per Il Manifesto, 7 giugno 2016
Mentre le agenzie battono i proclami
dell’avanzata delle forze “governative” verso il centro di Falluja, “roccaforte”
del DAESH in Iraq, nell’offensiva verso Raqqa e Mosul, e del massacro di civili presi tra due fuochi,
la mente torna ad un passato neanche tanto remoto. Falluja, con le
sue popolazioni prese in ostaggio, prima nella guerra contro Saddam Hussein,
poi nel conflitto tra sciiti-sunniti dell’era Al Maliki, poi nelle mani
sanguinarie del DAESH ed ora chissà. Non è un punto su una carta geografica
militare Falluja, è una città fatta di persone che, sulla loro carne e la loro pelle, scontano da anni il prezzo di uno
scontro di interessi e geopolitici che
trasformeranno ancora l’assetto dell’intera regione. Falluja città martire, con
le sue 36mila case, 9000 negozi, 65 moschee, 60 scuole distrutte dall’offensiva
americana nel 2004. Le migliaia di vittime civili bruciate dal fosforo bianco, “Willy
Pete”, o dal napalm proibito dalle convenzioni internazionali , “Mark
77”. “Mark” e Willy Pete” hanno lasciato tracce indelebili nelle generazioni
future di Falluja, ustioni, malformazioni genetiche, un debito storico
difficile da risarcire. E poi la “liberazione”. Un governo fedele a Washington,
seduto a Baghdad, la rivolta sunnita del 2011-2012, contro il governo sciita di
Al Maliki, reo di discriminazioni e dell’uso strumentale
della legislazione antiterrorismo, di marginalizzazione dei sunniti dalla vita
politica ed economia del paese. Era il 12 dicembre 2012, quando la popolazione
sunnita di Falluja scese in piazza alzando barricate sull’autostrada. In poco
tempo la protesta di allargò a macchia d’olio in tutte le principali città
sunnite, Mosul, Ramadi, eppoi Kirkuk, Tikrit, Abu Ghraib. La risposta di Al
Maliki fu la repressione armata, i proiettili contro i manifestanti
pacifici, cui seguì un’escalation di violenza sullo
sfondo delle operazioni militari contro Al Qaeda. Con il nuovo premier Abadi non è cambiato
molto. Falluja rappresenta così il simbolo della continua mancanza di volontà
politica di costruire una società irachena inclusiva e che possa essere la
stessa per gli iracheni sciiti e sunniti. Un obiettivo non solo militare, ma un banco di prova per l’Iraq del futuro, della
capacità o meno di risolvere non solo la conflittualità tra sunniti e sciiti,
ma anche intersunnita, che ha la sua rappresentazione plastica nelle tensioni
tra Falluja e Ramadi. Sarà dall’assetto politico che verrà, dalla capacità di
“costruire la pace” dal basso, attraverso il dialogo e la convivenza (come si
sta tentando ad esempio nella piana di Niniveh), che si capirà il futuro del paese ed anche dei
prossimi passi nell’offensiva contro DAESH, a partire da Mosul. DAESH non ebbe
grandi difficoltà nel conquistare Falluja e non solo, grazie al crescente senso di distacco ed esclusione di quelle
popolazioni dalle scelte del governo centrale di Baghdad, da cui Falluja dista un’ora
di auto da Falluja ma resta lontana anni luce dai progetti e dalle
preoccupazioni del governo a guida sciita. Al di là delle analisi strategiche e militari, altri
sono pertanto gli aspetti da tenere a mente. Riguardano quelle popolazioni che
continuano a scendere in piazza a Baghdad
e non solo, chiedendo giustizia, democrazia e
partecipazione. Riguardano il presente di Falluja, l’oggi del bilancio nascosto che ogni
conflitto si porta dietro, asimmetrico o convenzionale che sia. Sono drammatiche le parole di Stephen O’Brien,
coordinatore dell’Ufficio di coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni
Unite (OCHA) : 50mila civili, di cui 20mila bambini sono intrappolati nella
città, non sanno come andarsene. Manca loro cibo, acqua, sono presi sotto il
fuoco dei bombardamenti aerei a tappeto o arruolati a forza come scudi umani di
DAESH. Sono solo una parte di quei dieci milioni di iracheni che hanno tuttora
bisogno urgente di aiuti umanitari. E c’è anche l’Iraq di domani, Sarà un paese
nel quale le rivalità tra sciiti e sunniti verranno metabolizzate in un
percorso di riconciliazione nazionale? A leggere le notizie delle ultime ore, e
le analisi più recenti di Chatham House il rischio evidente di un futuro
acuirsi delle tensioni e dei conflitti esiste eccome, e nasce dalla “benedizione”
data dal governo centrale all’operato delle milizie sciite, incluse le
iraniane in azione contro DAESH, letta
come un’ennesima esclusione dei sunniti: “Per
quei sunniti di Falluja che sostengono ISIS, il coinvolgimento delle milizie
sciite li porterà ancora di più nelle mani di ISIS, per quelli che non
sostengono ISIS, l’essere liberati per mano delle milizie sciite significa
essere liberati da un tiranno per sostituirlo con un altro”. Falluja, città
martire. Come Aleppo e non solo.
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