martedì 29 marzo 2016

Amici vicini e lontani




Francesco Martone, il manifesto • 22 Mar 16 

La visita di Barack Obama a Cuba è indubbiamente un atto storico, culmine di un processo di riavvicinamento i cui primi passi vennero fatti ai funerali di Nelson Mandela e poi in sei mesi di trattative segrete, la liberazione di quel che rimaneva dei 5 «patrioti» cubani detenuti negli Usa e del contractor di Usaid Alan Gross, la riapertura delle rappresentanze diplomatiche ed il colloquio tra Raúl Castro ed Obama in occasione dell’Assemblea Onu – mediatore papa Francesco -, l’annuncio di Obama della rimozione di Cuba dalla lista dei paesi «sponsor» del terrorismo.

Seguito da una nutrita schiera di membri del Congresso e di imprenditori Obama, ormai in chiusura di mandato, è arrivato a L’Avana forte degli ultimi sondaggi che vedono un 56% dei cubano-statunitensi a favore della riapertura delle relazioni con Cuba e invece il 36% contro. A dicembre 2014 il sondaggio di Bendixen&Amandi International era di 44 a 48. Stanno cambiando infatti negli Stati uniti le geografie degli schieramenti pro o contro Cuba, ed il principale sostenitore di un disegno di legge contro l’embargo è oggi un repubblicano, Tom Emmer del Minnesota. Chi spinge di più per la riapertura delle relazioni commerciali sono le imprese e tutto ciò dà da pensare. Già in un articolo dell’estate scorsa Foreign Policy In Focus s’interrogava sull’eventuale cambiamento di linea della politica estera americana verso Cuba.

Concludendo che in realtà l’obiettivo finale resta il cambio di regime. In un paese che per decenni ha rappresentato l’esempio per le varie esperienze di sinistra che si sono avvicendate nel continente latinoamericano. Esperienze che oggi per cause congenite o per la «longa manus» di interessi e finanziatori statunitensi sono in grande affanno, se non in crisi conclamata, a fronte di un preoccupante avanzata delle destre. È poco probabile che Obama riconoscerà l’importanza della rivoluzione cubana appellandosi piuttosto all’urgenza di aiutare il «popolo cubano», giacché mai ha ammesso le responsabilità di Washington verso Cuba come ha fatto in altri casi in ossequio alla sua personale «Obama doctrine». Per Washington esistono due strategie, quella di allentare i lacci verso Cuba e di stringere il cappio al Venezuela, tentando di disarticolare i due riferimenti storici delle esperienze del socialismo del XXI secolo. Lo stesso Obama si attirò infatti dure critiche all’indomani dell’annuncio dell’ordine esecutivo che dichiarava il Venezuela un pericolo per la sicurezza nazionale. Eppoi fa riflettere il fatto che dietro i movimenti di piazza che oggi chiedono la destituzione di Dilma Rousseff e ieri manifestavano a Caracas, ci siano vecchie conoscenze dell’establishment conservatore e reazionario americano quali il Cato Institute.

Allora questo viaggio va senza dubbio valutato e letto in filigrana e due possono essere le cartine al tornasole di una vera svolta verso Cuba da parte di Washington, ovvero la rimozione dell’odioso embargo e la restituzione di Guantanamo alla sovranità cubana. Due obiettivi ben al di là del carattere simbolico del gesto. La rimozione totale e definitiva dell’embargo, finalmente aprirà le porte del mondo a Cuba. E Cuba potrà offrire al mondo – come diceva un altro articolo pubblicato su Foreign Policy In Focus – ben di più di sigari o rum, ma grande esperienza nel campo della prevenzione dei disastri naturali, nell’assistenza sanitaria e nelle arti. Forse a questo si arriverà visto il sostegno bipartisan a Washington (anche il Congresso è ormai «in scadenza»), più difficile sarà un atto definitivo di restituzione di Guantanamo a Cuba come richiesto anche di recente dai capi di stato e di governo latinoamericani al vertice della Celac in Ecuador. Anche se Obama poche settimane fa ha presentato al Congresso il piano della Casa Bianca e del Pentagono per la chiusura del carcere nella base americana.

