martedì 29 agosto 2017

Le parole che mancano

Le parole hanno bisogno di maturare, di attraversare la mente, l’anima, plasmare pensieri, ripercorrere ricordi, aprire opportunità. Devono stare lì per un po’, acquattate, prima di prender forma, come vibrazioni di un suono, o appese alla punta di un polpastrello. Maggior responsabilità ha chi usa le parole oggi, in quella che viene definita l’era della “post-verità” nella quale tutto ciò che è falso è vero, e tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso, nascosto, come un ospite sgradito. O ignorato. Parole derelitte e marginali, suoni sordi o abitudinari, frenetico ticchettio su una tastiera consunta. E quando alzi gli occhi, sei travolto da un turbinìo di parole, che rievocano ideali antichi, prospettano futuri migliori, gravitano sospese nell’oggi, senza sapere come interpretarli, scandagliarli, per aprire la porta alla speranza. Fatti, non parole, recitava un Jingle pubblicitario di una nota casa di elettrodomestici, nel lontano 1977, quando i fatti erano nutriti dalle parole, dal pensiero critico, dall’agire quotidiano. Già ecco come le parole lasciano il loro alveo e prendono altra forma: quei fatti di allora si traducono – trasposti in un altro livello - nell’atto di raggiungere un nuovo gradino nella scala gerarchica dei consumi. La stessa che altrove in quegli anni si voleva sovvertire con i fatti e gli atti. Sono i fatti che oggi contano, nell’età della post-verità.
Gli atti e i fatti. Atti di insubordinazione come quelli di Cedric, mite contadino francese che va alla sbarra, con dignità, per rivendicare il diritto sacrosanto alla solidarietà umana. Fa pensare come oggi è in quei atti e fatti quotidiani che si misura la nostra capacità di immaginare l’altro, ed altro. Non nelle narrazioni epiche di grandi migrazioni, nei fiumi di parole spese nell’attribuire arbitrariamente significato a ciò che da sempre ha caratterizzato la storia dell’umanità. Cosa spinge migliaia di esseri umani a muoversi? Eppure nell’antichità il wanderlust era privilegio di uomini, e assai poco spesso donne, nobili, colte, i reietti giacevano negli antri nascosti, lontano dal potere e dalla falsa opulenza. Oggi chi si muove con un atto collettivo ci mette di fronte alla prova dei fatti. Sfida frontiere vere o simboliche, viene attraversato dalle stesse. Ma le nostre parole restano sorde, i nostri atti insufficienti, i fatti, quelli che parlano di tombe nel mare, rischiano di essere l’unico elemento che dà significato, e che trasforma quegli esseri umani in vittime fino a prova contraria. In queste ultime settimane ho molto riflettuto su questo, un pensiero che riaffiora ciclicamente, e che blocca la mia parola, e fa esitare le mie dita. Tanto che questa tastiera ora non risponde neanche più tanto a tono alle sollecitazioni tattili.
L’obsolescenza della parola. o forse la presa d’atto che le parole sono finite. Un tarlo che continua a arrovellarmi. Eppure là fuori scorrono fiumi di parole, verbosità varie, retorica spicciola, o altisonante. Senza che ci si interroghi, appesi a quello che eravamo ieri, e incapaci di guardarci come saremo domani. Per questo oggi scrivo di meno, e magari solo per raccontare di cose concrete. Per provare a tenere stretta la relazione tra parole e azione. A chi mi dice, ma il tuo blog non è aggiornato! Non scrivi più? C’è bisogno di gente come te che studia, analizza, scrive. (NdA: Se c’è una cosa che mi manda in bestia è quando mi si chiama “esperto” ). Per questo oggi, e da un po’ ormai, prendo il mio tempo per farle maturare le parole, provando a sbucciarle una ad una della loro spessa coltre di ambiguità o opportunismo. Provare ad arrivare al cuore della parola, quel cuore fatto di atti e fatti. L’atto di cucire collettivamente una tela bianca impregnata di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez, dita che non parlano ma tessono, raccontano la violenza subita da donne aymara in Bolivia, tessono fili di sorellanza con quelle che cadono nella quotidiana sequela del femminicidio. Fatti di generosità , di artigiane indigene che collettivamente mettono la loro conoscenza tradizionale a disposizione per raccontare una tragedia collettiva. Un atto ed un fatto di generosità e insubordinazione alle regole, sangue raffermo, macchioline brune tra ricami sfavillanti, di paillettes e punto-croce. Mentre Teresa Margolles, artista messicana ci raccontava delle sue amiche trans uccise a Ciudad Juarez, e di come lei prova attraverso i suoi atti a definire fatti veri - altro che post-verità! - a Roma si sfilava in piazza per rivendicare un’altra Europa. C’ero stato anche io prima, nello spezzone dei migranti, quello che chiudeva il corteo e che invece rappresenta ciò che può riaprire la possibilità di dar senso alle nostre parole.
