sabato 18 dicembre 2010

Il difficile futuro dopo Cancun

Un fallimento annunciato, Copenhagen II, un passo verso la giusta direzione, una scialuppa di salvataggio per un multilateralismo alla deriva. Mai come stavolta tentare di fornire una valutazione univoca dell’esito della Conferenza di Cancun risulta essere esercizio complesso, viste le differenti tracce di analisi possibili. Che il risultato potesse essere di basso profilo quello era ormai cosa certa. Bastava leggere attentamente il cosiddetto “testo del Presidente” del gruppo di lavoro sulla Cooperazione a largo termine (dedicato a definire le linee di lavoro sui temi dell’adattamento, mitigazione, trasferimento di tecnologie, finanze) per notare come nella selva di verbi utilizzati per definire le decisioni finali, pochi erano i verbi che definivano un qualche tipo di impegno.

Tra questi quello – poi confermato a Cancun – di lanciare definitivamente un programma globale sulla riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste (REDD – Reduced Emissions from Deforestation and Degradation), un fondo verde per il clima, un centro per il trasferimento delle tecnologie, una cornice istituzionale per gestire i programmi di adattamento. Il resto era affidato a quello che i tecnici chiamano “rolling process” un processo in itinere, nel quale si decide di non decidere, e di sostituire a impegni certi , l’opzione di tenere aperti canali di negoziato.

La presidenza messicana aveva infatti optato per una strategia alternativa a quella fino ad allora attuata. Piuttosto che pensare di poter approvare un pacchetto onnicomprensivo d’impegni e di azioni, si era deciso di lavorare sui cosiddetti “building blocks”. Un gioco del Lego nel quale mattoncino per mattoncino si ricostruiva il quadro negoziale e si definivano pezzo per pezzo gli impegni politici e di spesa. Partendo dalla base, dai mattoncini sui quali si era registrato già a Copenhagen una sorta di consenso. Astuzia diplomatica e delicati equilibrismi hanno così caratterizzato la gestione della Conferenza da parte della presidenza messicana. Già a Tianjin la “vulgata” ufficiale indicava in un eventuale fallimento di Cancun il colpo di grazia per un processo multilaterale già messo a dura prova a Copenhagen, grazie alla scellerata gestione della presidenza danese, ed al colpo di mano attuato da Barack Obama ed altri paesi che imposero un accordo non vincolante di fatto contraddicendo le più elementari regole del consenso.

Allora il “Copenhagen Accord” venne “notato” dalla Conferenza delle Parti, non essendo testo ufficiale di negoziato, né condiviso da alcuni paesi quali la Bolivia, e l’Ecuador. Allora l’ALBA sembrava potesse essere un nuovo importante attore nel negoziato globale. Oggi, al conteggio finale del dopo Cancun, la Bolivia risulta essere più isolata che mai. L’Ambasciatore Pablo Solon – a parte qualche manifestazione di sostegno di circostanza fatta dai tradizionali alleati (Nicaragua, Cuba, Ecuador) – è stato lasciato solo, come un Davide contro Golia a reiterare l’inadeguatezza dell’accordo finale, possibile complice di “genocidio ed ecocidio” (così nelle sue parole). Oggi gli “Accordi di Cancun” (“Cancun Agreements”) vengono accettati da tutti, chi più e chi meno, come un minimo comun denominatore necessario per tenere aperto il negoziato multilaterale verso la prossima Conferenza delle Parti di Durban 2011.

Quale sarà lo scenario dei prossimi mesi è difficile prevedere, sicuramente però si possono già intuire quelli che saranno le questioni sulle quali si concentrerà il negoziato. Prima fra tutte quella relativa al supporto al secondo periodo d’ implementazione del Protocollo di Kyoto, protocollo messo a dura prova dal fuoco incrociato di Canada, Giappone Stati Uniti, e per ultimo dalla Russia che aveva annunciato proprio a Cancun la sua decisione di non sottoscrivere il secondo periodo di impegno. Di riflesso l’inattesa apertura di India e Cina pronte ad accettare impegni di riduzione delle emissioni, in cambio di un sostegno al protocollo di Kyoto ha contributo a ridisegnare i rapporti di forza negoziali, dando al gruppo BASIC (Brasile, Cina, Sudafrica e India) un ruolo propulsore, e lasciando gli Stati Uniti all’angolo, stretti tra il rilancio di Cina ed India ed un Congresso a maggioranza repubblicana che non permette strappi in avanti. Se una similitudine si può trovare con il negoziato di Cancun 2003 all’Organizzazione Mondiale del Commercio forse è proprio quella relativa al rafforzamento del ruolo dei paesi BASIC che allora diedero il colpo di grazia al Doha Round ed ora invece una boccata d’ossigeno alla Conferenza sui Mutamenti Climatici.

Il Protocollo di Kyoto resta così in piedi, ma duramente provato: basti leggere le parti relative agli impegni di riduzione delle emissioni accettate a Cancun per capirne il destino. In un gioco d’incastri tra vari documenti, necessario per mantenere un equilibrio tra esigenze dei paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, si è nei fatti ribadito il contenuto dell’Accordo di Copenhagen. Stabilizzazione della crescita di temperatura a 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali (che in molti ritengono comunque letale ad esempio per i piccoli paesi insulari) sottoposta però a revisione nel 2015 nell’ottica di una possibile riduzione a 1,5 gradi. Alcuni osservatori hanno accolto questa decisione con soddisfazione visto che per la prima volta il limite dei 2 gradi verrebbe incluso in un accordo internazionale.

Al posto dei cosiddetti MRV (Monitoring Reporting and Verification) il vero irritante del negoziato degli ultimi mesi, si è sostituito un sistema di verifica “leggero”, “non intrusivo” e “rispettoso della sovranità”. A Cancun si è poi fissato definitivamente il 1990 come l’anno di riferimento per calcolare il livello di riduzione delle emissioni, anche se poi si lascia ampia discrezionalità ai paesi di decidere per una data differente. Il vero bandolo della matassa riguarda il rapporto tra impegni di riduzione e piani di mitigazione nazionali, che – a detta dei paesi in via d’ industrializzazione – rischiano di essere eccessivamente onerosi riguardo alle loro prospettive di crescita. Allora il primo nodo che i negoziati verso Durban dovranno sciogliere è proprio questo che tiene ancorati i destini del protocollo di Kyoto ai piani di mitigazione. Sul protocollo di Kyoto e sulla “forma legale” del nuovo accordo vincolante, la partita è ancora aperta.

Si è esteso di un anno il mandato del gruppo di lavoro dedicato, con l’obiettivo di continuare a discutere sullo strumento da adottare, ossia se proporre un nuovo protocollo, o un’ appendice al vecchio. O se seguire il sistema – nei fatti legittimato a Cancun – del cosiddetto “pledge and review” proposto dagli USA e del quale l’Accordo di Copenhagen è imbevuto: ci impegniamo sulla carta a ridurre le emissioni e di volta in volta facciamo e verifiche del caso. Nessuna sanzione, nessun impegno chiaro. A queste condizioni il Protocollo resterebbe sì in piedi , ma come una “imago sine re”, immagine senza sostanza. Sul tema delle finanze per i programmi sul clima, è stato lanciato definitivamente il Fondo Verde per il Clima, la cui struttura dovrà essere definita da un gruppo di lavoro ad hoc entro la Conferenza di Durban.

Questo fondo dovrà essere sotto l’autorità della Conferenza delle Parti, ma per i primi tre anni affidato alla Banca Mondiale che opererà come amministratore fiduciario. Un colpo al cerchio uno alla botte, per chi voleva la banca mondiale attore centrale dei finanziamenti per il clima e chi invece la voleva fuori. Peccato che ci si scordi di due dettagli non indifferenti: il primo che la Banca Mondiale è l’istituzione pubblica di sviluppo maggiormente coinvolta nel sostegno ai combustibili fossili ed il secondo che il suo ruolo come amministratore fiduciario è risultato essere discutibile e di scarsa efficacia come attestato da alcune valutazioni interne in corso. E di quanti soldi stiamo parlando? A Cancun si riafferma l’impegno a stanziare 30 miliardi di dollari l’anno fino al 2012 e da allora in poi 100 miliardi di dollari, ma dove andare a trovare queste somme è ancora poco chiaro.

Da una parte va rilevato che non si è adottato alcun impegno sul sostegno a meccanismi di mercato per il finanziamento dei programmi di mitigazione, né per la costruzione di un mercato mondiale di permessi di emissione, anche se viene ribadita la centralità dei meccanismi di flessibilità previsti da Kyoto. Dall’altra però nulla è stato deciso sugli impegni di spesa relativi a fondi pubblici , nuovi ed addizionali, e non riciclati dalla cooperazione allo sviluppo, che devono invece essere la principale fonte di sostegno ai programmi di adattamento e mitigazione.

Il rapporto stilato dal gruppo di lavoro ad hoc costituito da Ban Ki Mun identifica poi alcune ipotesi quali una carbon tax globale, o addirittura una possibile tassazione sulle transazioni finanziarie che però non ha avuto grande eco nel negoziato. Certo è che da Cancun parte un segnale chiaro verso il settore privato, che può vedere nella “green economy” e nella transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio un’importante opportunità. A leggere il documento finale di Cancun risulta evidente che tutto il tema dei mutamenti climatici resta solidamente ancorato ad un paradigma economico e di sviluppo che continua a vedere nella crescita economica (“high growth”) il parametro centrale di riferimento. Questo forse è il vero grande limite del negoziato: quello di non prospettare una vera inversione di rotta, un nuovo modello che possa mettere in sinergia ambiente inteso come giustizia ambientale, ed economia intesa come sganciamento progressivo dal falso mito della crescita. Su questo il lavoro da fare è ancora molto soprattutto per creare e irrobustire quella domanda politica dal “basso” che può contribuire a scalfire la fiducia mal riposta nel modello di mercato e di crescita. Lasciare tutti i destini del Pianeta solo ed esclusivamente ad un negoziato internazionale tra stati rischia di legittimare una corsa verso il ribasso, se in questo negoziato le uniche due forze trainanti sono gli interessi nazionali degli stati , o quelli del posizionamento nella governance globale, e l’opportunismo delle imprese.

Perché se da Cancun si è deciso di tenere in vita il processo multilaterale, varrà ora la pena di interrogarsi di quale multilateralismo si stia parlando, giacché il ruolo dei movimenti della società civile, delle municipalità, dei soggetti non statuali altri rispetto agli Stati ne è risultato fortemente eroso. Chi era a Cancun non ha potuto non constatare la grande difficoltà di incidere e seguire le trattative, quasi tutte a porte chiuse, ed anche prendere atto della frammentazione dei movimenti, riuniti in ben 4 coordinamenti ed iniziative differenti che ne hanno certamente diluito la capacità di incidenza politica.

Al di là delle questioni specifiche relative al clima ed al modello energetico, che oggi più di prima devono essere affrontate soprattutto a livello nazionale e locale, Cancun ci lascia quindi un messaggio chiaro riguardo all’urgenza di costruire nuove alleanze, tra movimenti sociali, ed ambientali, piccole e medie imprese dedicate alle energie rinnovabili ed al risparmio energetico, comunità che già applicano metodi di adattamento e mitigazione dei mutamenti climatici, organizzazioni indigene e contadine, amministrazioni locali “virtuose”, sindacati. Senza questa convergenza di soggetti politici, il percorso verso Durban rischia di restare un percorso tra Stati, guidato quindi solo ed esclusivamente dall’urgenza di conciliare un generico interesse nazionale con l’imperativo categorico della crescita economica. E dal quale difficilmente difficilmente potrà derivare una netta inversione di rotta.

Francesco Martone

venerdì 17 dicembre 2010

Tutto o nulla a Cancun

Un anno è passato dal vertice ONU sul Clima di Copenhagen, quando si consumò uno strappo che finora solo in parte è stato possibile ricucire. Complici di tutto ciò furono allora la doppiezza del governo danese, prono agli interessi degli Stati Uniti, il decisionismo di un Barack Obama ancora in testa nei sondaggi di popolarità, il basso profilo della UE, e l’adozione di un accordo non vincolante perseguito con modalità poco inclusive e trasparenti.