E per Cuba quale sarà la sfida? Tenere dritta la barra e provare a «usare» la chiave della riattivazione delle relazioni commerciali e diplomatiche per aprire una stagione di rafforzamento e rinnovamento dell’esperienza della rivoluzione? Ed in tal caso finirebbe tale sfida per essere quella di «trasformare un processo ulteriore di espropriazione neoliberista, la cosiddetta normalizzazione delle relazioni tra Cuba e Stati uniti, in un appello a far valere una rivoluzione cittadina all’interno della rivoluzione cubana», in poche parole, a «socializzare il socialismo», come ebbe a dire il critico d’arte messicano Cuahtemoc Medina in occasione di una performance mai tenuta dall’artista cubana Tania Bruguera un paio di anni fa?

martedì 15 marzo 2016

Il lato oscuro dello sviluppo made in Italy in Etiopia

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per il Manifesto, 16 marzo 2016 

Il quotidiano “The Reporter” di Addis Abeba riportava qualche giorno fa la notizia del  contratto che verrà firmato  tra l’Ethiopian Electric Power e Salini Impregilo per la diga di Gibe IV in seguito alla recente decisione della  SACE di  finanziare l’opera con 1.5 miliardi di euro.  Qualche ora dopo sarebbe atterrato ad Addis Abeba il Presidente Sergio Mattarella, nella prima visita mai fatta da un presidente della Repubblica  italiano nel paese. Il presidente ha discusso con  le autorità etiopi di terrorismo, cooperazione, lotta alla povertà, migranti, energia e investimenti in una capitale abbellita a festa. Chissà se qualcuno gli avrà raccontato che ad Addis, città in grande espansione,  pochi mesi fa   sono stati massacrati  140 dimostranti  scesi in piazza in solidarietà con le popolazioni Oromo che vivono intorno alla capitale.  Protestavano contro l’Addis Abeba Master Plan che li avrebbe cacciati dalle loro terre. Il Master Plan venne abbandonato, ma a febbraio di quest’anno le forze di sicurezza continuavano a mietere vittime in Oromia: almeno 200 persone uccise e migliaia detenute senza processo. 
Omo ed Oromia – da tempo in fermento contro il governo centrale - sono regioni abitate da popolazioni la cui colpa principale  quella di vivere in terre ambite per progetti di sviluppo, tra cui la diga di Gibe III. Alla vigilia della visita di Mattarella, Survival International, movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, ha comunicato di aver presentato un ricorso contro Salini-Impregilo al punto di contatto italiano dell’OCSE per le imprese multinazionali che dovrebbe vigilare sul rispetto delle linee guida OCSE.  Survival punta il dito sull’impatto che Gibe III avrà sulle popolazioni indigene dell’Omo Valley e sull’esistenza   del Lago Turkana, da cui dipende la sopravvivenza di almeno 300mila indigeni, cui nessuno ha chiesto il consenso previo o concesso le  compensazioni promesse. 
Di recente la questione delle grandi dighe e delle violazioni dei diritti umani è tornata alla ribalta con l’omicidio efferato di Berta Caceres in Honduras, rea di opporsi ad una grande diga nella sua terra inizialmente sostenuta anche dalla cinese Sinohydro, la stessa che è dietro il mega progetto di Gibe III e  Gibe IV. Salini-Impregilo  sta ora terminando la costruzione di una delle dighe più grandi del mondo, la GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam) la cui costruzione avrà un impatto grave sull’approvvigionamento delle acque del Nilo in Egitto. La diga alimentò gravi tensioni tra Etiopia, Egitto e Sudan che portarono alla conclusione di una dichiarazione di principi nel maggio 2015 nella quale i definivano diritti ed obblighi dei tre stati. Salini-Impregilo avrebbe  ottenuto l’appalto senza gara, per un progetto che - per l’alto rischio politico -  nessun finanziatore si è azzardato a sostenere, al punto che il governo etiope dovette emettere bond per raccogliere i fondi necessari. 
L’acqua e la terra d’Etiopia diventano così “commodities”, da immettere nel mercato globale anche a scapito dei diritti delle popolazioni che vivono in quelle terre da tempo immemorabile. Acqua e terra per produrre energia “pulita”.  Come nel caso denunciato nel 2012  da Re:Common, del coinvolgimento di un’impresa italiana, la Fri-EL Green Power nell’espansione di una piantagione di palma da olio nella regione della valle dell’Omo, un caso evidente di “land grabbing” per alimentare di biofuel la centrale termoelettrica di Acerra. Palma da olio per ridurre le emissioni di gas serra, e alimentare la “green economy” o  l’agribusiness.
 Il landgrabbing è un grande affare in Etiopia, paese che soffre l’impatto della siccità (l’ondata in corso è la più grave degli ultimo 30 anni)  e della fame. Si calcola che tra il 1995 ed il 2016 sarà stato trasferito nelle mani di investitori stranieri un totale di 7 milioni di ettari di terre coltivabili. Dal 2010 sono stati  espulsi dalle loro terre almeno un milione e mezzo di  indigeni,  nelle regioni di Gambella, Afar, Somali, Lower Omo, Benishangul-Gumuz.
Questo il lato oscuro della luna. In un paese descritto come un “enfant prodige” della crescita, un alleato essenziale nella lotta al terrorismo, un partner economico di tutto rispetto da corteggiare e riverire, una realtà che se guardata in filigrana rivela una serie di contraddizioni e nervi scoperti, caratteristica prima del paradigma dominante di sviluppo.  Contraddizioni anche targate Made in Italy. Forse per questo il Presidente si sarà guardato bene dal richiamare al rispetto dei diritti umani e del diritto alla terra dei popoli indigeni le autorità etiopi che per bocca del presidente Hailemariam Desalegn hanno invitato calorosamente le imprese italiane ad investire nel paese. “Ci vorrebbero tante Salini in Etiopia” ha detto. 

