scelta politica di guerra, seppur per procura, implica il sostegno alla guerra come modalità
per risolvere controversie internazionali, e per esteso violerebbe l’articolo
11 della Costituzione.
C’è poi la
partecipazione diretta alle operazioni militari, alle guerre, sotto la guisa di
operazioni di pace. Il nostro paese in particolare è attivo negli scacchieri
dell’Iraq e dell’Afghanistan, oltre che in Libia, nel tentativo di mantenere in
ruolo di partner in tavoli negoziali ed aree geostrategiche di grande
rilevanza. In Iraq attraverso il sostegno alla coalizione anti-DAESH, sia con
forze armate per l’addestramento di milizie peshmerga kurde, che più di recente
con l’invio di un contingente di centinaia di militari a presidio del cantiere
dell’impresa Trevi presso la diga di Mosul [18],
in un’area di grande rilevanza tattica nell’offensiva finale conto DAESH da tempo
annunciata. In Iraq l’Italia è seconda
solo agli Stati Uniti in termini di numero di truppe sul terreno. In
Afghanistan il ritiro delle truppe italiane è stato via via rinviato, e ad oggi
, a fronte di una situazione in continuo deterioramento per quanto concerne la
sicurezza, la presenza è aumentata a 750 soldati tra Kabul e Herat per compensare il ritiro
degli effettivi spagnoli. Resteranno, secondo quanto deciso quest’anno al
vertice NATO di Varsavia, almeno fino al
2017 nel quadro della missione “Resolute
Support”. In Libia , a Misurata,
prima dell’annuncio dell’invio di paracadutisti della Folgore a protezione di
un ospedale da campo, per la prima volta sono state inviate truppe speciali
senza il necessario voto in Parlamento. Ciò è stato possibile grazie ad un
articolo inserito in un decreto missioni che lascia nelle mani del Presidente
del Consiglio il potere di dare ordini a forze speciali per intervenire in
operazioni di “lotta al terrorismo” concedendo alle forze speciali (incursori, commandos
etc) gli stessi poteri degli agenti dei servizi segreti. Quei corpi speciali,
qualora autorizzati direttamente dal Presidente del Consiglio, potranno operare
quindi in condizioni di assoluta impunità da possibili reati commessi e
segretezza sia in Italia che all’estero. Operazioni undercover quindi, che fanno il pari con la scelta di armare i
drone italiani per uso in teatri di guerra. Dopo due anni il Congresso di
Washington ha infatti approvato la configurazione di drone Reaper italiani di stanza a Sigonella e la vendita di armi che
possono essere così installate ed usate dagli stessi. Secondo quanto reso noto
si tratterebbe di 156 missili AGM-114R2
Hellfire II costruiti dalla Lockheed Martin, 20 GBU-12 (bombe a guida laser),
30 GBU-38 JDAM.[19][1] Secondo il sito
KnowDrones la decisione di armare drone italiani, oggetto
di anni di dibattito negli Stati Uniti, rientrerebbe nella strategia USA in
Africa. [20]
La subalternità a
Washington risulta evidente non solo per l’Iraq, l’Afghanistan o la Libia ma
anche nel caso della partecipazione agli accordi di condivisione nucleare della
NATO. Con questo accordo di “nuclear sharing” l’Italia permette la presenza di decine di
testate nucleari USA sul territorio nazionale, nella base USA di Aviano e
quella dell’Aeronautica Militare Italiana di Ghedi. Finora le bombe stoccate
nei bunker sotterranei erano per lo più un pegno di fedeltà all’amicizia
transatlantica, vecchie, obsolete e forse mai effettivamente utilizzabili. In
virtù di un programma di ammodernamento degli arsenali nucleari americani a
quelle bombe verranno sostituiti micidiali
ordigni riconfigurati per attacchi tattici di grande precisione, e non si dovrà
aspettare la consegna degli F35 adatti allo scopo. Una
volta installate sugli F35, cacciabombardieri “invisibili” e rifornibili in
volo e quindi con un raggio di azione che arriva fino a Mosca [21],
queste bombe da tattiche diventerebbero strategiche, con una potenza di
distruzione pari a 4 volte quella della bomba atomica di Hiroshima. Alcuni
Tornado in dotazione sono ora in fase di
riconfigurazione del proprio software (un'operazione che richiederà un paio di
anni) per trasportare le nuove bombe B61-3 e 4 a gravità con un sistema di orientamento nella coda che
gli USA stanno rimodernando a costi elevatissimi. [22]Fece
scalpore la notizia dei costi associati alla messa in sicurezza dei bunker dove
verranno stoccate le bombe: si parla di almeno 1 miliardo di dollari mentre per
la messa in sicurezza se ne spenderanno altri 154 milioni circa, dopo che
un'indagine interna dell'US Air Force effettuata nel 2014 mostrò gravi carenze.
Altri 100 milioni di dollari verranno poi spesi ogni anno dagli USA per il
dispiegamento delle nuove bombe. Ignorando se non violando gli accordi
internazionali sul disarmo nucleare e la non-proliferazione l'Italia aumenta
così la sua capacità nucleare in quanto
firmataria dell'accordo di condivisione nucleare NATO con gli Stati Uniti. E contribuisce ad alimentare la corsa agli
armamenti in uno scenario di Guerra Fredda 2.0 nei confronti della Russia.
Ecco
quindi che il tema del disarmo nucleare si accompagna all’urgenza di
un’iniziativa globale per la riduzione delle spese militari ed il disarmo
convenzionale. La questione che rimane
aperta però è se ciò sia possibile in un quadro nel quale il paese, e l’Europa
sono inserite in un sistema di alleanze
e patti di sicurezza collettiva, quali
la NATO.