Da allora l’irrigidimento delle posizioni di Stati Uniti e Cina ha di fatto condizionato ogni possibile passo in avanti. Ormai da settimane i media internazionali ci preannunciano un risultato di basso profilo, per lo più centrato su misure concrete verso i paesi maggiormente vulnerabili al cambio climatico, riponendo ogni aspettativa per un accordo vincolate sulle riduzioni di emissioni e la stabilizzazione della temperatura globale al 2011 quando i governi si riuniranno a Durban,in Sudafrica.

E così nell’ultimo incontro preparatorio di Tianjin tenutosi ai primi di ottobre è continuato lo scontro tra USA e Cina. La Cina chiede – anche per conto dei G77 – denaro e un impegno chiaro a rispettare i vincoli di Kyoto per i paesi che hanno ratificato quell’accordo, estendendo il regime vincolante anche agli USA.

Washington – a maggior ragione dopo la batosta elettorale subita da Obama alle elezioni di mid-term – si presenterà con un pacchetto di proposte leggerissime, da quelle già lanciate a Copenhagen di una riduzione del 17% delle emissioni dai livelli del 2005 entro il 2020, (in un modello volontario che metterebbe in mora Kyoto) alla richiesta a Cina e G77 di ridurre le emissioni accettando controlli sull’uso dei fondi per il clima.

Ad oggi dei 30 miliardi di dollari annunciati a Copenhagen per il periodo 2010-2012 solo 3 sono stati effettivamente stanziati per programmi di adattamento, e circa 5 per la protezione delle foreste. Per avere un’idea delle proporzioni, si calcola che dal 2012 siano necessari per lo meno100 miliardi di dollari l’anno. Cifre che a fronte delle spese militari globali sembrano quasi irrisorie: solo in Italia per l’acquisto di un centinaio di cacciabombardieri F35 si brucerebbero 29 miliardi di euro mentre la spesa militare globale viaggia intorno al trilione e passa di dollari.

Il dossier “foreste” potrebbe essere l’unico possibile passo in avanti a Cancun. In verità su questo quasi tutti sono d’accordo sul fatto che REDD (Reduced Emissions from Deforestation and Degradation) potrebbe rappresentare la soluzione ideale: pochi impegni di spesa, per sostenere meccanismi di assorbimento dei gas serra, senza necessariamente ridurli nei paesi ricchi, ed in cambio denaro per ripagare i paesi tropicali per le entrate cui dovranno rinunciare per proteggere le loro foreste.

REDD rischia di essere però il topolino partorito dalla montagna, in attesa di tempi migliori verso il prossimo vertice di Durban. Certo è che senza un riconoscimento della centralità della tutela della biodiversità si rischia di sostenere la sostituzione di foreste vergini in piantagioni, magari di biofuel, senza un vincolo sui diritti umani e dei popoli indigeni, si rischia di scatenare una corsa all’oro verde ed alle terre indigene da parte di governi ed imprese.

Mentre grazie ai permessi di emissione generati da REDD i paesi industrializzati e le imprese potranno continuare ad inquinare. Anche REDD potrebbe cadere nella tagliola dei veti incrociati. Fino a qualche settimana fa si ipotizzava che Cancun potesse produrre una serie di decisioni per azioni concrete, incluso quello sulle foreste, struttura del fondo climatico, trasferimento di tecnologie, adattamento e monitoraggio dei programmi di mitigazione.

Ora si propende per un unico documento equilibrato, come da richiesta americana. Tutto o nulla questa è la posta in gioco a Cancun. Il tutto rischia di essere insufficiente, il nulla un duro colpo alla tenuta delle Nazioni Unite e del multilateralismo già duramente messo a dura prova un anno fa nella gelida capitale danese.

martedì 14 dicembre 2010

Foreste banco di prova del negoziato sul clima a Cancun

C’è un tema poco dibattuto nel meeting messicano sulla sorte di centinaia di gruppi indigeni e la protezione delle foreste in cambio di aiuti finanziari dei paesi industrializzati, tra cui l’Italia che ha iniziato a promettere fondi. Il rischio del land grabbing, per espellere comunità indigene e trasformare le foreste in strumenti di produzione di denaro, calpestando diritti e alla tutela degli ecosistemi.

CANCUN – Nel clima di sfiducia che regna sui Negoziati per la riduzioni delle emissioni di Gas Serra della COP16 delle Nazioni Unite a Cancun, c’è un tema poco dibattuto che può decidere delle sorti di centinaia di gruppi indigeni, quello dei cosiddetti programmi REDD (Reduced Emissions from Deforestation and Degradation). Richiesti alcuni anni or sono dalla Coalizione dei Paesi con Foreste Tropicali, in primis Panama, Costa Rica, Guyana, Papua Nuova Guinea, per riattivare un negoziato internazionale in sede ONU sulla protezione delle foreste in cambio di supporto finanziario da parte dei paesi industrializzati, tra cui l’Italia che ha iniziato a promettere fondi. “Questo tipi di negoziati sono però pieni di rischi” – spiega Francesco Martone, della Ong inglese Forest Peoples Programme 1, che da due anni accompagna come consigliere politico le delegazioni indigene ai negoziati sul clima. L’associazione Forest Peoples Programme, lavora in supporto ai popoli indigeni delle foreste tropicali, per il riconoscimento del loro diritto all’autodeterminazione, per difendere i diritti umani e per gli ecosistemi dai quali dipende la loro sopravvivenza.
Un meccanismo rischioso. L’anno scorso a Copenhagen venne lanciato un programma di supporto alle attività di protezione delle foreste REDD, per circa 4 miliardi di dollari; oggi, in Messico si discute di come chiudere gli accordi. Ma quale meccanismo dovrebbero incentivare i REDD? I paesi con foreste tropicali si impegnano da una data da definire a ridurre o fermare la deforestazione, in cambio sarebbero ricompensati con l’accesso a fondi per coprire le mancate rendite delle attività economiche. REDD potrebbe rappresentare un incentivo a deforestare fino alla data fissata per poter poi reclamare un risarcimento più alto e accedere ai fondi per i programmi REDD. “Le Foreste sarebbero considerate come pozzi di carbonio senza dare pieno risalto agli altri valori d’uso e non-uso, biodiversità, servizi ambientali, e questioni relative ai diritti dei popoli indigeni”, racconta Martone. “Il rischio è di scatenare quella che si definisce land grabbing, una corsa all’oro verde espellendo comunità indigene e trasformando le foreste in strumenti di produzione di denaro”.
Il business del carbonio. Si prevede, infatti, che i progetti REDD possano generare crediti di carbonio e quindi aprire le foreste ai mercati di carbonio, permettendo così a imprese che continuano a emettere gas serra di compensare quelle emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio. “Un’eventualità che presenta forti dubbi sulla commercializzazione delle foreste che incontra la forte resistenza di movimenti sociali, popoli indigeni e paesi come la Bolivia”, sottolinea Martone. I popoli indigeni riuniti a Cancun hanno elaborato richieste specifiche per i Governi relative non solo a REDD ma al resto dei Negoziati. “Per molti indigeni REDD rappresenta una minaccia, ma anche un’opportunità per aprire uno spazio di discussione con i rispettivi governi, come ad esempio in Indonesia o Paraguay”, continua il delegato di Forest Peoples Programme. “Questo, a condizione che si riconoscano i loro diritti fondamentali, alla terra, alle risorse, all’autodeterminazione, partecipazione e consenso previo informato, ed alla propria conoscenza tradizionale”. Tutti diritti riconosciuti nella Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e riconosciuta recentemente anche dal Canada, paese che assieme agli Stati Uniti non si era ancora espresso in proposito.
La posizione italiana. Tagli alla cooperazione e fondi REDD promessi alla Banca Mondiale. Nel 2009 a Copenhagen nasce il Partenariato ad interim su REDD, al quale hanno aderito 54 paesi, tra cui l’Italia. Nell’ultima Conferenza sulla Biodiversità di Nagoya, il nostro Paese annuncia la decisione di stanziare 100 milioni di dollari alle iniziative internazionali su REDD, inclusi 5 milioni di dollari per un programma gestito dalla Banca Mondiale, il cosiddetto FCPF, Forest Carbon Partnership Facility 2. Ma da dove vengono questi soldi visti i tagli fatti a tutti i fondi per al cooperazione nella Legge Finanziaria? “Non è chiaro, certamente da bilanci del Ministero dell’Ambiente visto che l’annuncio è stato fatto dal Ministro Prestigiacomo”, spiega Francesco Martone. “Certo in tempi di tagli alla cooperazione bilaterale questo impegno finanziario apre diversi interrogativi, anche sulla frammentazione dei fondi di cooperazione internazionale tra Ministero degli Esteri, Ambiente e Economia. Questi fondi serviranno a sostenere programmi di preparazione alle iniziative REDD, ma non è chiaro quali siano le condizioni poste dall’Italia ovvero se si chiederà alla Banca mondiale ed agli altri attori di tutelare i diritti indigeni o la biodiversità o a non ricorrere ai mercati di carbonio. O se questi fondi non serviranno a sostenere indirettamente interessi imprenditoriali e commerciali italiani, nel settore forestale o attraverso l’acquisto di permessi di emissione”.
Declino del negoziato multilaterale. Cancun potrebbe rappresentare un punto di rottura irreversibile del ruolo delle Nazioni Unite sul tema del cambiamento climatico, secondo Martone. La corsa al ribasso per un accordo condiviso pare essere la chiave per tenere tutti al tavolo della trattativa e sperare in una maggiore determinazione nel percorso verso Durban 2011. “L’ambasciatore De Alba, intervenendo alla riunione del Caucus Indigeno, ha fatto capire chiaramente che questa determinazione non verrà certo dai paesi ricchi ma deve essere alimentata dalla società civile e dai movimenti”. Movimenti che però invocano una netta inversione di rotta, verso il riconoscimento del debito ecologico e la giustizia climatica, ed una netta uscita dalla trappola dei combustibili fossili, piuttosto che insistere su soluzioni quali i mercati di carbonio.