lunedì 14 marzo 2016

Mattarella in Etiopia, sempre prima gli affari?

Il Presidente Mattarella in visita oggi ad Addis Abeba avrà occasione di sottolineare l'urgenza di rispettare di diritti umani anche in quel paese, come nel caso delle uccisioni torture o sparizioni di membri della comunità Oromo e degli studenti scesi in piazza in solidarietà che si oppongono al furto delle loro terre per l'ampliamento della città di Addis Abeba? O delle decine di contadini uccisi dalle forze di polizia etiopi per aprire la strada a land grabbing e ad investimenti stranieri? O anche qua come per l'Egitto, vale la regola di "business first?". A proposito oggi in un comunicato Survival International informa di aver presentato denuncia contro Impregilo Salini per le violazioni delle linee guida OCSE per le imprese multinazionali in relazione alla diga di Gibe III. Se ciò non bastasse, l'agenzia italiana di credito all'esportazione SACE ( si appresta a sostenere la costruzione della Gibe IV sempre da parte di Impregilo Salini. Un accordo concluso proprio alla vigilia della visita di Mattarella. Di questo anche si dimenticherà di parlare? Per quanto mi riguarda questi silenzi, quelli che riguardano i diritti delle persone ed i diritti umani non sono semplici omissioni ma complicità. E se questo è di per sè già deprecabile, lo è ancor di più nel caso dell'Etiopia, paese e popolo verso i quali abbiamo qualche responsabilità in più visto il passato coloniale.

