Si dice, pare, riprendendo una categoria cara ad Antonio
Gramsci, che stiamo vivendo in una sorta di interregno, una situazione liminale
nella quale sai quel che lasci, ma non ancora si materializza dinnanzi ai
nostri occhi il futuro prossimo. Una fase fluida, di rimescolamento, di
sperimentazione forse, piena di ipotesi, potenzialità e rischi. Una fase nella
quale chiunque può sentirsi legittimato a osare, nel bene e nel male, a
proporre e saggiare ipotesi per il futuro. C’è chi osa disobbedendo alla legge
per aiutare un proprio simile, e così facendo sposta in alto l’assicella della
giustizia, invocando il diritto alla giustizia umana, rispetto a quella dello
stato, che inesorabile interviene condannando o stigmatizzando quella condotta
in quanto illegale o criminale. C’è chi osa, cercando, saggiando il terreno,
provando a spostare quell’assicella in basso, svuotando man mano categorie di
ieri, quella dei diritti umani ad esempio, reintepretandola a proprio uso e
consumo. La storia recente del nostro paese è fatta di questi tentativi, che sbaglieremmo
a definire solo episodici, giacché denotano il rischio di una definitiva, e
quindi drammatica, involuzione politica e culturale, i cui prodromi sono già
assai evidenti. Episodi di repressione, di diniego di diritti, di
criminalizzazione del mondo della solidarietà, di compressione temporanea o
prolungata di spazi di agibilità civica e sociale. Su tutto ciò un discorso pubbico
fatto di ostilità verso l’altro, di ossessione securitaria ed identitaria. A
Piazza Indipendenza è andato in scena un tentativo, come tanti altri, di
saggiare la fragilità o meno di quella linea rossa che demarca il terreno di
agibilità, di esercizio dei diritti di cittadinanza, di libertà. E come tutti i
tentativi, ad un certo punto, scagliata la pietra, si tenta di nascondere la
mano, o si corre ai ripari, offrendo una soluzione fino allora impensata, come
quella logica di destinare beni immobili sottratti alla mafia a chi non ha casa.
Bene, ben venga una possibile soluzione
alla questione del diritto all’abitare, ma non si perda di vista il contesto
generale nel quale quell’episodio si è verificato. Giacché altri potrebbero
verificarsi, nella fase fluida dell’interregno.
Per questo oggi come non mai spetta anche a noi porre i
termini della questione, e provare a spostare l’assicella ancor più in alto,
cercando anche noi di “saggiare” nuovi approcci ed elaborare nuove categorie.
Questo pensiero mi attraversa la mente da tempo ormai, dopo la constatazione
dell’obsolescenza delle parole, alla quale si deve rispondere con atti e fatti.
Ma forse questo davvero non basta, come non basta solo mobilitarsi. Forse
davvero dobbiamo tornare alle parole, ridar loro senso, giacché è dall’uso
della parola e delle parole che si produce oggi un brodo di coltura dell’odio, della
xenofobia, del rigetto dell’altro. Ed allora, si provi a farlo, iniziando con
il decostruire le categorie per ridar loro significato. Prendendo a spunto il
caso di Piazza Indipendenza ad esempio, e partendo dalla questione della differenza
tra diritto alla casa e diritto all’abitare. Due categorie a prima vista simili,
ma nella pratica assai differenti, giacché il diritto alla casa non prende in
considerazione il fatto che un essere umano non solo riempie le pareti di un
immobile, ma abita un contesto sociale, economico, politico, culturale nel
quale tale “luogo” dell’abitare è collocato. E sradicare quella persona o
quella famiglia da quel contesto, è eguale a quel che si fa nei paesi in via di
sviluppo quando per costruire una diga ad esempio, si obbligano comunità a
lasciare i propri villaggi, per abitazioni costruite ad arte altrove,
decomponendo così il nesso tra persona e luogo, e disarticolando reti sociali e
di comunità.
Il diritto all’abitare come diritto umano fondamentale,
ed in quanto tale indivisibile, non separabile da altri diritti umani quindi,
un diritto che - come sottolinea la relatrice speciale ONU sul diritto umano
all’abitare - deve prendere priorità rispetto ai diritti del mercato e dell’impresa.
Un diritto umano indivisibile, come tutti i diritti umani. Ed allora proprio
prendendo questo come tema, spostiamo ancora più in alto l’assicella.