Paola Amicucci

Fonte: Repubblica.it

mercoledì 10 novembre 2010

Perché noi di SEL ci dobbiamo preoccupare per i Sahrawi ed i Birmani


Due importanti notizie hanno fatto il giro del mondo questi giorni ma non hanno attraversato neanche di striscio il dibattito politico nostrano, tutto focalizzato a vaticinare la fine imminente o meno dell’era berlusconiana, e il futuro prossimo del paese. Un paese sempre più ripiegato in se stesso, che non sa e non vuole guardare al mondo se non come fonte di minacce, da quella posta dalla crisi finanziaria, a quelle costruite ad arte dai media “mainstream” e certa propaganda che rasenta la xenofobia, delle invasioni di migranti. Sempre più distante la guerra in Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese, il prossimo G20 di Seoul, che dovrebbe approntare le misure necessarie per affrontare la crisi finanziaria e prevenirne di nuove. Un paese ed una politica che leggono le situazioni che accadono al di là dei propri confini ripetendo la logica di schieramento, o comunque come eventi forse ineluttabili o semmai i cui destini restano in mano della volontà dei governi o della comunità internazionale. E di rado , se non mai, si prova a leggere gli eventi dalla parte di coloro che quegli eventi subiscono, e che pertanto devono essere il punto di partenza per prospettare qualsiasi ipotesi di soluzione politica. Sono drammatiche le notizie che provengono dal Sahara Occidentale , sulla repressione sanguinosa operata dal’esercito marocchino contro migliaia di Sahrawi accampati alla periferia della capitale Al Aayoun. Non quella fatta di tende in plastica azzurra e ricostruita nel mezzo del deserto algerino, ma quella”ufficiale” popolata da sahrawi d’importazione. Coloni fatti affluire da Rabat con la marcia verde poco dopo l’armistizio che nel 1975 pose fine alla guerra d’indipendenza, e di fatto consolidato l’occupazione militare marocchina e l’inizio di un incubo per un popolo senza stato. Da allora ogni anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha confermato il mandato ad un contingente di Caschi Blu per vigilare sul cessate il fuoco, e da allora ad oggi nessuno sforzo effettivo è stato fatto per organizzare il referendum che dovrebbe sancire il destino del vecchio Sahara spagnolo, colonia venuta meno con il venir meno del franchismo. Migliaia di soldati marocchini restano appostati lungo un muro di sabbia che separa il Sahara occidentale dagli insediamenti sahrawi quasi tutti in Algeria. Un popolo, i Sahrawi, che ha deciso la linea della nonviolenza e della fiducia nel diritto internazionale, ma che oggi vede svanire lentamente tutte le proprie speranze. Premono i giovani sahrawi per una intifada, resistono gli anziani leader del Polisario, pur nelle difficoltà attuali, dovute a importanti defezioni di leader storici passati dall’altra parte, uno di loro addirittura a fare l’ambasciatore marocchino in Spagna. Marocco, Algeria, Spagna, Stati Uniti, Unione Europea, sono i principali attori nella vicenda Sahrawi, giocatori di scacchi in una vicenda che può segnare non solo il destino di un popolo ma anche la tenuta dell’opzione nonviolenta e della fiducia nella diplomazia e nel diritto internazionale. Per questo, anche per questo ci deve interessare il popolo sahrawi, perché con loro rischia di scomparire il diritto,, schiacciato nella morsa degli interessi geopolitici contrapposti. Marocco alleato chiave per la Spagna (basti pensare al questione di Ceuta e Melilla e le politiche di esternalizzazione delle frontiere, o le concessioni di pesca in alto mare) e per gli Stati Uniti, interessati non solo alle risorse naturali del Sahara occidentale ma anche ad avere fedeli alleati nella lotta al terrorismo islamico. E poi c’è l’Algeria che utilizza la carta della decolonizzazione e dell’autodeterminazione dei Sahrawi per provare a conquistare uno sbocco a mare sull’Oceano Atlantico. La Unione Europea è spaccata sulla vicenda Sahrawi con la Francia alleata storica del Marocco e non ha trovato di meglio che affidare alla Lady Ashton una dichiarazione di basso profilo, Intanto a New York dovrebbero riprendere dei negoziati ufficiali tra Polisario e Marocco, che a questo punto obbligherà i Sahrawi a negoziare con la pistola alla tempia. Mentre El Aayoun brucia. Spostiamoci di continente e le notizie dalla Birmania (si noti bene non usiamo il termine Myanmar coniato dalla dittatura militare) ci raccontano di un esodo di profughi verso la Thailandia, dopo lo scontato esito delle elezioni politiche truffa,pilotate dalla giunta militare – ma del resto era chiaro fin dall’inizio per chi aveva osservato da vicino il processo costituzionale manovrato ad arte dai generali. A migliaia stanno fuggendo per il timore del riaccendersi della guerra civile tra truppe governative e ribelli di varie etnie. Ed il premio nobel per la Pace Aung San Suu Kyi nonostante gli annunci della giunta resta agli arresti , dopo l’ennesimo bluff verso la comunità internazionale. Anche se si susseguono voci i una sua imminente liberazione, Ma la giunta birmana ci ha abituato a questi continui ed estenuanti “tira e molla”. La Cina considera la Birmania alleato strategico, per il controllo di quello scacchiere cruciale per le rotte mercantili e per le sue risorse energetiche. Né più e né meno come le imprese transnazionali occidentali che non hanno avuto l’ardore di disinvestire dal paese, e con l’Unione Europea che a parole sostiene la democrazia ma nei fatti mette in discussione lo strumento delle sanzioni mirate per optare per un approccio più dialogante. Una sorta coinvolgimento costruttivo simile a quello dietro il quale finora si è trincerata anche la Thailandia, con migliaia e migliaia di profughi birmani da anni accampati a Mae Sot e lungo la frontiera. Migliaia di uomini, donne bambini, le cui vite e la cui dignità vengono schiacciate anche in questo caso dagli interessi geopolitici contrapposti di varie potenze mondiali e regionali. Le donne e gli uomini i bambini e gi anziani Sahrawi e birmani non possono essere lasciati in balia di una storia fatta dai potenti, né semplicemente liquidati come vittime ineluttabili del loro destino. Anzi una politica estera di sinistra, deve, come suggerisce la filosofa Judith Butler, nella sua ultima fatica “ Frame of War” “Cornici di Guerra”, saper cogliere l’importanza della nonviolenza e per far ciò superare la visione secondo la quale quelle popolazioni sono vittime predestinate alla guerra e necessitanti aiuto. Piuttosto ogni possibile soluzione politica deve partire dalla centralità della loro dignità in quanto essere umani, il cui destino non deve essere necessariamente quello di vittime di guerra o violazione dei propri diritti. Ed allora anche noi, che viviamo lontani da quei drammi dovremmo fare un passo in avanti e fondare la nostra opzione nonviolenta sul riconoscimento che anche noi potremmo un giorno essere vulnerabili, e che finora ci salviamo solo perché siamo in paesi più ricchi, più armati, più potenti. Ecco perché oggi quello che succede in Sahara Occidentale ed in Birmania ci deve toccare da vicino in quanto amanti del diritto, della libertà e dei diritti umani, della nonviolenza e della soluzione diplomatica dei conflitti, Ma anche perché da una nuova lettura di quegli eventi possiamo trarre spunto per un’ipotesi di sinistra che metta al centro la dignità delle persone e sia all’altezza delle sfide contemporanee.

Francesco Martone

Forum sulle Politiche Internazionali di Sinistra Ecologia e Libertà

venerdì 30 luglio 2010

Todos somos Arizona

Stamattina mi sono alzato, come di norma ho letto i giornali online, nei quali si parla del duello Fini-Berlusconi, scorso i post dei miei amici su Facebook, e visto immagini postate da Sharon he vorrei vedere anche qua da noi. Sono le immagini di migliaia e migliaia di migranti latinos che marciano per le strade di New York, Chicago, Detroit, San Francisco, Los Angeles, persone incatenate davanti ad una prigione dell’Arizona per evitare altre deportazioni, striscioni calati dal ponte di Oakland contro la legge razzista e liberticida approvata dal Senato dell’Arizona. (http://www.flickr.com/photos/puenteaz/sets/)
Un movimento nazionale e plurinazionale, organizzato, con il sostegno dei movimenti per le libertà civili statunitensi. Un movimento di base di donne ed uomini che rivendicano direttamente i loro diritti di cittadinanza. Mi domando dove sia Barak Obama in tutto questo. E mi viene alla mente un bel libro che raccoglie una conversazione tra Judith Butler e Gayatri Spivak, sulla fine dello stato nazione. Lì si discute del paradosso dei migranti latinos che cantano in spagnolo l’inno americano per rivendicare il proprio diritto ad appartenere a quella comunità, che grazie alla loro presenza si trasforma in maniera irreversibile. Oppure alle parole di Alain Touraine quando tratta dei movimenti dei sans-papier nel suo saggio sulle strategie di resistenza al neoliberismo. Insomma la storia del movimento migrante ci racconta molte cose, ci sfida a pensare nuove forme di azione politica, immaginare percorsi nei quali si mette al centro il protagonismo in prima persona degli aventi diritto, di coloro che hanno diritto alla mobilità ed alla cittadinanza. Poi mi metto a pensare a noi, che con Sinistra, Ecologia e Libertà stiamo provando a costruire un progetto politico, uno spazio comune nel quale si possa ritrovare chi oggi vuole impegnarsi per una società più giusta, pacifica, equa e pulita. Ripercorro le immagini delle riunioni alle quali ho partecipato, mi preoccupa l’uniformità cromatica delle nostre epidermidi. Mi arrovella il cervello il timore che questo partito in costruzione forse inconsapevolmente (e questo sarebbe ancor più grave), non riesca a rappresentare la vera società italiana, ormai multietnica e pluriculturale. Un partito di soli “italiani” e bianchi (a parte qualche eccezione), che tratta di questioni quali l’immigrazione, come se fossero solo relative all’antirazzismo o alla promozione di un nuovo “welfare”, (approccio di protezione) o al contrasto alla repressione (comunque sia accettando il confronto sul piano della sicurezza). Che non ascolta le voci dei diretti interessati e non sa fare uno scatto di avanti, provando a costruire uno spazio d’iniziativa comune con i migranti e con le seconde generazioni,. Questo sarebbe ancor di più il mio partito, un soggetto plurale e “meticcio”, che offre opportunità di azione innovativa, radicale, inclusiva ed includente. E che non teme di contemplare tra gli strumenti della sua azione politica anche sane pratiche di disobbedienza civile ed azione diretta nonviolenta.

giovedì 15 luglio 2010

Una soluzione diplomatica e nonviolenta alla crisi iraniana

Scambi di spie, uno scienziato iraniano rifugiato nell’ambasciata pakistana a Washington: a leggere i giornali dei giorni scorsi pareva essere ritornati ai tempi della guerra fredda, in un copione degno dei best seller di David Forsyth o Tom Clancy. Ad uno sguardo più attento da questi episodi si snodano questioni complesse che rappresentano alcune tra le più grandi sfide che la comunità internazionale si trova a dover affrontare. Prendiamo il caso di Shahram Amiri, scienziato nucleare dell’Università di Malek Ashtar, vicina alle Guardie rivoluzionarie iraniane e scomparso misteriosamente durante un pellegrinaggio in Arabia Saudita nel giugno 2009. Gli Stati Uniti hanno sempre negato la sua esistenza, fino a quando il governo iraniano non ha prodotto una videocassetta contenente, a loro avviso, le prove della sua sparizione. Un episodio che, assieme alle ultime rivelazioni di Amiri ormai tornato in patria, potrebbe inasprire le già delicate relazioni tra USA ed Iran. Solo quale settimana fa vennero approvate una serie di nuove sanzioni intese a ricondurre al negoziato il governo Ahmadinejad che a sua volta continua a mostrare i muscoli, ed a riaffermare la propria determinazione a proseguire con il programma di arricchimento dell’uranio. Il Consiglio di Sicurezza aveva adottato a giugno una risoluzione, seguita poi dall’Amministrazione Obama che estendeva le sanzioni anche a quelle imprese non-statunitensi che intrattengono relazioni con l’Iran, in particolare nei settori del petrolio e del gas. Stesso approccio ha seguito l’Unione Europea, che ha esteso le sanzioni alle tecnologie ad “uso duale” , quelle cioè che possono essere utilizzare a scopi civili e militari. Come al solito da varie parti si sono susseguite considerazioni sull’efficacia o meno del regime delle sanzioni, e sulla necessità di accompagnarle ad uno sforzo diplomatico per riportare l’Iran sul tavolo della trattativa, se non sull’ineluttabilità dell’opzione militare. Teheran a sua volta ha annunciato l’intenzione di riaprire i negoziati con una lettera all’Unione Europea, ai primi di luglio. Se così fosse ci sarebbe ragione di essere ottimisti. Le sanzioni ricondurrebbero il regime a trattare sul programma nucleare civile ed i rischi di una escalation militare nella zona sarebbero sventati. Invece il combinato disposto di varie circostanze rendono oggi la questione estremamente complicata. Da una parte il capo del governo russo Medvedev critica le sanzioni adottate all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza e lancia l’allarme sulla possibilità che l’Iran possa presto costruirsi la bomba. Dall’altra le dichiarazioni senza precedenti del Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, che per la prima volta ha sostenuto pubblicamente la necessità dell’opzione militare , in caso la diplomazia non riuscisse a fare il proprio corso. Che tale dichiarazione provenga da un alto rappresentante di un paese del Golfo è significativo, visto che nelle intenzioni del governo di Teheran, il golfo Persico è l’area di massima rilevanza sulla quale affermare la propria egemonia politica e militare. Un’area, vale la pena di ricordare - nella quale anche la Francia ora opera attivamente per esportare – soprattutto negli Emirati - tecnologia nucleare civile. Il rituale tintinnare di scudi e sciabole che si ripete ciclicamente ogni qual volta di discute di come prevenire l’escalation militare dell’Iran, si è scontrato finora sempre con il freddo calcolo di chi nell’amministrazione Obama è cosciente degli effetti di un possibile attacco militare, per mano israeliana o americana, in Libano, come a Gaza, in Iraq come in Afghanistan. Un effetto a catena ingestibile per un paese, gli Stati Uniti, già “overstretched”, ovvero impegnati fino all’osso in due guerre senza fine nella regione. C’è però un elemento che può essere determinante stavolta. Come si sa la politica estera di un paese è sempre strettamente connessa con quella interna. Spesso ci s’imbarca in avventure fuori confine per far passare in secondo piano le difficoltà nella politica interna. Spesso invece l’avventurismo oltre confine incide e indebolisce ulteriormente la tenuta del governo all’interno. È il caso di Obama, che si avvicina alle elezioni di “mid-term” dell’autunno con il rischio di perdere la maggioranza nel Congresso, e trasformarsi in quello che in gergo si chiama “lame-duck”, anatra zoppa. Ed allora la politica estera , oltre che la riforma sanitaria diventeranno le cartine al tornasole della solidità dell’amministrazione e verranno utilizzate come una clava dai repubblicani, e da quelle forze conservatrici che si stanno coagulando nella galassia contigua al “TEA Party”. Il dossier Iran come detto è complesso legato a doppio filo ai destini di altri paesi ed aree in conflitto, dalla Palestina , all’Iraq ed all’Afghanistan. In quest’ultimo , la tanto pubblicizzata offensiva finale contro la roccaforte di Kandahar è stata rinviata a data da definire, e le difficoltà nelle quali versano le truppe ISAF è evidente. Dell’Iraq neanche a parlarne: l’ultima visita del vice presidente Joe Biden è stata occasione per constatare l’evidente fallimento dell’operazione di costruzione a tavolino della democrazia. Sul conflitto israelo-palestinese la posizione di Obama per una soluzione pacifica ed in sostegno all’opzione Due Popoli-Due Stati, nonché il forte avvicinamento all’Autorità Nazionale Palestinese, sono evidenti, ed è chiaro che una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese potrebbe anche influire positivamente sul dossier iraniano. E l’Europa? Oltre alle sanzioni approvate, l’Europa non potrebbe provare a svolgere un ruolo di mediatore politico e diplomatico insieme agli Stati arabi? Il rilancio dell’opzione negoziale potrebbe sparigliare le carte, e aprire un canale che scongiurerebbe le ipotesi più rischiose di intervento militare. Una carta da giocare esiste, ed è la recente dichiarazione del Consiglio di Sicurezza , contestuale rispetto alla revisione del Trattato di Non-Proliferazione nucleare, che sostiene un processo per la creazione di una zona libera da armamenti nucleari in tutto il Medio Oriente. Questo comporterà però che Israele s’impegni a smantellare i suoi arsenali. L’Egitto che presiede il gruppo dei non-allineati ha già fatto circolare una proposta per convocare il prossimo anno una conferenza per costruire una zona libera di “armi di distruzione di massa” (incluse le armi chimiche) nel Medio Oriente invitando anche Israele, e l’Europa dovrebbe sostenere tale processo. Oltre che con la diplomazia, e la mediazione, l’Iran va affrontato anche e soprattutto comprendendone le ragioni e la mentalità.