http://www.voanews.com/content/killing-detention-oromia-human-rights-watch-report/3202181.html

http://europe.newsweek.com/oromo-protests-why-ethiopias-biggest-ethnic-group-demonstrating-430793?rm=eu

https://news.vice.com/article/land-wars-ethiopia-accused-of-massacring-civilians-to-clear-way-for-foreign-farms

http://www.survival.it/popoli/valleomo/gibedam

http://www.infoafrica.it/2016/03/14/verso-accordo-su-costruzione-nuova-diga-idroelettrica/
 

martedì 8 marzo 2016

Neutralità attiva: l'opzione italiana che auspichiamo per la Libia





La cautela espressa dal governo italiano a fronte delle indiscrezioni della stampa su un impegno importante di truppe italiane sul terreno, apre la possibilità di chiedere con forza e subito un ripensamento radicale dell’approccio alla crisi libica che si è andato configurando negli scorsi mesi. Proprio a fronte dell’impasse nella quale il dibattito politico sulla Libia si è avvitato, è possibile ora proporre un’opzione diversa, per prevenire anche il rischio di una precipitazione verso soluzioni “false” improntate sull’uso della forza, al di fuori della legittimità internazionale.
In tale quadro, la prima scelta necessaria sarà quella della de-escalation della logica di guerra e di uso della forza per risolvere la crisi libica, che rischia da una parte di pregiudicare ulteriormente una possibile soluzione politica e negoziale, e dall’altra di rafforzare le posizioni ed il protagonismo delle varie milizie armate e di DAESH (IS).
La crisi libica può essere distinta in tre dinamiche: la prima relativa alla stabilizzazione del paese, la seconda rispetto al contrasto a DAESH, la terza rispetto alla possibile nuova crisi “migratoria”.  Le tre questioni possono e devono essere affrontate e risolte con gli strumenti della diplomazia e della politica, nel rispetto della legalità internazionale e dei diritti fondamentali.
Per quanto riguarda la stabilizzazione ed il perseguimento di un’opzione politica, qualsiasi governo di unità nazionale eterodiretto, oggi, risulterebbe fortemente delegittimato all’interno del paese, visto lo scarso livello di coinvolgimento delle tribù e delle realtà locali. Senza un dialogo dal basso tra i vari attori, senza la convocazione di una “shura” dei leader locali, tribali, o dell'emergente società civile libica. Un governo di comodo di unità nazionale che chiedesse un intervento esterno creerebbe ancor più caos e violenza, dai quali DAESH potrebbe beneficiare.
In questo quadro, l’Italia si trova ora di fronte ad un’impasse: o continuare a sostenere il governo di Tobruk e le milizie di Misrata, o invertire la rotta e sostenere invece il governo di Tripoli, principalmente in chiave di protezione e tutela degli interessi economici dell’ENI. Tra queste opzioni ne resta una terza: quella di essere neutrali rispetto alle due fazioni, e invece controproporre una strategia di costruzione della pace che preveda anzitutto la convocazione di un tavolo che veda riuniti tutti i soggetti politici e sociali libici, le tribù, i governatori locali e quelle strutture sociali ed amministrative e di società civile che dovranno costituire l’ossatura del nuovo assetto di “governo” del paese. 
Neutralità attiva significa in questo caso creare le condizioni per un ruolo terzo di mediazione che prevede l’abbandono di ogni opzione militare, e mantenere misure volte a prevenire il flusso di armi, tra cui l’embargo all’export di armamenti verso la Libia, assieme al sostegno ad attività di peacebuilding, anche attraverso il coinvolgimento delle strutture dedicate delle Nazioni Unite quali la UN Peacebuilding Commission. Questo implicherebbe per il governo italiano la necessità di rivedere radicalmente le strategie militari finora messe a punto, che prevedono ad esempio l’uso di forze speciali per intervenire sotto il comando dell’AISE e del Presidente del Consiglio. Tale condizione di segretezza nell'invio di truppe prefigurerebbe un gravissimo vulnus “legale” e di controllo democratico e collocherebbe il nostro paese nella zona oscura dell’extragiudizialità rispetto al diritto internazionale.
Riteniamo sia invece assai più logico ed opportuno predisporre un approccio di “polizia” rispetto a DAESH dando seguito ed impegnandosi a sostenere le raccomandazioni contenute nell’ultimo rapporto di Ban Ki Mun su DAESH presentato il 29 gennaio scorso. 
Il Segretario Generale elenca una serie di misure da intraprendere sule quali chiediamo un maggior impegno da parte del governo italiano tra cui: contrasto al finanziamento del terrorismo attraverso la collaborazione delle forze di polizia e Interpol, contrasto al reclutamento via internet, prevenzione e interruzione degli spostamenti di combattenti di DAESH attraverso la collaborazione e lo scambio di dati, prevenzione di attacchi terroristici, attraverso la collaborazione delle forze di polizia ed investigative, e l’adozione di misure di prevenzione che siano rispettose dei diritti umani, reintegrazione e riabilitazione dei “foreign fighters” che rientrano in patria

