La
notizia pare passata in sordina sui media “mainstream” e per
questo forse provoca in me ancor più rabbia. Qualche giorno si è
verificata una fuoriuscita di almeno 1000 litri di petrolio da una
piattaforma petrolifera fa al largo della costa abruzzese tra Vasto e
Termoli, con grave minaccia agli ecosistemi del contiguo parco marino
di Punta Aderci. Per anni quel mare ha accompagnato le mie memorie di
adolescente, arrivare a Punta Penna pareva quasi un viaggio
interminabile, dalle gialle sabbie di Vasto Marina, lungo la costa,
fianco a fianco alla ferrovia, ed alle rocce. Alle spalle una
campagna di ulivi, eppoi sempre più vicino il bianco faro del porto.
Eppoi la spiaggia di Punta Aderci, dove ricordo i contadini che si
portavano mezza casa al mare, le donne con i piedi nell'acqua. Eppoi
quando più grandicelli, facevamo i frikkettoni, aspettando il calar
del sole. La prima memoria dell'inquinamento e della irresponsabilità
umana risale a quei tempi. Avrò avuto poco più di dieci anni. Erano
giorni nei quali quando entravi in acqua ne uscivi coperto da una
coltre oleosa verdastra e ti dovevi lavare con l'alcol. Qualche amico
di mio padre commentava tra il sardonico e il rassegnato, "sce,
e la SIV c'arrapert le rubinett" La SIV, Società Italiana Vetro
di San Salvo, un colpo nell'occhio quando la vedevi dall'alto della
Loggia Amblingh era allora il mito del progresso. Quella fortuna che
centinaia di vastesi erano andati a cercare in Australia, Germania,
all'Amereca, a lu Canadà. E Punta Penna pareva quasi un'oasi, seppur
minacciata dalle piccole fabbrichette chimiche che sversavano liquami
nauseabondi. Spostavi lo sguardo dalla SIV, e se la giornata era
limpida vedevi pure il Gargano e le Tremiti. E le uniche strane
architetture erano sghimbesci trabocchi lungo la linea della costa,
il pontile che al centro della spiaggia di Vasto Marina pareva quasi
formare uno spartiacque di classe, tra chi si poteva permettere lo
stabilimento e chi poteva solo andare sulla spiaggia libera. Poi con
gli anni iniziarono a comparire all'orizzonte strani castelli
d'acciaio, sempre di più. L'ultima volta all'orizzonte di Punta
Aderci pareva di vedere un castello di luci, con navi che
gironzolavano attorno. Qualche settimana dopo mi sarei recato come
ogni anno da qualche tempo a questa parte ad accompagnare le
delegazioni dei popoli indigeni che seguono i negoziati delle Nazioni
Unite sui Mutamenti Climatici. Per uno strano cortocircuito
spazio-temporale i punti si ricollegano. I negoziati sul clima da
anni stentano a concludersi con risultati di rilievo anche per la
mancanza di volontà politica di sganciarsi definitivamente dalla
dipendenza dai combustibili fossili ed avviare finalmente un piano
globale di conversione ecologica dell'economia e dei cicli
produttivi. Nel contempo grazie anche alle campagne ed iniziative dei
movimenti sociali ed ambientalisti si è andata affermando una nuova
narrazione che combina clima ed energia nei concetti chiave di debito
ecologico e giustizia climatica. Concetti che prescindono da criteri
puramente geografici, giacché in quelli che una volta erano chiamati
il Nord del Mondo esistono ormai tanti nuovi Sud, fatti di
sfruttamento intensivo di risorse scarse, di esternalizzazione dei
costi sociali ed ambientali, di impunità. Mentre apprendo le notizie
provenienti dalla mia terra ripercorro il testo di un libro appena
finito di leggere. É uno splendido reportage giornalistico di Chris
Hedges, corredato da splendide tavole di “graphic journalist” di
Joe Sacco. Il titolo “Days of Destrucion, Days of Revolt”
è un viaggio nelle viscere dell'America, in quei buchi neri del
liberismo, dalle riserve indiane, alla Florida dove lavorano in nero
migliaia di migranti latinos, alla città fantasma di Camden, fino
alle montagne del West Virginia, ormai quasi scomparse sotto la
dinamite per estrarre carbone. C'è però un capitolo che chiude il
tutto, ed è quello della speranza nata a Zuccotti Park con il
movimento occupy. Ecco quando leggiamo queste notizie allora, non
dimentichiamo anche coloro che da tempo resistono a questo scempio,
anche in Abruzzo. Conoscendo le mie ed i miei conterranei, l'amore
che hanno per la loro terra, e la determinazione a difenderla, c'è
da ben sperare. (post scriptum: come dicono i miei amici di Climate
Justice Now!: “ “Keep the oil under the soil, keep the coal
in the hole - lasciate perdere, quel petrolio e quel carbone stanno
bene dove stanno, sottoterra. Lasciateci in pace”)
La
notizia pare passata in sordina sui media “mainstream” e per
questo forse provoca in me ancor più rabbia. Qualche giorno si è
verificata una fuoriuscita di almeno 1000 litri di petrolio da una
piattaforma petrolifera fa al largo della costa abruzzese tra Vasto e
Termoli, con grave minaccia agli ecosistemi del contiguo parco marino
di Punta Aderci. Per anni quel mare ha accompagnato le mie memorie di
adolescente, arrivare a Punta Penna pareva quasi un viaggio
interminabile, dalle gialle sabbie di Vasto Marina, lungo la costa,
fianco a fianco alla ferrovia, ed alle rocce. Alle spalle una
campagna di ulivi, eppoi sempre più vicino il bianco faro del porto.