Nel suo “The Enemy we Know” (Il nemico che conosciamo) l’ex-agente della CIA Robert Baer, ci dice che gli Stati Uniti non sono stati mai in grado di capire l’Iran, e mantengono una visione che richiama l’epoca degli Ayatollah e dell’integralismo islamico. Baer invece consiglia di andare oltre: “Quello che si trova in un Iraniano al di là dell’Islam, è una sfida profonda al colonialismo, una forma antica di nazionalismo. Andando ancora più a fondo nell’anima dell’Iran, si trova un gusto ritrovato per l’impero. Ma l’Iran non è la nuova Roma, intenta alla pura conquista, alla diffusione della propria cultura, agli insediamenti ed alla conversione religiosa. …ciò che è necessario capire oggi è che l’Iran crede profondamente nel proprio diritto all’impero”. E’ evidente che per Teheran il braccio di ferro sul nucleare è principalmente una mossa intesa a riaffermare il proprio ruolo ormai consolidato di potenza regionale piuttosto che l’intenzione di dotarsi della bomba. Invece di prospettare l’ipotesi di una soluzione militare, sarà allora necessario ed opportuno insistere con la via pacifica del negoziato, cogliendo l’occasione per rilanciare un’iniziativa politica per tutto il Medio Oriente, dalla sua denuclearizzazione fino alla soluzione definitiva dei conflitti che da anni ormai affliggono i suoi popoli.

sabato 19 giugno 2010

Un bilancio del Vertice Eurolatinoamericano di Madrid, Maggio 2010

Enlazando Alternativas: un bilancio.

A cura di AMISnet • 24 Maggio 2010

A cura di Elise Melot e Ciro Colonna

Chiudiamo oggi le nostre corrispondenze dal vertice tra Unione Europea e paesi latino americani e caraibici che si è tenuto a Madrid. Nei giorni scorsi, oltre al vertice ufficiale, abbiamo largamente documentato i lavori del contro-vertice Enlazando Alternativas. Proviamo oggi a tracciare un primo bilancio critico delle due iniziative che si sono svolte in parallelo, bilancio che sarà necessariamente parziale e non esaustivo.
Innanzitutto il vertice ufficiale che – nel contesto della crisi di sistema che coinvolge entrambi i continenti in questione, pur con importanti specifiche territoriali – è sembrato un incontro quanto mai “blindato”, in cui la parte europea aveva molto chiaro quali fossero i propri obiettivi (ottenere maggior spazio di manovra per le proprie aziende in latino america ed irrobustire la propria penetrazione economica e commerciale). Sul fronte latino americano le posizioni dei governi “compiacenti” sono apparse più che inclini a sottoscrivere gli accordi proposti dalla parte europea e quelle dei governi meno “allineate” dotate di poche possibilità di sottrarsi o di incidere sui processi decisionali. Così, le negoziazione in vista dalla firma di un accordo di libero scambio di merci tra l’Unione Europea e il Mercosur – la comunità economica che comprende l’Uruguay, il Paraguay e due giganti dell’economia latino-americana quali il Brasile e l’Argentina – sono stati riavviati. Inoltre, durante il vertice, l’Europa ha ottenuto la firma di un accordo commerciale con i paesi dell’America Centrale ma anche con la Colombia e il Perù.

D’altro canto il contro-vertice si è sviluppato, secondo uno schema ormai consueto per i grandi forum sociali, nell’articolazione di numerosi laboratori, nei quali realtà anche molto distanti tra loro (non solo dal punto di vista geografico) hanno provato a mettere in comune pratiche e lessico per affrontare problemi di portata globale.
Ci sentiamo di annotare quanto la differenza e la distanza tra i vari movimenti che lo hanno dato vita al Forum abbia purtroppo giocato un ruolo significativo, nei termini di una difficoltà a parlare un linguaggio comune e a costruire un’efficace progettualità politica e di intervento. Ricordiamo che l’incontro è arrivato alla sua 4 edizione, e che già dalla seconda il Tribunale Permanente dei Popoli vi partecipa. Durante questi anni, il lavoro della rete bi-regionale e del Tribunale, basato sullo studio scrupoloso di casi specifici, ha permesso lo sviluppo di analisi molto precise delle dinamiche con effetti spesso disastrosi per le popolazioni locali, in atto in America Latina, di cui sono attori le aziende europee affiancate dalle stesse istituzioni.
Anche su questo fronte sono però probabilmente mancate iniziative di comunicazione con il vertice ufficiale, che infatti si è svolto senza prendere nella benchè minima considerazione i lavori di Enlazando Alternativas.

Questi elementi inducono a ragionare sull’opportunità di ripensare la forma onnicomprensiva in cui si svolgono alcuni di questi grandi forum, forma che sembra sempre più essere autoreferenziale e incapace di incidere sulle dinamiche reali.
Abbiamo parlato con Francesco Martone, membro del Tribunale Permanente dei Popoli, per cercare di capire insieme a lui quali possano essere le criticità e le prospettive di sviluppo e di rilancio di questi percorsi.