Sul tema della sicurezza, riteniamo essenziale rielaborare questo concetto anche nel caso libico, e quindi passare ad un approccio fondato sulla sicurezza umana, che prevede da una parte misure a garanzia dei diritti umani e dall’altra la protezione delle popolazioni civili, attraverso strumenti di interposizione ed early warning, che potrebbero essere svolti da contingenti civili-militari disarmati, sotto il mandato delle Nazioni Unite o da una missione EUpol di polizia internazionale.
Ultimo ma non da meno, la questione dei migranti e rifugiati. La missione Euronavfor Med inviata dall’Europa con l’obiettivo iniziale di lottare contro i trafficanti di essere umani, rischia di trasformarsi in una missione di guerra di terra, qualora si passasse alla fase tre, che prevede interventi armati sul suolo libico. Chiediamo invece che tale missione venga riconfigurata con mandato ONU e trasformata essenzialmente in missione di salvataggio di supporto a canali umanitari.
Più in generale, pensiamo sia giunto il momento, di fronte al rischio di un’escalation di guerra che potrebbe infiammare l’intera area mediterranea, di chiedere la convocazione di una riunione straordinaria dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla crisi politica, sociale e umanitaria nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Da tale Assemblea dovrebbe uscire un messaggio chiaro sulla trasformazione delle missioni navali NATO e UE (Euronavfor Med) in missioni a comando ONU, con obiettivo di creazione di canali umanitari, un piano straordinario per l'assistenza ai rifugiati e profughi e di aiuti umanitari per la popolazione libica, programmi ampi di sostegno e formazione ad attivisti libici per i diritti umani, la convocazione di una "shura" o consiglio nazionale di tutti i soggetti politici e sociali della Libia, il rilancio delle soluzione “politiche” all’avanzata di DAESH, e la costituzione di una missione civile-militare disarmata di polizia internazionale, peacebuilding e di tutela delle popolazioni civili.
In 25 anni di guerra la comunità internazionale e la leadership irachena hanno distrutto l'Iraq. Oggi continuiamo a sbagliare e avremo presto 1300 soldati italiani dispiegati tra Iraq e Kuwait, investendo soldi e vite umane in interventi che destabilizzano ulteriormente i conflitti inter-etnici e tra fazioni politiche in Iraq. Riusciremo a non fare gli stessi errori in Libia?


Un ponte per...

