sabato 18 dicembre 2010

Il difficile futuro dopo Cancun

Un fallimento annunciato, Copenhagen II, un passo verso la giusta direzione, una scialuppa di salvataggio per un multilateralismo alla deriva. Mai come stavolta tentare di fornire una valutazione univoca dell’esito della Conferenza di Cancun risulta essere esercizio complesso, viste le differenti tracce di analisi possibili. Che il risultato potesse essere di basso profilo quello era ormai cosa certa. Bastava leggere attentamente il cosiddetto “testo del Presidente” del gruppo di lavoro sulla Cooperazione a largo termine (dedicato a definire le linee di lavoro sui temi dell’adattamento, mitigazione, trasferimento di tecnologie, finanze) per notare come nella selva di verbi utilizzati per definire le decisioni finali, pochi erano i verbi che definivano un qualche tipo di impegno.

Tra questi quello – poi confermato a Cancun – di lanciare definitivamente un programma globale sulla riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste (REDD – Reduced Emissions from Deforestation and Degradation), un fondo verde per il clima, un centro per il trasferimento delle tecnologie, una cornice istituzionale per gestire i programmi di adattamento. Il resto era affidato a quello che i tecnici chiamano “rolling process” un processo in itinere, nel quale si decide di non decidere, e di sostituire a impegni certi , l’opzione di tenere aperti canali di negoziato.

La presidenza messicana aveva infatti optato per una strategia alternativa a quella fino ad allora attuata. Piuttosto che pensare di poter approvare un pacchetto onnicomprensivo d’impegni e di azioni, si era deciso di lavorare sui cosiddetti “building blocks”. Un gioco del Lego nel quale mattoncino per mattoncino si ricostruiva il quadro negoziale e si definivano pezzo per pezzo gli impegni politici e di spesa. Partendo dalla base, dai mattoncini sui quali si era registrato già a Copenhagen una sorta di consenso. Astuzia diplomatica e delicati equilibrismi hanno così caratterizzato la gestione della Conferenza da parte della presidenza messicana. Già a Tianjin la “vulgata” ufficiale indicava in un eventuale fallimento di Cancun il colpo di grazia per un processo multilaterale già messo a dura prova a Copenhagen, grazie alla scellerata gestione della presidenza danese, ed al colpo di mano attuato da Barack Obama ed altri paesi che imposero un accordo non vincolante di fatto contraddicendo le più elementari regole del consenso.

Allora il “Copenhagen Accord” venne “notato” dalla Conferenza delle Parti, non essendo testo ufficiale di negoziato, né condiviso da alcuni paesi quali la Bolivia, e l’Ecuador. Allora l’ALBA sembrava potesse essere un nuovo importante attore nel negoziato globale. Oggi, al conteggio finale del dopo Cancun, la Bolivia risulta essere più isolata che mai. L’Ambasciatore Pablo Solon – a parte qualche manifestazione di sostegno di circostanza fatta dai tradizionali alleati (Nicaragua, Cuba, Ecuador) – è stato lasciato solo, come un Davide contro Golia a reiterare l’inadeguatezza dell’accordo finale, possibile complice di “genocidio ed ecocidio” (così nelle sue parole). Oggi gli “Accordi di Cancun” (“Cancun Agreements”) vengono accettati da tutti, chi più e chi meno, come un minimo comun denominatore necessario per tenere aperto il negoziato multilaterale verso la prossima Conferenza delle Parti di Durban 2011.

Quale sarà lo scenario dei prossimi mesi è difficile prevedere, sicuramente però si possono già intuire quelli che saranno le questioni sulle quali si concentrerà il negoziato. Prima fra tutte quella relativa al supporto al secondo periodo d’ implementazione del Protocollo di Kyoto, protocollo messo a dura prova dal fuoco incrociato di Canada, Giappone Stati Uniti, e per ultimo dalla Russia che aveva annunciato proprio a Cancun la sua decisione di non sottoscrivere il secondo periodo di impegno. Di riflesso l’inattesa apertura di India e Cina pronte ad accettare impegni di riduzione delle emissioni, in cambio di un sostegno al protocollo di Kyoto ha contributo a ridisegnare i rapporti di forza negoziali, dando al gruppo BASIC (Brasile, Cina, Sudafrica e India) un ruolo propulsore, e lasciando gli Stati Uniti all’angolo, stretti tra il rilancio di Cina ed India ed un Congresso a maggioranza repubblicana che non permette strappi in avanti. Se una similitudine si può trovare con il negoziato di Cancun 2003 all’Organizzazione Mondiale del Commercio forse è proprio quella relativa al rafforzamento del ruolo dei paesi BASIC che allora diedero il colpo di grazia al Doha Round ed ora invece una boccata d’ossigeno alla Conferenza sui Mutamenti Climatici.

