domenica 18 ottobre 2015

Perché bombardare l'Iraq è una pessima idea

10 ottobre 2015 - www.comune-info.net
Il semi-scoop, poi ridi­men­sio­nato, sull’eventuale uso dei Tor­nado ita­liani di stanza in Kuwait per bom­bar­dare Daesh (Isis) in Iraq sol­leva que­stioni cru­ciali. Cer­ta­mente è impe­ra­tivo richia­mare il governo ai suoi doveri isti­tu­zio­nali di coin­vol­gere il Par­la­mento in deci­sioni più che sen­si­bili per la poli­tica estera del paese.
Ormai è un dato di fatto, certo da con­tra­stare poli­ti­ca­mente, che le deci­sioni di poli­tica estera «hard», ossia sull’uso della forza mili­tare, siano sot­tratte al par­la­mento che si limita ad aval­lare deci­sioni già prese. O a sot­to­stare ad inter­pre­ta­zioni discu­ti­bili sulla legit­ti­mità poli­tica della deci­sione in que­stione: basti pen­sare a come il governo ha deciso sul l’invio di armi ai pesh­merga ira­cheni, e sulla rela­tiva riso­lu­zione delle Com­mis­sioni Esteri e Difesa riu­nite nell’ estate 2014, di avviare l’ esca­la­tion con l’invio di Tor­nado e drone da ricognizione.
C’è certo una que­stione di metodo da stig­ma­tiz­zare, ma soprat­tutto di merito.Bom­bar­dare in Iraq è una pes­sima idea che pre­clu­de­rebbe un’eventuale solu­zione poli­tica spesso evo­cata, ma mai effet­ti­va­mente messa in pra­tica. Soste­nere e asse­con­dare le richie­ste del governo Abadi, nel quale Al Maliki resta vice­pre­si­dente rischie­rebbe di raf­for­zare gli sciiti piut­to­sto che spin­gerli verso un com­pro­messo con i sun­niti, ele­mento cen­trale per un governo inclu­sivo. Anche per­ché que­sto governo poco o nulla ha fatto per ripa­gare quel debito sto­rico di Maliki verso i sun­niti, fatto di minacce, repres­sione e vio­lenza, che ha assi­cu­rato un ter­reno fer­tile per Daesh. Con­tri­buire all’escalation delle ope­ra­zioni della coa­li­zione inter­na­zio­nale con­tro l’Isis in Iraq — dove il con­flitto è interno, a dif­fe­renza della Siria dove il con­flitto è una guerra per pro­cura tra varie potenze vec­chie o aspi­ranti tali — sor­ti­rebbe poi l’effetto per­verso di dere­spon­sa­bi­liz­zare que­gli attori regio­nali, quali Iran, Tur­chia ed Ara­bia Sau­dita, che dovreb­bero deci­dersi a rinun­ciare alle pro­prie aspi­ra­zioni geo­po­li­ti­che e impe­gnarsi a con­tra­stare Daesh con­tri­buendo alla rico­stru­zione di un assetto poli­tico sta­bile nella regione.
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Per quanto riguarda l’Italia, que­sto epi­so­dio pare l’ennesima riprova di man­canza di pro­spet­tiva stra­te­gica. E nel caso dell’Iraq come della Libia o dell’Afghanistan, si sup­pli­sce affi­dan­dosi allo stru­mento mili­tare — oltre che su alleanze discu­ti­bili quali l’asse creato da Mat­teo Renzi con Al-Sisi e Neta­nyahu — scelta che pre­clude la pos­si­bi­lità di pen­sare ad una poli­tica estera «altra», in un con­te­sto reso ancor più intri­cato dall’entrata in gioco della Russia.
Scelta scel­le­rata quella che riguarda il Medio Oriente, che rimanda alla neces­sità di rom­pere il silen­zio sulla tra­ge­dia pale­sti­nese — un popolo senza diritti e sotto occu­pa­zione mili­tare, senza Stato e terra insi­diata e negata dalla stra­te­gia colo­niz­za­trice israe­liana — che si con­suma nel san­gue sotto i nostri occhi (L’occupazione e la sopravvivenza). Per quanto riguarda l’Iraq, è evi­dente che Daesh non potrà essere scon­fitto con le armi (a mag­gior ragione quattro Tor­nado non faranno la dif­fe­renza), ma con una poli­tica di con­te­ni­mento e di rico­stru­zione di una cor­nice di governo che sia inclu­siva dei sun­niti, rin­no­vata e cre­di­bile. Ipo­tesi del tutto remota con que­sto governo a Bagh­dad, al cen­tro di mobi­li­ta­zioni di piazza senza precedenti.
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Che fare allora? Una poli­tica estera di costru­zione attiva della pace dovrebbe fon­darsi su quat­tro pila­stri: diplo­ma­zia, nego­ziato, aiuti e embargo delle armi. Ovvero rilan­cio dell’iniziativa diplo­ma­tica con chi sostiene l’Isis, stop all’invio di armi e de-escalation, soste­gno per un governo inter-religioso e plu­riet­nico in Iraq, che rico­no­sca auto­no­mia ai kurdi e rece­pi­sca le istanze della società civile e dei movi­menti che di recente hanno par­te­ci­pato a Forum Sociale Iracheno.
Eppoi soste­nere Libano e Gior­da­nia oggi in grande dif­fi­coltà nella gestione dell’enorme massa di pro­fu­ghi siriani, raf­for­zando con gli stru­menti dell’intelligence il con­trollo delle fron­tiere locali, non per argi­nare l’esodo dei pro­fu­ghi, ma per pre­ve­nire lo spo­sta­mento delle mili­zie Isis da un tea­tro all’altro, come avviene ancora oggi sulla fron­tiera tra Tur­chia e Rojava.
Ma forse la bou­tade sull’Iraq era solo tale, per son­dare il ter­reno, e capire dove poter cer­care di met­tersi in evi­denza, pro­vare ad essere invi­tati nei tavoli che con­tano. Se così fosse oltre dalla man­canza di pro­spet­tiva stra­te­gica o di un’ipotesi poli­tica di gestione e solu­zione della crisi, la Far­ne­sina e Palazzo Chigi sem­brano essere con­dan­nati all’irrilevanza sugli scac­chieri inter­na­zio­nali, in par­ti­co­lare su quello libico. Un altro dos­sier ancor più deli­cato e urgente dopo l’annuncio fatto a fine man­dato dall’ormai ex-inviato spe­ciale Onu Ber­nar­dino Leon di un fra­gile accordo tra Tobruk e Tri­poli, che apre allar­manti pro­spet­tive per un’avventura mili­tare ita­liana in Libia. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso.

* Membro del Comitato Nazionale di Un ponte per…

Articolo pubblicato anche su il manifesto

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