9 marzo 2016

giovedì 3 marzo 2016

in memoria di Berta Caceres, mujer, indigena, luchadora

per il Manifesto, 2 marzo 2016
 
Ha suscitato ammirazione il discorso di accettazione del premio Oscar per “The Revenant” nel quale Leonardo di Caprio esprime il suo sostegno ai popoli indigeni, alle loro lotte contro le imprese multinazionali, e per proteggere la Terra dai cambiamenti climatici. Non va però dimenticato che la realtà sul terreno, per le migliaia e migliaia di indigeni, campesinos, uomini e donne che soffrono l'impatto devastante di quella che David Harvey ha definito la seconda fase del capitalismo, quella “estrattivista”, non è un pranzo di gala. E' piuttosto questione di vita o di morte come dimostra la tragica notizia di ieri dell'assassinio della leader indigena dell'Honduras Berta Caceres, ennesima cronaca di una morte annunciata. Insignita lo scorso anno del prestigiosissimo Goldman Environmental Prize , Berta era un esempio, un punto di riferimento, una compagna per chi lavora accanto a comunità indigene, chi sostiene la resistenza contro le grandi opere, il diritto all'autodeterminazione. Nel 2010 aveva partecipato come testimone alla sessione del Tribunale Permanente dei Popoli dedicata alle imprese europee in America Latina, in occasione del vertice- Euro-Latinoamericano di Madrid. Dal 2013 in Honduras erano state assassinate altre tre donne compagne di Berta, che lottavano accanto a lei contro la diga di Agua Zarca sul fiume Gualcarque, dalla quale proprio a seguito delle campagne di pressione di Berta e delle reti di solidarietà internazionali si erano ritirate la International Finance Corporation della Banca Mondiale e l'impresa statale cinese Sinohydro. Va sottolineato che dal golpe del 2009 che portò alla destituzione del presidente Zelaya il paese ha registrato un aumento esponenziale di progetti idroelettrici per la generazione di energia a basso costo necessaria per alimentare le attività di estrazione mineraria. Ed è proprio da allora che il mondo sembra essersi dimenticato dell'Honduras. Poco più di una settimana fa Berta e 200 esponenti delle comunità indigena del popolo Lenca vennero fatti oggetto di gravi intimidazioni da parte dei sostenitori della diga, in occasione di una loro manifestazione di protesta quando vennero fatti scendere a forza dai bus e costretti a camminare per cinque ore attraverso zone infestate dai paramilitari. Sempre a febbraio alcune comunità del popolo Lenca erano state espulse dalle loro terre con la forza. Oggi la notizia del suo assassinio nella sua casa nel paesino di Esperanza, Intibucà. Il suo nome si unisce a quelle decine di difensori della terra che ogni anno cadono per mano di sicari, forze di sicurezza, “pistoleros” di imprese o di grandi latifondisti. Secondo l'ONG Global Witness solo nel 2014 sono caduti 116 difensori della terra, in una media di due a settimana. Il 40% erano indigeni la cui unica colpa era quella di opporsi a progetti idroelettrici, minerari o di estrazione mineraria nella maggior parte dei casi imposti violando le Convenzioni internazionali sui diritti dei popoli indigeni ed il loro diritto al consenso previo libero ed informato. 3/4 dei casi registrati da Global Witness erano in Centramerica ed in Sudamerica. Dal 2004 al 2016 solo in Honduras hanno trovato la morte 111 leader ambientalisti ed indigeni. Una strage silenziosa quella dei difensori della terra, denunciata più volte, ad esempio in occasione delle iniziative parallele alla COP20 di Lima, funestate dalla notizia dell'uccisione di Josè Isidro Tendetza Antun, leader Shuar ecuadoriano trovato morto pochi giorni prima di recarsi a Lima per testimoniare ad una sessione del Tribunale dei Diritti della Natura e delle Comunità Locali, che ha in cantiere proprio una sessione dedicata ai difensori della Madre Terra. Nel 2014 Edwin Chota, leader della comunità Ashaninka nell'Amazzonia peruviana venne ucciso assieme ad altri tre suoi compagni per essersi opposto all'estrazione di legname dalle sue terre. Tomas Garcia compagno di lotta di Berta assassinato nel 2013 o Raimundo Nonato di Carmo che si opponeva alla diga di Tucurui, o Raul Lucas e Manuel Ponce uccisi nel febbraio del 2009 per essersi opposti alla diga di Parota ad Acapulco, Una sequela interminabile di omicidi collegati alla costruzione di dighe o altri progetti di sfruttamento delle risorse naturali. Andando ancora indietro nel tempo, e riaprendo gli archivi del genocidio Maya perpetrato in Guatemala dalle varie dittature militari, riemerge la storia delle centinaia di indigeni Maya Achì , 376, sterminati dall'esercito per far posto alla diga di Chixoy, allora costruita dalla Cogefar Impresit, grazie a finanziamenti della Banca mondiale e poi anche della cooperazione italiana. Solo qualche mese fa, dopo venti anni, i parenti di quei morti hanno iniziato ad ottenere un risarcimento dal governo guatemalteco.