Il Protocollo di Kyoto resta così in piedi, ma duramente provato: basti leggere le parti relative agli impegni di riduzione delle emissioni accettate a Cancun per capirne il destino. In un gioco d’incastri tra vari documenti, necessario per mantenere un equilibrio tra esigenze dei paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, si è nei fatti ribadito il contenuto dell’Accordo di Copenhagen. Stabilizzazione della crescita di temperatura a 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali (che in molti ritengono comunque letale ad esempio per i piccoli paesi insulari) sottoposta però a revisione nel 2015 nell’ottica di una possibile riduzione a 1,5 gradi. Alcuni osservatori hanno accolto questa decisione con soddisfazione visto che per la prima volta il limite dei 2 gradi verrebbe incluso in un accordo internazionale.

Al posto dei cosiddetti MRV (Monitoring Reporting and Verification) il vero irritante del negoziato degli ultimi mesi, si è sostituito un sistema di verifica “leggero”, “non intrusivo” e “rispettoso della sovranità”. A Cancun si è poi fissato definitivamente il 1990 come l’anno di riferimento per calcolare il livello di riduzione delle emissioni, anche se poi si lascia ampia discrezionalità ai paesi di decidere per una data differente. Il vero bandolo della matassa riguarda il rapporto tra impegni di riduzione e piani di mitigazione nazionali, che – a detta dei paesi in via d’ industrializzazione – rischiano di essere eccessivamente onerosi riguardo alle loro prospettive di crescita. Allora il primo nodo che i negoziati verso Durban dovranno sciogliere è proprio questo che tiene ancorati i destini del protocollo di Kyoto ai piani di mitigazione. Sul protocollo di Kyoto e sulla “forma legale” del nuovo accordo vincolante, la partita è ancora aperta.

Si è esteso di un anno il mandato del gruppo di lavoro dedicato, con l’obiettivo di continuare a discutere sullo strumento da adottare, ossia se proporre un nuovo protocollo, o un’ appendice al vecchio. O se seguire il sistema – nei fatti legittimato a Cancun – del cosiddetto “pledge and review” proposto dagli USA e del quale l’Accordo di Copenhagen è imbevuto: ci impegniamo sulla carta a ridurre le emissioni e di volta in volta facciamo e verifiche del caso. Nessuna sanzione, nessun impegno chiaro. A queste condizioni il Protocollo resterebbe sì in piedi , ma come una “imago sine re”, immagine senza sostanza. Sul tema delle finanze per i programmi sul clima, è stato lanciato definitivamente il Fondo Verde per il Clima, la cui struttura dovrà essere definita da un gruppo di lavoro ad hoc entro la Conferenza di Durban.

Questo fondo dovrà essere sotto l’autorità della Conferenza delle Parti, ma per i primi tre anni affidato alla Banca Mondiale che opererà come amministratore fiduciario. Un colpo al cerchio uno alla botte, per chi voleva la banca mondiale attore centrale dei finanziamenti per il clima e chi invece la voleva fuori. Peccato che ci si scordi di due dettagli non indifferenti: il primo che la Banca Mondiale è l’istituzione pubblica di sviluppo maggiormente coinvolta nel sostegno ai combustibili fossili ed il secondo che il suo ruolo come amministratore fiduciario è risultato essere discutibile e di scarsa efficacia come attestato da alcune valutazioni interne in corso. E di quanti soldi stiamo parlando? A Cancun si riafferma l’impegno a stanziare 30 miliardi di dollari l’anno fino al 2012 e da allora in poi 100 miliardi di dollari, ma dove andare a trovare queste somme è ancora poco chiaro.

Da una parte va rilevato che non si è adottato alcun impegno sul sostegno a meccanismi di mercato per il finanziamento dei programmi di mitigazione, né per la costruzione di un mercato mondiale di permessi di emissione, anche se viene ribadita la centralità dei meccanismi di flessibilità previsti da Kyoto. Dall’altra però nulla è stato deciso sugli impegni di spesa relativi a fondi pubblici , nuovi ed addizionali, e non riciclati dalla cooperazione allo sviluppo, che devono invece essere la principale fonte di sostegno ai programmi di adattamento e mitigazione.