http://amisnet.org/agenzia/2010/05/24/enlazando-alternativas-un-bilancio/

giovedì 20 maggio 2010

Enlazando Alternativas per un'Europa dei diritti dei popoli

Si è tenuta nei giorni scorsi a Madrid, parallelamente al Vertice Eurolatinoamericano di Capi di Stato e di Governo, la quarta “Cumbre de los Pueblos” della rete bi-regionale di movimenti sociali europei e latino americani "Enlazando Alternativas", intrecciare alternative. Così si è voluta definire la rete di movimenti sociali europei e latinoamericani nata in occasione del vertice dei Capi di Stato e di Governo dell'Unione Europea, America Latina e Caribe svoltosi in Messico, a Guadalajara nel maggio 2004. Fino ad allora l'Europa di Lisbona, di Maastricht e della Costituzione Europea era lontana dalle preoccupazioni dei movimenti sociali latinoamericani. Anzi, sembrava quasi che l'Unione Europea , con la sua forte enfasi sulla democrazia, i diritti umani e lo sviluppo sostenibile potesse rappresentare una valida alternativa di partenariato agli Stati Uniti. Ad una prima fase focalizzata sugli aspetti politici, ne è seguita però una nuova, quella attuale, concentrata su un’agenda principalmente commerciale ed imprenditoriale. L’unica possibilità per la UE, in questa fase di grave crisi economica e finanziaria, è infatti quella di spingere sull'acceleratore senza aspettare la conclusione del negoziato di Doha all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Così facendo però scopre le sue vere carte: cade la retorica "buonista" e finalmente si va all'osso della questione, ovvero aumentare la competitività e la crescita in Europa ed a livello globale e sostenere l'ulteriore integrazione dei paesi partner nel sistema di mercato globale. E' una strategia a tutto campo che si aggancia a quella teorizzata nel documento "Global Europe - Un' Europa competitiva in un'economia globalizzata", nella quale si propone un'agenda aggressiva di apertura dei mercati esterni, che prevede l'inclusione nei negoziati di questioni lasciate in sospeso nella OMC, ovvero i cosiddetti "Singapore Issues", quali investimenti, competivitità e liberalizzazione dei servizi. Gli accordi di libero scambio riformulano così le priorità reali dell'Unione Europea, prima fra tutte quella di favorire l'accesso delle imprese europee alle risorse naturali. È per mettere a nudo questa trama e evidenziarne le ricadute sui diritti dei popoli, che -parallelamente al controvertice di Enlazando - si è tenuta la terza sessione del Tribunale Permanente dei Popoli (TPP). In precedenza (a Vienna, 2006 e Lima, 2008) il Tribunale aveva avuto occasione di ascoltare le testimonianze di decine di rappresentanti di comunità locali, popoli indigeni, realtà sindacali e di base, organizzazioni e movimenti sociali sugli impatti delle attività di imprese multinazionali europee in America Latina. Obiettivo iniziale era quello di contribuire a porre fine a quella asimmetría giuridica secondo la quale gli stati avrebbero obbligo di promuovere i diritti umani e sociali, mentre le imprese sarebbero solo tenute a fare del loro meglio per assicurare che le proprie attività tengano in considerazione le eventuali ricadute sui diritti. Ed evidenziare come i governi spesso decidono (o vengono obbligati a farlo) di abbandonare le proprie prerogative ed obblighi di promozione del bene comune, confondendo queste con il sostegno agli interessi del settore privato. Nella sentenza di Lima il TPP riconosce che la responsabilità degli stati sia quella di promuovere, rispettare e garantire i diritti umani, ma sottolinea come la facoltà delle imprese di avvalersi di codici di condotta volontari contribuisca a renderle immuni da qualsiasi forma di responsabilità giuridica per eventuali violazioni del diritto internazionale. A Madrid è stato fatto un ulteriore passo in avanti nell’identificazione delle corresponsabilità ed omissioni delle istituzioni dell’Unione Europea nel sostenere l’espansione delle imprese europee in settori strategici che rappresentano l’ossatura centrale dell’esercizio di sovranità da parte degli stati. Il Tribunale, nella cui giuria sedevano personalità quali Blanca Chancoso leader indigena ecuatoriana, Nora Cortinas, delle Madres de Plaza de Mayo, Alirio Uribe attivista ed avvocato dei diritti umani in Colombia, a Perfecto Ibanez magistrato spagnolo, ha formulato un duro atto d’accusa all’Europa. Le istituzioni dell’Unione sono accusate di sostenere un’agenda di liberalizzazione degli scambi commerciali e degli investimenti a vantaggio delle proprie imprese, ponendo condizioni stringenti ai paesi latinoamericani con i quali si stanno negoziando accordi di libero scambio, senza curarsi delle possibili ricadute degli stessi sui diritti umani, economici sociali ed ambientali. Contemporaneamente, le politiche “interne”, quali quella di sostegno all’uso di agrocombustibili o OGM o di difesa dei diritti di proprietà intellettuale delle imprese farmaceutiche, si ripercuotono in maniera drammatica sui diritti al cibo, alla terra, all’ambiente, alla salute. Un’Unione Europea cieca quindi nei confronti delle sue responsabilità globali, in preda ad una discrasia che non le permette di svolgere altro ruolo se non quello di servizio agli interessi imprenditoriali e di espansione commerciale. Dalla sentenza del Tribunale emerge quindi una grave carenza di politica, di strumenti di trasparenza e partecipazione diretta dei cittadini nelle suelte cruciali per lo sviluppo e l’ambiente. Non a caso tra le varie richieste il Tribunale esorta la UE ed i paesi latinoamericani impegnati nelle trattative commerciali a sospendere ogni negoziato finché non se ne studino le ricadute sui diritti umani, con processi trasparenti e partecipati. A questo si aggiunge l’appello ad internalizzare gli obblighi relativi ai diritti umani in tutte le attività esterne dell’Unione, a riconoscere a livello ONU il debito ecologico e sociale accumulato dal Nord verso i Sud del mondo, nonché ad istituire presso quella sede un tribunale sui crimini economici ed ambientali e linee guida vincolanti per le imprese. Un ulteriore punto da sottolineare riguarda la giustizia climatica, tema centrale nelle agende dei movimenti sociali globali prima, durante e dopo il vertice dei popoli di Cochabamba. Il Tribunale sottolinea come molti dei casi studiati relativi ad imprese attive nel settore energetico, estrattivo e degli agrocombustibili prefigurano nuove tipologie di aggressione ai diritti ambientali e della natura e per questo fornisce una direttrice di percorso affinché vengano elaborati nuovi strumenti giuridici e legali a sostegno della giustizia climatica. Un tema, quello del clima, all’ordine del giorno, assieme alla crisi finanziaria, del vertice ufficiale dei capi di stato e di governo. Ed è proprio la crisi finanziaría, con le sue false soluzioni, e le gravi conseguenze sui diritti sociali ed economici ad esse connessa, che è stata al centro della marcia che ha attraversato Madrid per portare all’attenzione dell’opinone pubblica e dei governi le parole d’ordine dei movimenti, poi riassunte nella dichiarazione finale del controvertice. Una dichiarazione che non lascia alcuno spazio a compromessi. Si respingono i trattati di libero commercio (TLC), gli accordi di associazione (AdA) e quelli relativi agli investimenti negoziati contro gli interessi dei popoli. Vengono contestate duramente le politiche di risanamento dell’Unione e quelle del FMI, e rivendicato il diritto alla sovranità alimentare ed al pagamento del debito ecologico e climatico verso i popoli impoveriti del planeta. Si chiede all’Europa di impegnarsi, piuttosto che in soluzioni tampone come i mercati dei permessi di emissione, a ridurre drasticamente le proprie emissioni e ad una profonda trasformazione dei modelli economici e produttivi. I rappresentanti dei movimenti confermano poi la loro solidarietà e sostegno alle rivendicazioni dei popoli indigeni ed alle campagne e istanze delle reti di migranti latinoamericani in Europa e nel mondo. Tra i vari seminari promossi da Enlazando Alternativas, due hanno affrontato il tema della relazione tra agenda commerciale e flussi migratori, e la drammatica contraddizione tra un’Europa che sostiene la libertà di circolazione delle merci e dei capitali e chiude ermeticamente le proprie frontiere ai migranti. Una linea securitaria e repressiva ancorata alla direttiva del “ritorno”, alle clausole incluse in molti accordi commerciali con i paesi terzi ed esplicitata in maniera evidente nell’istituzione dei Centri di Identificazione ed Espulsione e nella strategia di “esternalizzazione” delle frontiere. Da Madrid è giunta un’interessante novità. Se finora le reti di migranti in Europa sembravano essere principalmente su base nazionale, da poco tempo a livello continentale si è creata una rete-movimento transnazionale di migranti ecuadoriani. Un soggetto collettivo che sviluppa proposte, analisi, apre spazi di agibilità, dialoga con altre comunità migranti e propone piattaforme ampie di rivendicazione dei diritti, che vanno ben oltre il diritto, non ancora riconosciuto, alla mobilità umana. E’ in un certo senso l’espressione dela volontà di farsi soggetto politico , di rifuggire le suggestioni, a volte presenti nelle parole d’ordine del controvertice, di racchiudere questa volontà negli spazi angusti della “solidarietà” o della “lotta al razzismo”. Sono moltitudini che vogliono riconquistare il proprio volto, la propria dignità, dal basso e con esperimenti e pratiche inedite. Una novità si diceva, nata spontaneamente sulla scia del Forum Sociale Mondiale dei migranti di qualche anno fa (e che ora si riunirà di nuovo a Quito ad ottobre), e che dimostra come il valore aggiunto di questi appuntamenti stia proprio nelle sinergie e nei processi che innesca piuttosto che nelle parole d’ordine o nei grandi numeri.

Francesco Martone, Maria Rosa Jijon

venerdì 2 aprile 2010

Palestina: tra Tribunale Russell e nuovi raid su Gaza

Nelle scorse settimane il Tribunale Russell sulla Palestina ha emesso una sentenza ed una serie di raccomandazioni alla comunità internazionale per restituire alle popolazioni palestinesi i loro diritti fondamentali, violati anche in questi giorni dalle nuove operazioni militari israeliane nella striscia di Gaza. Sullo sfondo le dichiarazioni di alti membri del governo israeliano che ipotizzano una riedizione dell'operazione "Piombo Fuso", incoraggiati dalla reticenza della comunità internazionale a recepire le denunce e le raccomandazioni del rapporto Goldstone. Mentre tutto ciò accade l'Unione Europea stringe nuovi accordi di cooperazione con Israele nel settore della sicurezza, e così facendo pregiudica il suo possibile ruolo di arbitro imparziale nella ricerca di una soluzione politica possibile al dramma mediorientale.
Nel frattempo il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha adottato ben cinque risoluzioni che condannano Israele per una serie di violazioni dei diritti umani , chiedendo tra l'altro l'attuazione delle raccomandazioni del Rapporto Goldstone. La risposta del governo israeliano non si è fatta attendere. Immediatamente dopo l'adozione della risoluzione si è affrettato a dichiarare che il Rapporto Goldstone non aveva nulla a a che vedere con i diritti umani.....


http://www.russelltribunalonpalestine.net
www.tni.org/article/should-eu-subsidise-israeli-security
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=18348



Stato di eccezione

Sto leggendo un interessante libro di Giorgio Agamben, "Stato di Eccezione" che consiglio di studiare attentamente, giacché serve a delineare i contorni sempre più angusti dello spazio politico nel quale dover incidere, i rischi e le sfide di un modello orientato verso la sospensione permanente dello stato di diritto. Dalla quarta di copertina:

" Lo stato di eccezione, ossia quella sospensione dell'ordine giuridico che siamo abituati a considerare misura provvisoria e straordinaria, sta oggi diventando sotto i nostri occhi un paradigma normale di governo..."

http://www.filosofico.net/agamben.htm

Sicurezza per chi? Sicurezza come? Per cosa?

Editoriale per il dossier sulla sicurezza curato per Mosaico di Pace, maggio 2010
di Francesco Martone



Sicurezza per chi? Sicurezza come? Questo dossier cerca di fornire alcune chiavi di lettura per poter provare a decodificare i concetti dominanti nel discorso politico relativo alla sicurezza globale, alle possibili risposte e le sfide per la politica ed il movimento pacifista. Un’esigenza resa ormai ineludibile dalla rapidità con la quale le nuove pratiche e le nuove strategie di guerra si trasformano, costruiscono nuovi “nemici”, elaborano nuovi e più micidiali strumenti di guerra. A riflettere bene nei prossimi mesi si concentreranno alcuni eventi panorama internazionali che hanno a che fare più o meno direttamente con le varie declinazioni del concetto di sicurezza. La NATO è in procinto di discutere la revisione del proprio concetto strategico, appuntamento cruciale per un’alleanza sempre alla ricerca di nuove missioni, alla vigilia di quello che si vorrebbe considerare – nonostante gli innumerevoli fallimenti - l’attacco finale alla roccaforte Taliban di Kandahar. A maggio i paesi firmatari del Trattato di Non-Proliferazione nucleare si occuperanno di rivederne la portata e le modalità di attuazione, mentre i governi di ben 5 paesi europei che ospitano testate nucleari tattiche USA ne chiedono lo smantellamento, come parte di un percorso di revisione del concetto di sicurezza fondato sulla presenza ed il possibile uso di armi nucleari. Sempre a maggio si terrà a Bonn un’importante riunione della Conferenza Quadro sui Mutamenti Climatici delle Nazioni Unite dopo il fallimento di Copenhagen che dovrà provare a riavviare il negoziato su un tema di grande urgenza per la sopravvivenza del Pianeta. Questo tema è strettamente correlato anche all’elaborazione di nuovi paradigmi di sicurezza, nei quali i mutamenti climatici sono considerati come nuove possibili cause di guerre, ma nei quali la priorità rischia di essere limitata al controllo militare delle fonti di approvvigionamento energetico. Ad aprile si sono tenute le elezioni in Sudan, paese martoriato da conflitti interni su base etnica. Proprio la questione del Darfur ha alimentato nel corso degli anni un acceso dibattito sul tema della sicurezza umana, dell’ingerenza umanitaria e delle modalità di intervento della comunità internazionale per il rispetto e la tutela dei diritti umani. Il tema della sicurezza umana e della politica estera etica attraversa ormai gli approcci di sicurezza e strategia militare, ed è fatto proprio dal sistema delle Nazioni Unite come anche dalla Strategia di Sicurezza europea, ma necessita di un esame critico che ne evidenzi le opportunità, ma anche i rischi. Insomma, mai come ora, mentre si svolgono i preparativi per la prossima Marcia per la Pace Perugia-Assisi, il tema della costruzione attiva di politiche di pace è attuale, e deve poter esserlo anche per il movimento pacifista italiano. Questo dossier vuole pertanto essere uno stimolo all’approfondimento ed al confronto collettivo per poter ricostruire assieme un approccio efficace e condiviso per un mondo migliore possibile, E non solo, giacché se è vero che ormai nelle dottrine di sicurezza viene rimosso il confine tra sicurezza nazionale ed “esterna” sarà ancor più evidente come la costruzione della pace a livello internazionale sarà anche progetto di pace e rispetto dei diritti fondamentali a casa nostra, nelle nostre città, in un paese che sta vivendo una grave crisi democratica e del diritto.

mercoledì 31 marzo 2010

Un clima di guerra globale permanente. Quali ipotesi di lavoro sul nesso tra confitti e risorse naturali?