Ho sfilato - per poco però forse affetto ormai da una sorta di “fatigue” da manifestazioni di piazza - che spesso mi pare rischino di finire per essere rituali di autoassoluzione – accanto a chi con loro lavora quotidianamente, perché penso che oggi l’altra Europa sia non quella che riempie le nostre parole, ma quella che alza muri. E la vera Europa (oddio forse sto anche io cadendo nella trappola vischiosa delle parole di circostanza!) è quella meticcia? In verità non so neanche cosa sia l’Europa, visto che di un’Europa possibile sembra possano parlare solo uomini e donne, di pelle bianca, di grande cultura o esperienza politica. Bianchi, come bianco era il colore della pelle di chi il giorno dopo al MAXXI condivideva ipotesi di un’Europa possibile. Ad eccezione dell’artista cubana Tania Bruguera che non a caso - ed è stata l’unica a dirlo - ha speso parole per indicare che sul tema dei migranti, dei loro diritti di cittadinanza, si gioca la dignità dell’Europa. L’atto di rivendicare un’altra Europa si scontra così con il fatto che a rivendicarla sia un pezzo di quell’Europa, che io immagino invece non definita, un insieme di culture, storie, vicende, relazioni, storia e mito che si susseguono lungo confini non stabiliti geograficamente.
C’è tanta Asia, tanto Medio Oriente in Europa, parafrasando Edward Said. E non sono solo parole, è un dato di fatto che dovrebbe obbligarci a rivedere le nostre parole, appunto andando al cuore, separando la paglia dal seme. Così non è. Un’attivista algerina ospite in un dibattito promosso nei giorni scorsi da varie anime del movimento pacifista per discutere di Europa e Mediterraneo ad un certo punto chiese ai presenti: “ ma mi spiegate perché da voi in Italia non c’è più la capacità di indignarsi, mobilitarsi contro la guerra?” Parole che evocano atti e fatti. Alle quali non si sa rispondere, e se lo si prova a fare lo si fa con parole di circostanza. Eppure i fatti sono là a dirci che stretti tra le parole di chi condanna ipotetici imperialismi d’antan o di chi teorizza la guerra salvifica ci sono popoli che hanno parola, ai quali la stessa non va “concessa”, popoli che se la prendono ogni giorno con atti di resistenza , fatti straordinari di sopravvivenza. Le nostre parole invece li trasformano in vittime, in oggetti dell’ orrore. Parole dei media, della politica o di chi si azzarda a provare a dare loro rappresentazione, simbolica o meno attraverso linguaggi visuali. Persone alle quali non si offre altra possibilità che quella di diventare corpi morti in una messa in scena di bianche body-bag lungo il Tevere. Bianche body bag, bianche come chi ha immaginato quella performance. Siamo poi così sicuri di non rischiare di finire per contrastare la necropolitica con una sorta di necrofilia? Bianche body bag e un telo bianco impregnato di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez tessuto da donne aymara vittime anch’esse di violenza , un nesso di sorellanza uscito dalla mano e dalla testa di un’ artista messicana, amica intima di trans uccise. Parole che in questo caso riprendono significato nella carne viva, non nella rappresentazione mediatica.
Le parole sono anche ricettacoli di memoria, visto che oggi sono il risultato dell’utilizzo frequente protratto nel tempo e nella storia, Quindi si portano dietro anche un pezzo di memoria. Si trasformano, riflettono memoria. La memoria è una parola che ho ascoltato spesso di recente, in alcune occasioni apparentemente lontane tra loro, ed in una terza nella quale la memoria veniva evocata, riportata a nudo. Il filo parte da una bella rappresentazione teatrale al Teatro India di qualche settimana fa , “Acqua di Colonia” si chiamava, ed era un accorto e accurato excursus nelle parole, nelle immagini della colonia, di una storia italiana che si tende spesso a rimuovere o ignorare. Parole che andavano al cuore del problema. Ossia del mancato, ma necessario, passaggio del fare i conti con il nostro passato coloniale, per provare a ridar senso alle parole. Non a caso gran parte di chi prende il mare proviene da ex-colonie italiane, o transita in una ex-colonia, oggi oggetto del desiderio di Roma e delle principali capitali europee. Eppure nonostante le quattro guerre fatte alla Libia quella presa d’atto tarda ad arrivare, non solo da parte dell’establishment ma anche dal “basso” a parte lodevoli eccezioni principalmente dal mondo accademico. Come ad esempio il convegno tenutosi la scorsa settimana all’Orientale di Napoli, altra trama di quel filo che lega pensiero critico, ricerca accademica, azione. Nelle sale barocche di Palazzo du Vesnil si è parlato tanto e bene di cartografie, memoricidio, confini e storia. Quella storia coloniale della quale non si fanno ancora i conti nelle stanze del potere e spesso anche nelle piazze di chi si mobilita e magari o si innamora delle rivoluzioni altrui o cade nella trappola della necrologio. E non si fanno i conti perché a differenza di altri paesi, qua da noi la decolonizzazione non è stata risultato di movimenti di liberazione, ma della sconfitta nella guerra. Al punto che anche l’Italia repubblicana, quella della Costituzione antifascista per anni cercò di tenersele quelle colonie.