Nel vertice di Parigi dei giorni scorsi, si è riaffermata
la determinazione a distinguere i rifugiati dai migranti economici e non caso. Una
distinzione che già a suo tempo Annah Arendt respinse in uno suo splendido
scritto sul tema. “Ci chiamano rifugiati, ma a noi piace chiamarci “nuovi
arrivati” o “immigranti” scrisse in apertura, Questa distinzione è anch’essa
segno di un approccio coloniale, nel quale chi ha il potere, di dare fondi, di
chiudere frontiere, di decidere chi entra e chi esce, si prende anche la briga
di spacchettare quei diritti umani fondamentali. Come se la violazione
protratta di diritti quali quello al cibo, alla salute, alla casa, che soffrono
milioni di uomini e donne d’Africa non fosse parimenti tragica della violazione
dei diritti civili. Come se questa non fosse anche risultato indotto delle
politiche economiche, commerciali, di investimento e di aiuto allo sviluppo dell’Europa
e dei suoi stati membri. O solo la prova provata del loro fallimento.
Viene da pensare quindi molto alla questione dei diritti umani, se cioè nello spazio che intercorre tra l’obsolescenza del termine, e la sua negazione, la sua riaffermazione o uso strumentale come strumento di dominio, esista un’ipotesi culturale, politica e filosofica che possa ridargli senso. O forse no? A suo tempo Giorgio Agamben affermò la necessità di andare oltre i diritti umani, “Beyond human rights”, nel trattare il tema delle migrazioni. Giacché la categoria stessa di diritti umani è incardinata nella centralità dello stato-nazione, nella sovranità nazionale, che oggi si vorrebbe riproporre a destra e manca come soluzione ai grandi mali dell’umanità.
Agamben ci dice che la novità rappresentata dal fatto che ampi settori di umanità oggi non sono più rappresentabili all’interno del concetto di stato-nazione, crea una condizione nella quale gli stessi fondamenti dello stato-nazione vengono messi in discussione. E che “il rifugiato, una figura apparentemente marginale, disarticola la vecchia trinità tra stato-nazione-territorio, e quindi merita di essere considerato la figura centrale nella nostra storia politica”. Figura centrale della nostra storia politica, la nostra storia politica. (Non solo un’emergenza di cui tener conto per essere “politicamente corretti”, ma la figura “centrale”. Lo abbiano bene a mente coloro che si stano ingegnando per provare a proporre un’ipotesi plausibile a sinistra). Pertanto, “il concetto di rifugiato va distinto dal concetto di “diritti umani” ed “il diritto di asilo non andrà più considerato la categoria concettuale nella quale inscrivere il fenomeno dei rifugiati. (…) il rifugiato dovrebbe essere considerato per quello che è , cioè nulla di meno di un concetto limite che mette in crisi i principi dello stato-nazione e apre la via ad un rinnovamento di categorie che non è più rinviabile”.
Rinnovamento di categorie quindi, che dall’altra parte è già in atto, attraverso una rielaborazione delle parole, o la sperimentazione di territori fino ad oggi sconosciuti, e che a questo punto sarà non più rinviabile anche da questa parte, dalla parte nostra, di chi sta dalla parte della giustizia e della dignità, della pace e della solidarietà. Forse questo potrebbe essere uno dei risultati più importanti del nostro sdegno per i fatti di Piazza Indipendenza. In quella piazza, in quelle immagini, abbiamo visto la rappresentazione di quella che Agamben chiama la “nuda vita”, ma anche la potenzialità negata dell’accoglienza, la disarticolazione di un esperimento di “bene comune mobile” come vengono definite oggi quelle pratiche di costruzione di comunità di migranti e rifugiati in zone liminali della città, ad esempio edifici come quello in via Curtatone, che attendevano di essere immessi nel mercato immobiliare dopo in passato di edifici “pubblici”.
Abbiamo anche intravisto l’ulteriore prova dell’urgenza di una profonda “decolonizzazione” del nostro sguardo, e della nostra pratica politica, che passa certo attraverso la riscoperta della storia, nel nostro caso nel nostro passato coloniale nei paesi di origine di quelle persone, Eritrea ed Etiopia ad esempio, E’ paradossale pensare al fatto che in quella piazza intitolata all’indipendenza del nostro paese sono stati picchiati esseri umani costretti a fuggire dalle angherie di chi, Isaias Afewerki, in Eritrea e nel mondo a suo tempo fu considerato eroe dell’indipendenza del suo paese. Ed anche dall’assunzione della nostra “situazione di privilegio”, per “disapprenderla” come ebbe a dire a suo tempo la filosofa post-coloniale Gayatri Chakravorty Spivak. Ricordando anche che - a differenza di altri paesi - dove il passato coloniale fu messo in crisi con atti di rottura e rivolta in loco, insomma dai movimenti di liberazione nazionale, questo non è mai avvenuto nel caso dell’Italia, che perse le proprie colonie solo per aver perso la guerra. E questo fatto ha influito non poco nell’incapacità del nostro paese, della sua politica e la sia cultura, nel rielaborare il proprio passato coloniale, farci i conti, decostruirlo e superarlo. Faremo bene quindi a cogliere quest’occasione per farlo.
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