articolo scritto per Mosaico di Pace
Marzo 2010



Nel 2004 fece scalpore la pubblicazione da parte del Pentagono di un rapporto sui mutamenti climatici. Si pensò che se anche il Pentagono decideva di prender posizione allora la situazione era davvero seria, ma non si cercò di comprendere cosa ci fosse dietro quella novità, né di svolgere un’analisi compiuta del nesso esistente tra modelli di sicurezza e tematiche ambientali e della sostenibilità . Nel 2007, il Regno Unito promosse un inedito dibattito sul clima nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, duramente criticato dai paesi in via di sviluppo che non accettavano l’idea di una discussione di tale importanza in un consesso dove la maggior parte dei paesi “inquinatori” tuttora detengono il potere di veto. Da allora il tema è diventato oggetto di nuove elaborazioni e proposte che hanno contribuito a costruire un approccio che oggi si definisce “environmental” o “sustainable security”, e che marca l’entrata in campo dell’apparato militare e dei centri di studi strategici in questioni relative all’urgenza di un mutamento di paradigma di sviluppo.
Si calcola che almeno 1/5 delle guerre nel pianeta abbiano a che fare con le risorse naturali e con l'ambiente. Secondo il rapporto “Sustainable Security for the XXI Century” dell'Oxford Research Group, i mutamenti climatici sono, assieme alla competizione su risorse naturali e strategiche scarse, una delle cause di futuri confitti, insieme alla corsa agli armamenti nucleari e la marginalità sociale causata dalle politiche neoliberiste. Anche il percorso di elaborazione verso la conferenza sul clima di Copenhagen ha visto delle partecipazioni inedite, con generali in pensione, scienziati ed analisti, riuniti nel Military Advisory Council, che si sono interrogati sul possibile impatto del clima sulle nuove guerre dal punto di vista strategico e di riconfigurazione delle dottrine di sicurezza. Si calcola che i mutamenti climatici potrebbero causate conflitti violenti in almeno 46 paesi , impattando su una popolazione di 2,7 miliardi di persone. A fronte del fallimento della Conferenza di Copenhagen, il quadro relativo quadro alle prospettive ecologiche globali continua ad essere allarmante. Il dramma dei rifugiati ambientali rischia di raggiungere dimensioni catastrofiche, non solo nei paesi insulari (si pensi solo a Tuvalu, Comore, Maldive, ed altri stati minacciati nella loro stessa esistenza, ma anche in zone caratterizzate dalla scarsità di risorse essenziali quali terra, acqua e cibo, esacerando conflitti latenti o causandone di nuovi. A fronte di questo enorme debito ecologico già accumulato risalta la quasi inesistente volontà politica dei paesi del Nord globale di sganciare il loro modello produttivo ed economico dai combustibili fossili, o da soluzioni rischiose quali gli agrocombustibili. In questo quadro risulterà ineludibile affrontare il tema del clima e dell'energia dal punto di vista dell'equità e della sicurezza, elaborando un approccio che possa contrapporsi e disinnescare quello che intende la sicurezza attraverso la lente del controllo militare delle fonti di approvvigionamento scarse o a rischio. Questa è la filosofia di fondo perseguita dalla NATO che riprendendo una delle "mission" approvate in seguito alla revisione del suo concetto strategico fatta a Washington nel 1999, ipotizza addirittura l'uso delle sue forze di intervento rapido per assicurare la continuità dell 'approvvigionamento energetico. Armi e soldati verrebbero inviati a vigilare sulle rotte di petroliere, o per proteggere gasdotti o oleodotti. E non è un caso che l’ex-presidente esecutivo della Shell sia oggi - assieme a Madeleine Albright - a capo del gruppo di lavoro attualmente incaricato dell’ulteriore revisione del concetto strategico della NATO. Come non è un caso che un altro ex - presidente della Shell e poi consulente della CIA era tra gli autori del rapporto del Pentagono del 2004. Le guerre per il petrolio hanno un altro lato oscuro, quello derivante dagli effetti devastanti delle operazioni di estrazione di petrolio o altri combustibili fossili che acuiscono conflitti già latenti in aree socialmente fragili quali il Delta del Niger, o in Darfur. Quest’ultimo, che la vulgata interventista vorrebbe poter definire un genocidio, è stato invece definito dalle Nazioni Unite il primo conflitto causato dai mutamenti climatici e ciò a conferma della complessità del problema e dell’inutilità di ricorrere a definizioni che rischiano di aprire la strada a false soluzioni. La vera causa del conflitto in Darfur è la competizione su risorse scarse, (terra ed acqua) tra popolazioni nomadi e stanziali, messe a dura prova dalla desertificazione causata dai mutamenti climatici. Il paradosso è che quelle popolazioni risentono doppiamente della dipendenza dai combustibili fossili che caratterizza il modello di sviluppo dominante. Da una parte soffrono una guerra causata dalle rivendicazioni delle zone di periferia ad un equo accesso alle royalties derivanti dal petrolio estratto da imprese multinazionali, e dalle ricadute socio-ambientali dell'estrazione del petrolio, e della sua combustione attraverso i mutamenti climatici. Esiste quindi un grande paradosso, che si ripete altrove in Africa, laddove le mire di controllo strategico di imprese transnazionali si intrecciano con quelle delle élite di governo, con l’iniquità nella redistribuzione dei profitti derivanti dall’estrazione del petrolio, e con l’impatto socio-ambientale della stessa. A ciò si aggiunga che pur essendo grande produttore ed esportatore di petrolio, il Sudan vive una grave penuria energetica che verrebbe in parte soddisfatta dal rilancio dell’energia idroelettrica. Questa eventualità introduce nuovo elemento di criticità rappresentato dai movimenti popolari di resistenza generati dallo scontento causato dalla costruzione di due dighe a Nord, percepite dalle popolazioni locali come una minaccia alle loro culture tradizionali. La geopolitica dell’acqua è altro tema chiave nell’analisi del nesso tra risorse naturali e conflitti. Basti ricordare al caso della Palestina, o l’uso strategico delle grandi dighe fatto dal governo Turco per colonizzare e controllare il Kurdistan, con l’esempio evidente della diga di Ilisu. L’elemento interessante in questo contesto riguarda la possibilità che attraverso accordi di uso collettivo e transfrontaliero delle acque si possano costruire progetti di pace e riconciliazione trai popoli. Già nel 2005 il Worldwatch Institute riportava i dati di una ricerca svolta dall'Università dell'Oregon che sfaterebbero in buona parte il mito delle "guerre per l'acqua". Gli ultimi 50 anni avrebbero infatti visto solo 37 conflitti per l'acqua con ricorso alla forza, 30 dei quali tra Israele ed uno dei paesi confinanti. 507 sono stati i casi di confitti politico-diplomatici tra paesi per il controllo o la gestione delle acque, mentre ben 1228 sono gli eventi che hanno portato alla conclusione di accordi di cooperazione. Pertanto piuttosto che essere fattore di guerra o per lo meno concausa nell’aggravarsi di condizioni che poi sfociano in conflitti, l'acqua può essere strumento per la costruzione della pace. Non è però solo nel serbatoio della nostra automobile che si materializza un anello della catena che lega i nostri modelli di sviluppo alla distruzione dell'ambiente ed alla competizione su risorse naturali scarse,ambientale e di attuali o possibili conflitti armati, Anche dentro i circuiti di un cellulare, ad esempio, si nasconde l'ultimo anello di un'economia di guerra, alimentata dall'estrazione illegale di coltan, minerale strategico presente in Congo venduto per acquistare armi con le quali combattere le guerre che insanguinano l'Africa. Sono guerre alimentate dall'estrazione illegale di risorse (che non necessitano, come nel caso del petrolio, di grandi infrastrutture) e dal circolo vizioso che le lega a al commercio illegale di armi, alle attività di signori della guerra e milizie mercenarie.
Acqua, petrolio, mutamenti climatici, competizione su risorse scarse sono gli elementi chiave che permettono di costruire un approccio che metta al centro di ogni soluzione i diritti ambientali e la giustizia ecologica accanto a quella della diplomazia popolare e dal basso, al fine di trasformare anche la cooperazione internazionale in strumento di costruzione attiva della pace. La necessaria rielaborazione del concetto di sicurezza e di prevenzione politica e non-violenta dei conflitti dovrà però proporre strumenti che permettano ad ognuno ed ognuna di comprendere come attraverso i propri stili di vita si contribuisce in negativo o in positivo alla costruzione della pace. In negativo anzitutto, giacché il nostro zaino ecologico, o meglio la nostra impronta ecologica calpesta diritti di altri popoli, toglie loro un po' di acqua, di terra, di legname, di minerali, e si ripercuote doppiamente sulle loro vite. Prima sottraendo risorse e poi restituendole come scarti materiali, liquidi o gassosi, togliendo loro altro cibo, acqua e terra. Le cifre ci parlano quindi di possibili nuove guerre, quelle dei poveri, non solo quelle della NATO, ma quelle dei milioni di diseredati che perderanno le fonti della loro già difficile sussistenza. Saranno guerre sotterranee e nascoste, quelle che non andranno sui primi titoli dei media o non saranno all'attenzione dei movimenti giacché non entreranno facilmente nel lessico antimperialista o post-coloniale, o della solidarietà internazionale. La questione ambientale diventa così paradigmatica della nuova politica cosmopolita. A condizione però che includa un nuovo elemento, quello dell’equità transnazionale ed intergenerazionale. In altre parole della giustizia ecologica. Come specifica in uno dei suoi rapporti il Wuppertal Institute ("Per un futuro equo, conflitti sulle risorse e giustizia globale" a cura di Wolfgang Sachs) "la prima giustizia ecologica riguarda la biosfera, la seconda, intergenerazionale focalizza l’attenzione sul rapporto tra chi vive adesso e le generazioni future. Estende il principio dell’equità sull’asse temporale. Ciononostante, questi concetti mostrano una lacuna, non prendono in considerazione le istituzioni create dagli uomini e le loro interrelazioni. E’ quindi urgente mettere in discussione il modello di benessere della modernità industriale". Una sfida ulteriore per il movimento pacifista, che attraverso questa chiave di analisi può costruire alleanze forti con i movimenti che si occupano di giustizia climatica ed ambientale per elaborare un modello di prevenzione nonviolenta dei conflitti e di “rappacificazione” con il pianeta e con chi lo abita.