Il rapporto stilato dal gruppo di lavoro ad hoc costituito da Ban Ki Mun identifica poi alcune ipotesi quali una carbon tax globale, o addirittura una possibile tassazione sulle transazioni finanziarie che però non ha avuto grande eco nel negoziato. Certo è che da Cancun parte un segnale chiaro verso il settore privato, che può vedere nella “green economy” e nella transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio un’importante opportunità. A leggere il documento finale di Cancun risulta evidente che tutto il tema dei mutamenti climatici resta solidamente ancorato ad un paradigma economico e di sviluppo che continua a vedere nella crescita economica (“high growth”) il parametro centrale di riferimento. Questo forse è il vero grande limite del negoziato: quello di non prospettare una vera inversione di rotta, un nuovo modello che possa mettere in sinergia ambiente inteso come giustizia ambientale, ed economia intesa come sganciamento progressivo dal falso mito della crescita. Su questo il lavoro da fare è ancora molto soprattutto per creare e irrobustire quella domanda politica dal “basso” che può contribuire a scalfire la fiducia mal riposta nel modello di mercato e di crescita. Lasciare tutti i destini del Pianeta solo ed esclusivamente ad un negoziato internazionale tra stati rischia di legittimare una corsa verso il ribasso, se in questo negoziato le uniche due forze trainanti sono gli interessi nazionali degli stati , o quelli del posizionamento nella governance globale, e l’opportunismo delle imprese.

Perché se da Cancun si è deciso di tenere in vita il processo multilaterale, varrà ora la pena di interrogarsi di quale multilateralismo si stia parlando, giacché il ruolo dei movimenti della società civile, delle municipalità, dei soggetti non statuali altri rispetto agli Stati ne è risultato fortemente eroso. Chi era a Cancun non ha potuto non constatare la grande difficoltà di incidere e seguire le trattative, quasi tutte a porte chiuse, ed anche prendere atto della frammentazione dei movimenti, riuniti in ben 4 coordinamenti ed iniziative differenti che ne hanno certamente diluito la capacità di incidenza politica.

Al di là delle questioni specifiche relative al clima ed al modello energetico, che oggi più di prima devono essere affrontate soprattutto a livello nazionale e locale, Cancun ci lascia quindi un messaggio chiaro riguardo all’urgenza di costruire nuove alleanze, tra movimenti sociali, ed ambientali, piccole e medie imprese dedicate alle energie rinnovabili ed al risparmio energetico, comunità che già applicano metodi di adattamento e mitigazione dei mutamenti climatici, organizzazioni indigene e contadine, amministrazioni locali “virtuose”, sindacati. Senza questa convergenza di soggetti politici, il percorso verso Durban rischia di restare un percorso tra Stati, guidato quindi solo ed esclusivamente dall’urgenza di conciliare un generico interesse nazionale con l’imperativo categorico della crescita economica. E dal quale difficilmente difficilmente potrà derivare una netta inversione di rotta.

Francesco Martone

venerdì 17 dicembre 2010

Tutto o nulla a Cancun

Un anno è passato dal vertice ONU sul Clima di Copenhagen, quando si consumò uno strappo che finora solo in parte è stato possibile ricucire. Complici di tutto ciò furono allora la doppiezza del governo danese, prono agli interessi degli Stati Uniti, il decisionismo di un Barack Obama ancora in testa nei sondaggi di popolarità, il basso profilo della UE, e l’adozione di un accordo non vincolante perseguito con modalità poco inclusive e trasparenti.

Da allora l’irrigidimento delle posizioni di Stati Uniti e Cina ha di fatto condizionato ogni possibile passo in avanti. Ormai da settimane i media internazionali ci preannunciano un risultato di basso profilo, per lo più centrato su misure concrete verso i paesi maggiormente vulnerabili al cambio climatico, riponendo ogni aspettativa per un accordo vincolate sulle riduzioni di emissioni e la stabilizzazione della temperatura globale al 2011 quando i governi si riuniranno a Durban,in Sudafrica.

E così nell’ultimo incontro preparatorio di Tianjin tenutosi ai primi di ottobre è continuato lo scontro tra USA e Cina. La Cina chiede – anche per conto dei G77 – denaro e un impegno chiaro a rispettare i vincoli di Kyoto per i paesi che hanno ratificato quell’accordo, estendendo il regime vincolante anche agli USA.

Washington – a maggior ragione dopo la batosta elettorale subita da Obama alle elezioni di mid-term – si presenterà con un pacchetto di proposte leggerissime, da quelle già lanciate a Copenhagen di una riduzione del 17% delle emissioni dai livelli del 2005 entro il 2020, (in un modello volontario che metterebbe in mora Kyoto) alla richiesta a Cina e G77 di ridurre le emissioni accettando controlli sull’uso dei fondi per il clima.