Eppoi la spiaggia di Punta Aderci, dove ricordo i contadini che si
portavano mezza casa al mare, le donne con i piedi nell'acqua. Eppoi
quando più grandicelli, facevamo i frikkettoni, aspettando il calar
del sole. La prima memoria dell'inquinamento e della irresponsabilità
umana risale a quei tempi. Avrò avuto poco più di dieci anni. Erano
giorni nei quali quando entravi in acqua ne uscivi coperto da una
coltre oleosa verdastra e ti dovevi lavare con l'alcol. Qualche amico
di mio padre commentava tra il sardonico e il rassegnato, "sce,
e la SIV c'arrapert le rubinett" La SIV, Società Italiana Vetro
di San Salvo, un colpo nell'occhio quando la vedevi dall'alto della
Loggia Amblingh era allora il mito del progresso. Quella fortuna che
centinaia di vastesi erano andati a cercare in Australia, Germania,
all'Amereca, a lu Canadà. E Punta Penna pareva quasi un'oasi, seppur
minacciata dalle piccole fabbrichette chimiche che sversavano liquami
nauseabondi. Spostavi lo sguardo dalla SIV, e se la giornata era
limpida vedevi pure il Gargano e le Tremiti. E le uniche strane
architetture erano sghimbesci trabocchi lungo la linea della costa,
il pontile che al centro della spiaggia di Vasto Marina pareva quasi
formare uno spartiacque di classe, tra chi si poteva permettere lo
stabilimento e chi poteva solo andare sulla spiaggia libera. Poi con
gli anni iniziarono a comparire all'orizzonte strani castelli
d'acciaio, sempre di più. L'ultima volta all'orizzonte di Punta
Aderci pareva di vedere un castello di luci, con navi che
gironzolavano attorno. Qualche settimana dopo mi sarei recato come
ogni anno da qualche tempo a questa parte ad accompagnare le
delegazioni dei popoli indigeni che seguono i negoziati delle Nazioni
Unite sui Mutamenti Climatici. Per uno strano cortocircuito
spazio-temporale i punti si ricollegano. I negoziati sul clima da
anni stentano a concludersi con risultati di rilievo anche per la
mancanza di volontà politica di sganciarsi definitivamente dalla
dipendenza dai combustibili fossili ed avviare finalmente un piano
globale di conversione ecologica dell'economia e dei cicli
produttivi. Nel contempo grazie anche alle campagne ed iniziative dei
movimenti sociali ed ambientalisti si è andata affermando una nuova
narrazione che combina clima ed energia nei concetti chiave di debito
ecologico e giustizia climatica. Concetti che prescindono da criteri
puramente geografici, giacché in quelli che una volta erano chiamati
il Nord del Mondo esistono ormai tanti nuovi Sud, fatti di
sfruttamento intensivo di risorse scarse, di esternalizzazione dei
costi sociali ed ambientali, di impunità. Mentre apprendo le notizie
provenienti dalla mia terra ripercorro il testo di un libro appena
finito di leggere. É uno splendido reportage giornalistico di Chris
Hedges, corredato da splendide tavole di “graphic journalist” di
Joe Sacco. Il titolo “Days of Destrucion, Days of Revolt”
è un viaggio nelle viscere dell'America, in quei buchi neri del
liberismo, dalle riserve indiane, alla Florida dove lavorano in nero
migliaia di migranti latinos, alla città fantasma di Camden, fino
alle montagne del West Virginia, ormai quasi scomparse sotto la
dinamite per estrarre carbone. C'è però un capitolo che chiude il
tutto, ed è quello della speranza nata a Zuccotti Park con il
movimento occupy. Ecco quando leggiamo queste notizie allora, non
dimentichiamo anche coloro che da tempo resistono a questo scempio,
anche in Abruzzo. Conoscendo le mie ed i miei conterranei, l'amore
che hanno per la loro terra, e la determinazione a difenderla, c'è
da ben sperare. (post scriptum: come dicono i miei amici di Climate
Justice Now!: “ “Keep the oil under the soil, keep the coal
in the hole - lasciate perdere, quel petrolio e quel carbone stanno
bene dove stanno, sottoterra. Lasciateci in pace”)
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