da Copenhagen a Cancun, lo stretto cammino della giustizia climatica

Dal 9 all’11 aprile prossimo si riuniranno a Bonn i gruppi di lavoro ufficiali che dovranno riprendere le fila del negoziato sui mutamenti climatici, dopo la debacle di Copenhagen. Un compito complesso, che richiederà una forte presa di coscienza dell’urgenza della situazione. Ciononostante, le premesse non sembrano autorizzare un grande ottimismo. Già di recente nella comunicazione sul tema dei negoziati climatici, la Commissione Europea ha dato ad intendere che non si prevede un risultato definitivo nella riunione della Conferenza delle Parti che si terrà a Novembre a Cancún in Messico e che un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni sarà possibile solo in occasione della COP17 che si terrà nel 2011 in Sudafrica.
Che anche nelle Nazioni Unite l’aria sia pesante lo dimostra un recente scontro a distanza tra il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e l’inviata speciale dell’ONU sul clima , l’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland che aveva ipotizzato la necessità di procedere per negoziati separati rispetto alle Nazioni Unite. Per meglio comprendere la posta in gioco nei prossimi mesi vale la pena di ripercorrere le tappe che hanno portato al flop di Copenhagen. Che la COP15 non potesse sortire un risultato di rilievo era ben chiaro a tutti coloro che nel corso del 2009 avevano avuto occasione di seguire i negoziati e le trattative. Già a giugno la decisione del segretario della Convenzione Quadro sui Mutamenti Climatici (UNFCCC) Yvo de Boer, ora dimissionario, di aggiungere alla già densa agenda di appuntamenti altre due date lasciava presupporre che le posizioni dei paesi fossero molto distanti e che difficilmente si sarebbe potuto giungere ad un accordo legalmente vincolante sulle riduzioni delle emissioni di gas serra. Insomma la partita già di per sé complessa era avviata a concludersi in maniera deludente. Per meglio comprenderne la portata è opportuno riassumere quali erano e sono tuttora i temi più controversi. Il primo riguarda il protocollo di Kyoto sulle riduzione delle emissioni di gas serra, e del seguito da dare agli impegni presi dai paesi firmatari dal 2012 in poi. Impegni in buona parte disattesi dai paesi industrializzati e sui quali paesi in via di sviluppo chiamavano ad una presa di responsabilità chiara, ricordando il debito storico che il ricco Nord del mondo ha accumulato verso il Sud. Oggetto principale del contendere era e sarà l'impegno a contenere le emissioni future ad un livello tale da limitare l'aumento della temperatura. Le cifre in questo caso sono cruciali: la differenza di mezzo grado (da 2 a 1,5 gradi) potrebbe significare la scomparsa di intere nazioni, quali quelle insulari del Pacifico. Il secondo blocco di negoziato riguarda le iniziative da intraprendere nell'ambito di un nuovo accordo vincolante sul clima. I negoziati si sono sviluppati attorno alla cosiddetta “visione comune” ovvero i valori ed i principi fondanti dell'azione della comunità internazionale per affrontare l'emergenza climatica e sostenere modelli economici e produttivi a basso contenuto di carbonio nonché i programmi di adattamento, mitigazione e trasferimento di tecnologie pulite. Principale oggetto del contendere è l'ammontare delle risorse finanziarie, con i paesi in via di sviluppo che chiedono almeno 100 miliardi di dollari l'anno da destinare a programmi di adattamento e mitigazione dei mutamenti climatici, e l'assicurazione di accesso a tecnologie pulite.. Senza un impegno chiaro di riduzione delle emissioni dei paesi ricchi ed un impegno altrettanto chiaro in termini di risorse finanziarie, ogni accordo sarebbe risultato quindi inaccettabile da parte dei paesi in via di sviluppo. A metà del 2009 era evidente che la ritrosia degli Stati Uniti di accettare impegni vincolanti per ridurre le emissioni di gas serra, l'irrigidimento dei paesi in via di sviluppo nel sostenere la rilevanza e la centralità del protocollo di Kyoto, piuttosto che un suo progressivo indebolimento mirato a soddisfare le richieste di Washington, e l' assoluta assenza dell'Unione Europea avrebbero creato le premesse per un esito di basso profilo a Copenhagen. L’ “Accordo di Copenhagen” venne concluso senza il consenso di tutti i governi, e quindi senza essere ratificato come risultato ufficiale della Conferenza. Tra l’altro il documento non contiene impegni vincolanti per la riduzione delle emissioni, ma solo una serie di impegni volontari da verificare in corso d’opera, né proposte chiare sul come reperire le risorse finanziarie necessarie per le politiche climatiche senza ricorrere ai mercati finanziari o “riciclare” i già scarsi fondi per la lotta alla povertà. Per provare a trovare una soluzione al problema delle risorse finanziarie, nel marzo di quest’anno Ban Ki Moon ha istituito un gruppo di lavoro ad hoc con a capo il primo ministro inglese Gordon Brown ed il presidente etiope Meles Zenawi. A prescindere dal contenuti già deludenti del negoziato alla COP15 , il rischio attuale è che la sede delle Nazioni Unite venga gradualmente abbandonata per negoziati paralleli, un rischio reso ancor più evidente dalla polemica tra Ban Ki Moon e la Brundtland. Non a caso subito dopo Copenhagen si sono susseguite le polemiche sull'eccessiva complessità delle regole delle Nazioni Unite che striderebbero con l'urgenza di prendere misure immediate per salvare il Pianeta. Alla luce della scarsa volontà politica della grande maggioranza dei paesi sviluppati di restituire il proprio debito ecologico accumulato nei confronti del resto dell'umanità tali argomentazioni appaiono del tutto pretestuose. Ciononostante gli Stati Uniti hanno ribadito la loro intenzione di considerare l'Accordo di Copenhagen come l'unica base sulla quale continuare il negoziato, suscitando la ferma protesta dei paesi in via di sviluppo. La strada verso la conferenza che si terrà a Cancun, Messico a fine novembre è quindi tutta in salita. Tra le varie ipotesi in campo quella di procedere per parti separate e giungere ad un accordo su temi meno critici per poi concentrarsi su quelli più complessi quali appunto quello relativo alle riduzioni delle emissioni di gas serra. Per questo parallelamente al negoziato ufficiale si stanno svolgendo altri incontri informali, da quello tenutosi in Messico a metà marzo a quello programmato a Maggio dalla Cancelliera Angela Merkel. Per suo conto il governo boliviano ha convocato una conferenza dei popoli sui diritti della madre terra e la giustizia climatica che si terrà a Cochabamba dal 19 al 2 aprile prossimi al fine di contribuire a rilanciare l’iniziativa globale dei movimenti sociali sui temi della giustizia climatica. Nelle intenzioni dei partecipanti la Conferenza dovrebbe produrre un piano di lavoro ed una piattaforma comune su debito ecologico, diritti della Madre Terra, dei popoli indigeni e dei rifugiati climatici proponendo tra l’altro la costituzione di un tribunale internazionale sui crimini climatici. Altri incontri si stanno tenendo su temi specifici quali la tutela delle foreste, il cosiddetto “Reduced Emissions from Deforestation and Degradation” (REDD), Una prima riunione su REDD si è tenuta a Parigi a marzo, a porte chiuse e senza la partecipazione dei rappresentanti indigeni, per avviare un partenariato per le foreste che verrebbe siglato ad Oslo poco prima della riunione della Conferenza sui Mutamenti Climatici prevista per fine maggio a Bonn. Nel dopo Copenhagen, l'unico programma che sembra procedere è proprio quello relativo alla protezione delle foreste tropicali per il quale a Copenhagen sono stati annunciati impegni per 3,5 miliardi di dollari che potrebbero arrivare a 8 miliardi. L’idea è quella di dare soldi ai paesi tropicali per proteggere le foreste, bloccare la deforestazione, e assicurare che le stesse possano assorbire gas serra. L'uovo di colombo per quei paesi che vogliono continuare a bruciare petrolio e carbone, una minaccia possibile per i milioni di indigeni che vivono nelle foreste tropicali e che chiedono come condizione il rispetto dei propri diritti fondamentali. Un tema, quello dei diritti umani e del clima, che ha lambito il negoziato ufficiale ma che finora non è riuscito ad imprimere una svolta “culturale” e politica in un negoziato ancora troppo centrato sui numeri e sulla scienza e poco sulla giustizia e sull'equità.
pubblicato sui siti di Sinistra, Ecologia e Libertà, marzo 2010
e European Alternatives

I pilastri della nuova politica

Provare a tracciare un cammino che attraversi i vari processi che si prefiggono nel nostro paese l’obiettivo di trasformare la politica è cosa ardua, ma non impossibile. Indubbiamente l’onda lunga dei movimenti , tanto teorizzata e poi praticata, sta attaversando un periodo che a suo tempo definivamo carsico, senza essere in grado allora di coglierne le caratteristiche. Lo stato di fatica che attraversa il processo dei Forum Sociali , è forse risultato di diverse aspettative che in quei processi si sono riposte. Indubbiamente in Italia, come nel resto d’Europa, tali movimenti sociali riescono in parte a riemergere su questioni specifiche e puntuali, quali il contrasto ai processi di privatizzazione dell’acqua, o i mutamenti climatici. Per delineare le potenzialità di un periodo di crisi forte della politica - non solo istituzionale - di sinistra, e che può sembrare anche propria della sinistra diffusa e sociale, si dovrà partire però con un atto di autocritica. Interrogarsi – ad esempio - sulle ragioni della contemporaneità tra crisi della politica di sinistra e della sua scomparsa dalla scena istituzionale, e l’ innegabile difficoltà della “società civile” nel proporre e praticare processi e progetti nuovi, capaci di incidere profondamente e riattivare l’impegno diffuso per un altro mondo possibile. Sarà cioé necessario chiedersi se l’incapacità della “politica” istituzionale di fornire le giuste risposte, non sia anche riconducibile al fatto che tali domande venivano poste con modalità che non hanno sortito effetti, non solo sull’obiettivo prefisso, ma anche sulla costruzione di nuove pratiche. Il rapporto tra cosidetta società civile e politica istituzionale è stato in molte istanze impostato come rapporto verticale e non orizzontale . Questo vale non solo per la “politica istituzionale” che troppo spesso ha preso ad “icona” le istanze più importanti dei movimenti e della società civile, ma anche per questi ultimi soggetti che spesso hanno preferito rapportarsi a quel livello della politica solo come luogo di ricaduta dei propri interessi o rivendicazioni. La crisi contemporanea - ed evidente - della sinistra “politica” e quella - forse apparente - delle politiche di sinistra diffusa ci interroga quindi sul principio e la portata della rivendicazione di autonomia del sociale dalla politica, e del perché tale autonomia non abbia sortito l’effetto di trasformare – a parte alcune eccezioni - le forme e le pratiche di rappresentanza e partecipazione a livello più alto . Facciamo un passo in avanti. Realtà vicine all’economia solidale oggi cercano di svolgere un percorso di approfondimento “teorico” sulle buone pratiche di decrescita, indispensabile per irrobustire ipotesi di cambiamento dei modelli produttivi e di consumo. Il vero problema è che ciò non basta. E non solo perché esistono già le cosiddette buone pratiche, che insistono sui cosiddetti “territori”, ma perché mentre ci si accinge a studiare i modelli teorici di una società perfetta, nel mondo esterno, dove si sviluppano e si consumano conflitti sociali, si soffre un processo degenerativo della democrazia che richiede uno sforzo collettivo di resistenza, disobbedienza, e creatività per lasciare aperti e difendere spazi minimi di agibilità e di diritto essenziali per l’opera futura di ricostruzione. Ci sono poi coloro che continuano ad alimentare vertenze urgenti e necessarie, quali i comitati contro le varie nocività, il nucleare, la privatizzazione dei beni comuni. Sono processi importanti, che possono contribuire a creare una rete di realtà e soggetti in grado di ricostruire un tessuto connettivo, a rete, su tematiche ed approcci che rivendicano la democrazia diretta, i diritti fondamentali. Questi processi di “democrazia a kilometro zero”, assieme alle mobilitazioni delle organizzazioni dei migranti , aiutano a costruire un terzo pilastro, quello che in politichese si direbbe il passaggio dalla democrazia degli “stakeholder” a quella dei “rightsholder”. Ovvero il passaggio dai processi tradizionali, propri della democrazia liberale, nei quali la società civile veniva collocata tra le rappresentanze dei vari interessi in causa, che lo stato avrebbe poi contribuito a mediare, ai processi di autorappresentazione e rivendicazione di soggetti portatori di diritti, propri di una democrazia participativa e radicale. Il problema in questo caso è quello di spingersi oltre per contribuire alla costruzione di un possibile progetto di società, un programma che sia politico in questo senso. C’è poi chi trae dalle esperienze d’oltreoceano, in quel continente latinamericano in continuo fermento, l’ispirazione per rinnovare la politica. Quello che i movimenti latinoamericani ci insegnano è che oltre al riferimento etico “buen vivir”, tre sono le ipotesi politiche praticabili: o prendere il potere, attraverso gli strumenti tradizionali di rappresentanza, e poi esercitarlo in maniera più o meno innovativa, decidere di non prendere il potere ma di esercitarlo non tanto in quanto potere ma in quanto “potenza” che deriva dalla propria soggettività, storia e cosmología, (è questo il caso di molti movimenti indigeni e sociali) o rapportarsi con il potere e con la politica istituzionale in una modalità a geometría variabile, costruendo cioé progetti comuni, ma non esitando ad aprire conflitti per mantenere vivo il percorso di trasformazione sociale. Queste pratiche pur essendo proprie del contesto, delle situazioni e della storia di quei popoli e di quelle terre, rappresentano l’urgenza di rielaborare il concetto di potere, non inteso come “presa della stanza dei bottoni”, ma come opportunità per servire il bene comune. Ne consegue che la democrazia non può essere considerata un processo compiuto ma è sempre in itinere, e si alimenta - anche e soprattutto - della capacità di attivare e praticare conflitti e vertenze. Le rivoluzioni “cittadine” in alcuni paesi dell’America Latina non possono infatti essere confinate alle pratiche di quei governi, ma traggono massimo significato dalle profonde trasformazioni in corso in quelle società come prodotto collaterale rispetto all’ascesa al potere di formazioni politiche “progressiste”. Altri soggetti poi praticano l’autonomia, provando a costruire nel proprio spazio “liberato” un’ipotesi di società possibile, agibile, alternativa. Anche in questo caso questi processi hanno grande potenzialità: oltre alla resistenza, aprono lo spazio alle pratiche “altre”, intessute di teoria e critica radicale di paradigma, ma allo stesso tempo della costruzione di spazi di elaborazione e produzione artistica e culturale. Tali processi ed esperienze testimoniano che arte, politica, e cultura possono essere tre strumenti non separati, ma intrinsecamente connessi in un progetto di trasformazione dell’esistente. C’è poi chi sta provando a costruire partiti o formazioni politiche nuove, essenzialmente su base locale, o regionale, con l’intenzione di poter dare rappresentanza alle varie istanze della “sinistra” sociale. L’idea di poter articolare forme innovative di rappresentanza su base locale, non può prescindere però dalla necessità di riconoscere che oggi l’azione politica - seppur praticata a livello locale e delle nuove municipalità partecipate - necessita di un respiro più ampio, di luoghi di convergenza ed elaborazione che superino i confini geografici ed ideali dei cosiddetti “territori”. E che provino a praticare questa interrelazione tra locale e globale e viceversa che rende obsoleto il concetto stesso di “territorio”. Veniamo all’ultimo punto di analisi in questo rapido excursus analitico sulle forme e le pratiche della “buona” politica. Come detto all’inizio, i partiti “tradizionali” della sinistra sono “scomparsi” dalla scena istituzionale, e soffrono una fase di crisi di proposta, elaborazione e identità. La galassia di sinistra sociale che, nonostante le difficoltà, continua ad esistere ed operare nel paese si riconosce solo in parte nei partiti di sinistra. Una disaffezione che si è espressa in un alto tasso di astensionismo nelle ultime elezioni, e dallo spostamento di parte dei consensi verso altre formazioni politiche in nome del rinnovamento “morale” della politica (si veda ad esempio l’ascesa del “popolo viola”) o della scelta del voto utile. La politica dei partiti della sinistra sconta in buona parte il prezzo di non esser riuscita a cogliere le vere innovazioni che provenivano dalla sinistra sociale e diffusa, e rischia tuttora di ricadere in pratiche che ne hanno causato la quasi totale scomparsa nel nostro paese. Anche su questo sarà necessario che si interroghi chi oggi continua con ostinatezza e grande dedizione a tenere in vita nodi di resistenza e pratiche alternative. La questione centrale sarà di capire se ed a quali condizioni i “partiti” possano essere compagni di strada , o piuttosto siano ostacoli , o peggio ancora soggetti irrilevanti, in questo cammino di ricostruzione della buona politica. Altra tappa nel cammino sarà allora quella di non rifuggire un confronto critico, di merito e nelle pratiche, con i partiti della sinistra, arrivando a contemplare anche l’ipotesi di stringere un patto di lavoro tra varie componenti della sinistra “sociale” e proporlo poi ai partiti della sinistra. Un patto tra soggetti eguali, che riconosca l’eguale dignità ed il desiderio di sperimentare modalità e pratiche nuove intorno a tematiche cruciali. Tra queste il nucleare ed il diritto all’acqua, i diritti dei migranti, GLBQT e di cittadinanza, la giustizia e la povertà nel paese, la costruzione della pace, attraverso il disarmo nucleare ed il sostegno alla resistenza contro la base di Vicenza. A Carta due possibili compiti, quello di continuare nel suo sforzo di riannodare le trame delle sinistre, di quella sociale e diffusa, e di provare a fare altrettanto con i media alternativi, dalle riviste, alle radio, ai blogger, creando cosi uno spazio virtuale - ma anche concreto - di confronto ed elaborazione collettiva.
scritto per la rivista Carta Aprile 2010

