L’accusa rivolta dal governo di Tobruk all’Italia su un possibile sconfinamento – ritualmente smentito dal ministero della Difesa — in acque territoriali libiche di tre navi partecipanti alla missione navale Euronavfor Med è solo la punta di iceberg di una situazione ad alto rischio. Una congiuntura nella quale il protagonismo «verbale» e non solo nel governo italiano rischia di compromettere le tenui possibilità di riuscita del piano di Bernardino Leon in un quadro nel quale il susseguirsi di episodi di violenza farebbe saltare ogni ipotesi di transizione politica nel paese. L’ormai ex inviato speciale delle Nazioni unite per la Libia è stato di recente sostituito nel suo incarico dal tedesco Martin Kobler, finora inviato speciale Onu per la Repubblica Democratica del Congo.
Vale la pena ricordare che Kobler prese l’incarico in concomitanza con il cambiamento delle regole d’ingaggio del contingente di caschi blu Monusco che da allora hanno un assetto con grande capacità offensive e non solo di difesa. Un uomo quindi che ha esperienza di nuove forme di peacekeeping, non più tradizionali , che contemplano l’uso preventivo di forza letale. Ossia di azioni di guerra.
L’accordo annunciato da Leon qualche settimana or sono, posa su basi fragili, giacché piuttosto che fondarsi sul riconoscimento di due governi come interlocutori legittimi avrebbe dovuto essere imperniato su un governo unitario «oltre» le due fazioni di Tobruk e Tripoli, e su un forte lavoro di dialogo ’orizzontale’ tra gruppi tribali e quelle realtà organizzate sopravvissute alla caduta di Gheddafi e su un accordo sulle questioni relative alla sicurezza ed alla gestione condivisa delle risorse petrolifere e della Banca centrale. Mentre da Tobruk partivano accuse all’Italia — possibilmente foraggiate da Haftar capo militare messosi a capo di una «crociata» anti-islamica che verrebbe estromesso dal futuro assetto di governo — a Tripoli, sede del governo islamista libico della Tripolitania, veniva devastato il cimitero italiano. Uno slancio patriottico dietro il quale potrebbe esserci chi da quell’accordo si sente escluso e che oggi combatte contro le milizie di Haftar.
Già a fine settembre a Benghasi si erano verificati combattimenti tra le milizie di Heftar (Operazione Dignità) e militanti islamici, e proprio la settimana corsa ancora a Benghasi, in un attacco armato, attribuito dal governo di «salvezza nazionale» alle milizie di Heftar, hanno perso la vita alcuni dimostranti che occupavano la piazza Al Keesh per protestare contro il piano di Leon. Pochi giorni prima aerei non identificati bombardavano le postazioni di Daesh a Sirte. Una situazione confusa ad alto rischio e con ricorrenti esplosioni di violenza mentre i parlamentari delle due fazioni contrapposte non hanno ancora votato l’approvazione del piano di Leon. Intanto a livello di Unione Europa si parla nuovamente di sanzioni – probabilmente in tema sarà al centro di un incontro ministeriale a metà novembre.
Fatto sta che il retaggio del passato coloniale riemerge di tanto in tanto. Ed a fargli eco qualche giorno fa le parole dell’Ammiraglio Credendino, fortemente voluto da Roma a capo di Euronavfor Med sull’uso della forza letale da parte delle forze dislocate in mare, e qualche settimana fa la notizia — smentita ovviamente dagli alti comandi della Difesa — di un’incursione di forze speciali italiane che avrebbe portato all’uccisione di un capo-scafista.
Insomma questa la situazione ad altissimo rischio che troverebbe sul campo una forza armata italiana di stabilizzazione. Una situazione di guerra. Eppure di questo si continua a parlare più o meno dietro le quinte, mentre dall’altra parte delle quinte si annuncia la permanenza e l’aumento di effettivi in Afghanistan. Insomma un quadro allarmante, caratterizzato da una assoluta subalternità alle direttive di Washington da una parte, e dall’altra dalla frenesia del premier Renzi di volersi mettere a capo di un’avventura oltremare, dopo essere stato tagliato fuori dalla partita della successione di Leon, ed essersi fatto fautore di un’alleanza che si potrebbe definire assai «spregiudicata» con Bibi Nethanyahu e Fattah al Sissi. Altro che «scatolone di sabbia».
uscito su Il Manifesto, 3 novembre 2015
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