Ad oggi dei 30 miliardi di dollari annunciati a Copenhagen per il periodo 2010-2012 solo 3 sono stati effettivamente stanziati per programmi di adattamento, e circa 5 per la protezione delle foreste. Per avere un’idea delle proporzioni, si calcola che dal 2012 siano necessari per lo meno100 miliardi di dollari l’anno. Cifre che a fronte delle spese militari globali sembrano quasi irrisorie: solo in Italia per l’acquisto di un centinaio di cacciabombardieri F35 si brucerebbero 29 miliardi di euro mentre la spesa militare globale viaggia intorno al trilione e passa di dollari.

Il dossier “foreste” potrebbe essere l’unico possibile passo in avanti a Cancun. In verità su questo quasi tutti sono d’accordo sul fatto che REDD (Reduced Emissions from Deforestation and Degradation) potrebbe rappresentare la soluzione ideale: pochi impegni di spesa, per sostenere meccanismi di assorbimento dei gas serra, senza necessariamente ridurli nei paesi ricchi, ed in cambio denaro per ripagare i paesi tropicali per le entrate cui dovranno rinunciare per proteggere le loro foreste.

REDD rischia di essere però il topolino partorito dalla montagna, in attesa di tempi migliori verso il prossimo vertice di Durban. Certo è che senza un riconoscimento della centralità della tutela della biodiversità si rischia di sostenere la sostituzione di foreste vergini in piantagioni, magari di biofuel, senza un vincolo sui diritti umani e dei popoli indigeni, si rischia di scatenare una corsa all’oro verde ed alle terre indigene da parte di governi ed imprese.

Mentre grazie ai permessi di emissione generati da REDD i paesi industrializzati e le imprese potranno continuare ad inquinare. Anche REDD potrebbe cadere nella tagliola dei veti incrociati. Fino a qualche settimana fa si ipotizzava che Cancun potesse produrre una serie di decisioni per azioni concrete, incluso quello sulle foreste, struttura del fondo climatico, trasferimento di tecnologie, adattamento e monitoraggio dei programmi di mitigazione.

Ora si propende per un unico documento equilibrato, come da richiesta americana. Tutto o nulla questa è la posta in gioco a Cancun. Il tutto rischia di essere insufficiente, il nulla un duro colpo alla tenuta delle Nazioni Unite e del multilateralismo già duramente messo a dura prova un anno fa nella gelida capitale danese.

martedì 14 dicembre 2010

Foreste banco di prova del negoziato sul clima a Cancun

C’è un tema poco dibattuto nel meeting messicano sulla sorte di centinaia di gruppi indigeni e la protezione delle foreste in cambio di aiuti finanziari dei paesi industrializzati, tra cui l’Italia che ha iniziato a promettere fondi. Il rischio del land grabbing, per espellere comunità indigene e trasformare le foreste in strumenti di produzione di denaro, calpestando diritti e alla tutela degli ecosistemi.