www.carta.org

Quale giustizia per i Tamil?

Dopo le elezioni presidenziali tenutesi a marzo, le prossime politiche in Sri Lanka potrebbero riaffermare il dominio del partito del riconfermato leader Rajapaksa, già responsabile assieme all’altro candidato alla presidenza, il generale Fonseka, di gravi crimini contro l’umanità commessi nell'ultimo periodo della guerra che portò all’annientamento delle Tigri del Tamil Eelam, (LTTE) ma con questo anche alla morte di decine di migliaia di civili Tamil. Che la questione Tamil non possa essere relegata a vicenda strettamente attinente agli equilibri regionali, e dalle strategie di controllo di Cina ed India in quello scacchiere delicato, lo dimostra il recente “scontro” diplomatico tra il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ed il governo dello Sri Lanka sostenuto dai paesi del movimento dei non allineati. Il primo ha confermato pubblicamente la sua intenzione di costituire un gruppo di esperti che dovranno indagare sulle violazioni dei diritti umani compiute anche dal governo dello Sri Lanka. A questa proposta i paesi non allineati risposero con una lettera durissima nella quale si intimava a Ban di abbandonare tale proposito, in quanto così facendo le Nazioni Unite avrebbero gravemente violato la sovranità di uno dei suoi stati membri. Quella che segue è un’intervista che spiega le ragioni e le conclusioni di una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata proprio alle responsabilità dei massacri di civili Tamil, tenutasi a Dublino nel gennaio scorso.


www.lettera22.it
http://www.ifpsl.org
www.internazionaleleliobasso.it

http://www.un.org/apps/news/story.asp?NewsID=34102&Cr=sri+lanka&Cr1=



SRI LANKA, VERITA' SUI CRIMINI DI GUERRA 8/2/10


Il tribunale permanente dei popoli si è riunito a gennaio per stabilire le responsabilità del governo di Colombo nel massacro di migliaia di tamil durante gli ultimi atti della guerra civile. Francesco Martone, membro del Tpp, ci spiega le conclusioni dell'indagine.


Junko Terao

Lunedi' 8 Febbraio 2010


Sono passati circa otto mesi dalla fine della guerra civile quasi trentennale tra il governo e i ribelli tamil, ma i modi con cui l’esercito srilankese ha avuto la meglio non sono ancora stati verificati. Per settimane l’esercito ha continuato a sparare e lanciare granate sulla ‘no fire zone’, dove 250mila tamil erano intrappolati insieme alle tigri dell’Ltte (Tigri per la liberazione del tamil Eelam). Per sei oltre mesi, i tamil sfollati sono rimasti rinchiusi nei campi allestiti e controllati dai militari senza potersi muovere né comunicare con l’esterno. Bandite dal nord del paese le organizzazioni umanitarie, cacciati tutti i giornalisti. Il governo non ammette critiche e la comunità internazionale finora non ha fatto nulla. Pochi giorni prima della rielezione di Rajapaksa, il Tribunale permanente dei popoli aveva pubblicato il rapporto della commissione chiamata a verificare i presunti crimini contro l’umanità commessi dal governo e dall’esercito srilankesi nel corso dell’offensiva finale contro le Tigri tamil. Sotto esame anche le presunte responsabilità della comunità internazionale nel fallimento del cessate il fuoco del 2002 tra il governo di Colombo e l’Ltte. Francesco Martone, membro della commissione che si è riunita a Dublino a metà gennaio, ci spiega cosa hanno concluso.
Da dove è partita la vostra indagine?

Abbiamo avuto una richiesta specifica dalla rete di ong Irish forum for peace in Sri Lanka, che ci ha fornito una serie di documentazioni che delineavano possibili crimini di guerra e contro l’umanità che si erano compiuti soprattutto nell’ultimo periodo dell’offensiva finale. Di fatto, l’Ifpsl ci aveva sottoposto due documenti di base: uno che qualificava i possibili crimini contro l’umanità e il secondo che qualificava i possibili crimini contro la pace. L’idea era quella di verificare se era possibile identificare la responsabilità giuridica della comunità internazionale per quanto riguarda la rottura del cessate il fuoco e la scarsa volontà politica di sostenere una soluzione negoziale. Il terzo punto su cui alcuni dei ricorrenti hanno chiesto un giudizio è la possibile esistenza di reati di genocidio.

Su quali elementi vi siete basati?

Abbiamo ascoltato testimonianze di vario tipo: quelle di alcuni rappresentanti dei tamil che vivevano nei campi sfollati nel periodo del conflitto, quelle di cooperanti e volontari, quelle di alcuni militari scandinavi dell’independent monitoring force - creata per controllare la tenuta del cessate il fuoco del 2002 -, che ci hanno raccontato la genesi del post cessate il fuoco. Abbiamo ascoltato anche il parere di analisti esperti di Sri Lanka. Il tutto a porte chiuse e in condizioni di sicurezza perché avevamo ricevuto avvisaglie di possibili minacce.

Cosa avete concluso?

Per quanto riguarda i crimini contro l’umanità ci sono prove evidenti - abbiamo visionato dei video che li provano, quindi non è stato difficile verificarli, anche perchè esistono parametri chiari, sia nel trattato di Roma sia nella convenzione di Ginevra. Per quanto riguarda i crimini contro la pace, a livello giuridico era un po’complicato definire quando o chi avesse compiuto questi crimini. Quello che abbiamo scelto di fare è di indicare una sorta di corresponsabilità diretta della comunità internazionale nella rottura del cessate il fuoco del 2002. Sicuramente una delle concause è stata la decisione dell’Unione europea di iscrivere le organizzazioni tamil, tra cui anche l’Ltte, tra i gruppi terroristici. Una decisione cui l’Ue è giunta soprattutto in seguito alle pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e che da una parte ha compromesso la possibilità dell’Ue di svolgere un ruolo di arbitro imparziale, dall’altra ha dato un’ulteriore autorizzazione al governo di Colombo a perseguire una soluzione militare alla questione tamil e di giustificarla come parte integrante della guerra contro il terrorismo. Poi, abbiamo verificato la corresponsabilità di paesi che hanno fornito armi al governo dello Sri Lanka durante il cessate il fuoco. Ci sono prove evidenti della fornitura di armi da parte di alcuni paesi come India, Israele, Repubblica Ceca, Ucraina e Gran Bretagna, che aveva addestrato alcuni quadri dell’esercito dello Sri Lanka. L’altra corresponsabilità per omissione della comunità internazionale è stata l’impossibilità da parte del consiglio Onu per i diritti umani di arrivare a un impegno per inviare in Sri Lanka una missione o mettere almeno il tema in discussione. Lo stesso vale anche per il Consiglio di sicurezza: il Messico, a suo tempo, aveva chiesto che la discussione sullo Sri Lanka venisse messa all’ordine del giorno ma la Russia si oppose. E anche al consiglio Onu per i diritti umani, secondo le informazioni che abbiamo acquisito, di fatto si creò un fronte unico dei G77 che sostenne lo Sri Lanka dicendo che la faccenda non poteva essere messa all’ordine del giorno perchè sarebbe stato un uso improprio della questione dei diritti umani. La mancanza di iniziativa da parte dell’Onu è stata uno degli elementi che non hanno contribuito a rafforzare la tenuta del cessate il fuoco. Ma anche il mancato intervento durante lo svolgimento dell’ultima azione militare, di fatto, non ha aiutato la causa della popolazione civile.

In base alle testimonianze che ha ascoltato che idea si è fatto della situazione attuale nei campi sfollati dove vivono ancora centomila persone?

La situazione sembra in parte essere migliorata. Almeno gli sfollati possono uscire dai campi, non sono più segregati. Però il problema è capire dove sono state mandate le 150mila persone che non si trovano più nei campi. Ci risulta che siano state mandate in altri luoghi sottoposti comunque a controllo militare. Che fine hanno fatto, poi, le 11mila persone di cui non si ha notizia? Comunque sia non c’è un controllo indipendente: le organizzazioni umanitarie non hanno accesso ai campi e ai luoghi dove si trovano i civili tamil. La situazione nel nord è ancora preoccupante perchè c’è una forte militarizzazione e i programmi di reinsediamento sono gestiti senza la partecipazione delle organizzazioni internazionali né degli stessi tamil.

Cosa raccomandate per risolvere la situazione?

Prima di tutto che siano organizzate missioni di monitoraggio indipendente per le prossime elezioni parlamentari di marzo, e che venga assicurato un dibattito libero e pacifico durante la campagna elettorale. Perchè c’è anche il grande problema degli attacchi alla libertà di stampa: abbiamo parlato con vari giornalisti tamil che cercano di mantenere aperto un canale d’informazione indipendente e che ci hanno raccontato le grandi difficoltà cui vanno incontro per cercare di denunciare la situazione attuale. Tra le raccomandazioni, poi, c’è quella di istituire una commissione d’indagine indipendente e un relatore speciale dell’Onu che facciano luce su quello che è successo e sulle responsabilità di tutte le parti in conflitto.

Adesso che succede? Colombo ha già risposto e rispedito le accuse al mittente gridando al complotto. Ma da parte della comunità internazionale, viste le accuse pesanti mosse contro alcuni paesi in particolare, c’è già stato qualche riscontro?

E’ ancora troppo presto. Adesso dobbiamo decidere che strategia adottare. Invieremo il nostro rapporto agli organismi internazionali competenti, sicuramente al Consiglio per i diritti umani, e si proverà a capire come il consiglio possa farne oggetto di discussione all’ordine del giorno. Più che condanne, il documento contiene delle raccomandazioni. Lo scopo è di produrre qualcosa di concreto e costruttivo per uscire dall’impasse e garantire che la comunità internazionale prenda degli impegni nei confronti dei civili tamil.


Uscito anche su il manifesto