Si
manifesta così l’esigenza di un approfondimento del possibile quadro di
riferimento concettuale nel quale riprogrammare e rielaborare le pratiche e le
proposte dei movimenti pacifisti ed antimilitaristi. Ciò potrebbe essere
possibile recuperando e riadattando la proposta e la pratica di neutralità
attiva. [23]Un’utopia
concreta che può essere presa a riferimento per delineare un’ipotesi di politica estera fondato su disarmo, pace e nonviolenza. Che faccia cioè tesoro della storia, quella
non raccontata negli annali di guerra, o nei libri “mainstream”, assai avvezzi a rappresentare la politica estera e la
storia come campi di battaglia armata o meno, tra deliri o strategie di
potenza, di impero, di sfruttamento, e assai meno capaci di leggere la storia
“altra”. Quella di paesi che invece avevano ed hanno rinunciato alla politica
di potenza, alla guerra, alle armi, ma che non rinunciano a cercare di
contribuire alla costruzione della pace. Insomma neutrali ma attivi, neutrali
dagli schieramenti delle potenze vecchie e nuove, ad esempio la NATO, ma attivi e partecipi con gli strumenti della
diplomazia o della forza “disarmata” nella gestione, prevenzione e risoluzione delle controversie
internazionali. La proposta di neutralità attiva è stato rilanciata da Un Ponte
per nel suo documento “L’opzione per una
neutralità attiva in Libia”,[24][1] nel quale si propongono una serie di
passi, quali la de-escalation della logica di guerra e di uso della
forza , la neutralità rispetto alle
fazioni che si opponevano al governo di Al Serraj. Neutralità attiva significa creare le
condizioni per un ruolo terzo di mediazione che prevede l’abbandono di ogni
opzione militare, assieme al sostegno ad
attività di peacebuilding. Recuperare in questo contesto le ragioni di
una pratica o un’idea di neutralità è cruciale per dimostrare come sia
possibile lavorare per la pace e la
costruzione di relazioni pacifiche tra i popoli senza necessariamente
provvedervi attraverso l’uso dello strumento militare o aderendo in tutto o in
parte alle strategie delle alleanze o dei sistemi internazionali di sicurezza. Facendo tesoro dell’esperienza, della storia e
delle varie iniziative attivate dalle varie realtà e soggetti del movimento
pacifista ed antimilitarista italiano potrà essere rielaborata una cultura della
pace. Neutralità attiva significa non ritrarsi nella ridotta
dell’isolazionalismo, bensì adoperarsi
per una ridefinizione della neutralità
come abbandono della politica di potenza e della guerra in favore di una
politica estera attiva, disarmata, nonviolenta. Ed
è proprio da questa prospettiva di
neutralità generata dal ‘basso” e che si
alimenta delle pratiche e delle
iniziative della società civile e presuppone una sorta di “ingerenza” positiva
e di taglio pacifico e nonviolento, che
vale la pena di partire. Con l’obiettivo elaborare proprio “dal basso” assieme
a coloro che nel nostro paese lavorano per la pace, il disarmo, la nonviolenza,
un approccio ed una proposta concreta, politica, di paradigma alternativo per
la politica estera del nostro paese.
(*) , già Senatore della Repubblica, membro del Comitato
nazionale e responsabile advocacy di Un Ponte Per… www.sinistracosmopolita.blogspot.com
[1] http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/northamerica/usa/1423535/Americans-are-from-Mars-Europeans-from-Venus.html
[2] http://comune-info.net/2016/09/la-guerra-mediatica-del-carciofo/
[3] Per tornare a casa nostra, si veda ad esempio anche in Italia la
relazione stretta tra Finmeccanica e think tank quali lo IAI o l’ISPI , o Aspen nei cui Board siedono rappresentanti di Finmeccanica, o viceversa exviceministri degli esteri e
autorevoli teste pensanti di Aspen Institute che vengono mandati nel board di
Leonardo-Finmeccanica.
[6] http://www.disarmo.org/rete/a/43549.html
[9] http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/baudrillard-jean/power-inferno-9788870788143-938.html
[10] “Chris Hedges, “Il Fascino oscuro della guerra”, Laterza, 2004
[11] http://www.disarmo.org/rete/a/42479.html
[12] http://foreignpolicy.com/2016/10/07/the-united-states-and-russia-are-inching-toward-doomsday-arms-weapons-nuclear/
[14] https://www.ipb2016.berlin/action-agenda-of-the-international-peace-bureau-october-2016/
[16] http://www.disarmo.org/rete/a/43629.html
[17] Lo spiega chiaramente un’eccellente pezzo di inchiesta del New
Inquirer “Recoil operation” sul
commercio legale ed illegale di armi leggere negli States. “Domestic distaste for “boots on the ground”
dovetails with domestic commitments to arms-related manufacturing jobs making
it even more attractive to arm foreign allies instead of doing the fighting
ourselves”. http://thenewinquiry.com/essays/recoil-operation/
[18] http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/liraq-litalia-e-la-guerra-sbagliata_b_8893402.html
[20] http://www.huffingtonpost.it/francesco-martone/lelefante-nella-stanza-storia-di-droni-italiani-diritti-e-zone-grigie_b_8661726.html
[21] http://nukewatch.org/B61.html
[22] http://ilmanifesto.info/verso-litalia-le-nuove-atomiche-usa/
[23] Transform! Italia 2016, atti del Convegno su “Neutralità Attiva. Un
possibile approccio per una politica di pace, disarmo e diplomazia popolare per
l’Italia” Roma, 10 settembre 2015 https://neutralitaattiva.wordpress.com/concept/
- per la registrazione integrale del convegno:
https://neutralitaattiva.wordpress.com/tutto-il-convegno-in-video/
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