CANCUN – Nel clima di sfiducia che regna sui Negoziati per la riduzioni delle emissioni di Gas Serra della COP16 delle Nazioni Unite a Cancun, c’è un tema poco dibattuto che può decidere delle sorti di centinaia di gruppi indigeni, quello dei cosiddetti programmi REDD (Reduced Emissions from Deforestation and Degradation). Richiesti alcuni anni or sono dalla Coalizione dei Paesi con Foreste Tropicali, in primis Panama, Costa Rica, Guyana, Papua Nuova Guinea, per riattivare un negoziato internazionale in sede ONU sulla protezione delle foreste in cambio di supporto finanziario da parte dei paesi industrializzati, tra cui l’Italia che ha iniziato a promettere fondi. “Questo tipi di negoziati sono però pieni di rischi” – spiega Francesco Martone, della Ong inglese Forest Peoples Programme 1, che da due anni accompagna come consigliere politico le delegazioni indigene ai negoziati sul clima. L’associazione Forest Peoples Programme, lavora in supporto ai popoli indigeni delle foreste tropicali, per il riconoscimento del loro diritto all’autodeterminazione, per difendere i diritti umani e per gli ecosistemi dai quali dipende la loro sopravvivenza.
Un meccanismo rischioso. L’anno scorso a Copenhagen venne lanciato un programma di supporto alle attività di protezione delle foreste REDD, per circa 4 miliardi di dollari; oggi, in Messico si discute di come chiudere gli accordi. Ma quale meccanismo dovrebbero incentivare i REDD? I paesi con foreste tropicali si impegnano da una data da definire a ridurre o fermare la deforestazione, in cambio sarebbero ricompensati con l’accesso a fondi per coprire le mancate rendite delle attività economiche. REDD potrebbe rappresentare un incentivo a deforestare fino alla data fissata per poter poi reclamare un risarcimento più alto e accedere ai fondi per i programmi REDD. “Le Foreste sarebbero considerate come pozzi di carbonio senza dare pieno risalto agli altri valori d’uso e non-uso, biodiversità, servizi ambientali, e questioni relative ai diritti dei popoli indigeni”, racconta Martone. “Il rischio è di scatenare quella che si definisce land grabbing, una corsa all’oro verde espellendo comunità indigene e trasformando le foreste in strumenti di produzione di denaro”.
Il business del carbonio. Si prevede, infatti, che i progetti REDD possano generare crediti di carbonio e quindi aprire le foreste ai mercati di carbonio, permettendo così a imprese che continuano a emettere gas serra di compensare quelle emissioni con l’acquisto di crediti di carbonio. “Un’eventualità che presenta forti dubbi sulla commercializzazione delle foreste che incontra la forte resistenza di movimenti sociali, popoli indigeni e paesi come la Bolivia”, sottolinea Martone. I popoli indigeni riuniti a Cancun hanno elaborato richieste specifiche per i Governi relative non solo a REDD ma al resto dei Negoziati. “Per molti indigeni REDD rappresenta una minaccia, ma anche un’opportunità per aprire uno spazio di discussione con i rispettivi governi, come ad esempio in Indonesia o Paraguay”, continua il delegato di Forest Peoples Programme. “Questo, a condizione che si riconoscano i loro diritti fondamentali, alla terra, alle risorse, all’autodeterminazione, partecipazione e consenso previo informato, ed alla propria conoscenza tradizionale”. Tutti diritti riconosciuti nella Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e riconosciuta recentemente anche dal Canada, paese che assieme agli Stati Uniti non si era ancora espresso in proposito.
La posizione italiana. Tagli alla cooperazione e fondi REDD promessi alla Banca Mondiale. Nel 2009 a Copenhagen nasce il Partenariato ad interim su REDD, al quale hanno aderito 54 paesi, tra cui l’Italia. Nell’ultima Conferenza sulla Biodiversità di Nagoya, il nostro Paese annuncia la decisione di stanziare 100 milioni di dollari alle iniziative internazionali su REDD, inclusi 5 milioni di dollari per un programma gestito dalla Banca Mondiale, il cosiddetto FCPF, Forest Carbon Partnership Facility 2. Ma da dove vengono questi soldi visti i tagli fatti a tutti i fondi per al cooperazione nella Legge Finanziaria? “Non è chiaro, certamente da bilanci del Ministero dell’Ambiente visto che l’annuncio è stato fatto dal Ministro Prestigiacomo”, spiega Francesco Martone. “Certo in tempi di tagli alla cooperazione bilaterale questo impegno finanziario apre diversi interrogativi, anche sulla frammentazione dei fondi di cooperazione internazionale tra Ministero degli Esteri, Ambiente e Economia. Questi fondi serviranno a sostenere programmi di preparazione alle iniziative REDD, ma non è chiaro quali siano le condizioni poste dall’Italia ovvero se si chiederà alla Banca mondiale ed agli altri attori di tutelare i diritti indigeni o la biodiversità o a non ricorrere ai mercati di carbonio. O se questi fondi non serviranno a sostenere indirettamente interessi imprenditoriali e commerciali italiani, nel settore forestale o attraverso l’acquisto di permessi di emissione”.
Declino del negoziato multilaterale. Cancun potrebbe rappresentare un punto di rottura irreversibile del ruolo delle Nazioni Unite sul tema del cambiamento climatico, secondo Martone. La corsa al ribasso per un accordo condiviso pare essere la chiave per tenere tutti al tavolo della trattativa e sperare in una maggiore determinazione nel percorso verso Durban 2011. “L’ambasciatore De Alba, intervenendo alla riunione del Caucus Indigeno, ha fatto capire chiaramente che questa determinazione non verrà certo dai paesi ricchi ma deve essere alimentata dalla società civile e dai movimenti”. Movimenti che però invocano una netta inversione di rotta, verso il riconoscimento del debito ecologico e la giustizia climatica, ed una netta uscita dalla trappola dei combustibili fossili, piuttosto che insistere su soluzioni quali i mercati di carbonio.

Paola Amicucci

Fonte: Repubblica.it