Così in una sorta di riflesso incondizionato continuiamo a parlare di un “ambaradam” come sinonimo di “caos” quando all’Amba Aradam si consumò una delle più grandi stragi fasciste del periodo delle colonie. Dettaglio forse sfuggito al Comune di Roma che chiamerà una delle stazioni della nuova metro proprio Amba Aradam dalla strada omonima. Altrettanto interessante una lecture sulla correlazione tra mito fondativo della colonia nostrana, quel mito degli “italiani brava gente” che portano civiltà e progresso, scienza e conoscenza (ieri ed oggi eh, oggi magari con una grande diga o imprese ingegneristiche di alto pregio) e quello dei coloni sionisti che vanno a fertilizzare la terra promessa. Chissà come questo convegno è sfuggito all’attento sguardo censore di qualche solerte impiegato d’ambasciata del governo di Tel Aviv che di recente spesso è volentieri si è adoperata per togliere diritto di parola a chi criticasse le politiche del governo israeliano. Togliere la parola, in ossequi al principio della nondiscriminazione, un controsenso che la dice lunga sullo svuotamento delle parole. Restano gli atti ed i fatti: atti di repressione del diritto alla libertà di espressione e i fatti. Quelli del memoricidio sistematico praticato contro il popolo palestinese, anche attraverso la ricostruzione delle parole e della storia.
Quando si distrugge o si ignora la memoria si uccide la politica. Questa mi è parsa anche la traccia ricorrente dell’opera dell’artista franco-algerino Kader Attia, “Reflecting memories” , nella quale l’artista affronta nuovamente il tema della ricostruzione, della riparazione, di ferite di guerra come di memoria omessa, più o meno colpevolmente rimossa. Lo fa attraverso la rappresentazione simbolica dell’arto fantasma, il “phantom limb” fenomeno che in medicina sta a raccontare la sensazione di avere ancora un arto invece amputato. Sembra che hai due gambe o due braccia ma in realtà una è il riflesso della memoria di quell’arto che vorresti ancora attaccato. E’ la rimozione del dolore, o del passato, personale, o storico, politico o emozionale. Che magari riesci in parte a risarcire ma che resta nel profondo. C’è molta politica nell’arte di Attia, che con mano sapiente e delicata ha saputo rappresentare il dramma dei “desaparecidos” nel Mediterraneo ed ora lavora assieme a tanti artisti ed attivisti alla proposta di una “costituente migrante” , al tentativo di proporre i migranti come un popolo, una comunità di destino con i suoi diritti sacrosanti, in quanto soggetti e non oggetti di rappresentazione, carità o soccorso, di disputa politica, di studio o di lucro.
Tutte queste parole per dire che per poter provare a cogliere il senso del nostro agire politico, oggi dovremmo “disimparare il nostro privilegio” come ebbe a dire una grande studiosa postcoloniale, Gayatri Chakravorty Spivak in una splendida intervista a Il Manifesto di quasi un anno fa. Lei dice: “Credo sia fondamentale focalizzarsi sui privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a disapprenderli è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e “to use them”:vedere ed usare il privilegio i maniera funzionale, per volgersi a nuove pratiche di apprendimento e comunicazione”. Insomma per la Spivak disapprendere il privilegio deve trasformarsi in “imparare ad imparare dal basso”, e considerare tale disapprendimento come una perdita. Noi in realtà abbiamo perso qualcosa ma continuiamo a pensare che sia lì. Finché non ce ne renderemo conto … le parole continueranno a narrare di quell’arto che non c’è, l’arto fantasma di Kader Attia, ignorando ciò che fa o potrebbe fare l’arto che c’è.

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