martedì 18 aprile 2017

Decolonizzare e far luce sulla potenza


La tormenta infuria ma nelle pieghe della società c’è vita. Una vita complicata, spesso non riconosciuta, di resistenza quotidiana, di paziente e tenace costruzione di altri mondi possibili. Una vita, una miriade di vite, che sfuggono all’occhio e non possono essere rilevate da un’analisi che non riesce a liberarsi di un’impronta di colonialità segnata profondamente dalla presunzione di poter dirigere e classificare i movimenti e le “masse”. Si tratta di soggetti che praticano il “comune” e che non possono certo essere definiti facilmente, meno che mai come “società civile”. Come possiamo contribuire a far luce su una potenza diffusa, capillare, sotterranea, a tenere accesa la forza che alimenta i gesti di rivolta favorendone le connessioni e la condivisione di iniziative e analisi?
L’enorme sciopero di milioni e milioni di indiani contro le politiche antipopolari, foto: angryarabscommentsection.blogspot.com
di Francesco Martone
Non so a voi ma a me guardando  la settimana scorsa le immagini delle imponenti e diffuse mobilitazioni tenutesi negli Stati Uniti all’indomani della cerimonia di investitura di Donald Trump, è venuto assai da pensare. Da una parte sul rischio di cadere nella ricorrente e rituale constatazione della fine dei movimenti di massa nel nostro paese ed altrove. Dall’altra invece sulla possibilità di cogliere l’occasione per sperimentare un approccio ed un percorso differente, che parta dalla constatazione di ciò che esiste, e che così facendo si provi a delineare in sommi capi ciò che dovrebbe o potrebbe già essere, non solo oltreconfine ma anche a casa nostra. Partiamo allora da ciò che esiste.
Il rallentamento della conclusione del negoziato TTIP, mobilitazioni di piazza che hanno portato a Seul alla destituzione del presidente Park Heun Hye, in India il più grande sciopero di massa che la storia ricordi, le mobilitazioni a Standing Rock che hanno portato al blocco della costruzione della Dakota Access Pipeline, mobilitazioni di donne in Polonia contro la legge antiaborto, l’ascesa di Black Lives Matter, una costituzione adottata con il sistema “crowdsource” in Islanda. Queste alcune delle storie di successo riportate dal Transnational Institute di Amsterdam delle mobilitazioni che hanno attraversato il mondo nel 2016.  A queste vanno aggiunti mille e mille altri atti di rivolta, confronto, insubordinazione. Manifestazioni di donne a Roma come a Washington, marce, blocchi, campagne reali o virtuali. Con uno sguardo obliquo, che prova a spostare l’asse dal nostro Nord una volta opulento, oggi in grande crisi di identità,  nel quale volenti o nolenti si vive la nostra quotidianità, si sgrana davanti agli occhi un’altra realtà. Una realtà fatta di atti e gesti, di movimenti che cercano di intersecare le loro vertenze. Lo ha detto chiaramente nel suo splendido “speech” alla marcia di Washington, Angela Davis, quando ha ribadito la necessità e l’urgenza di riconoscere la trasversalità e l’interconnessione delle lotte. Da quelle dei nativi, a quelle GLBQT, a quelle dei migranti, dei latinos, a quelle degli afroamericani, a quelle per i diritti civili, e l’ambiente. Uno sguardo trasversale, presuppone uno sforzo di “decolonizzazione” nella nostra analisi dell’esistente, di quel “sensibile comune” di cui si è molto discusso nei giorni scorsi in splendide iniziative sul comunismo, dalla Galleria Nazionale all’ESC.
Manifestazione in difesa della dignità delle donne a Padova
Inforcando un paio di lenti diverse, quindi si può leggere la storia in altra maniera. Nel solo cosiddetto “sud” del mondo sono state “mappate” decine e decine di vertenze, iniziative, e mobilitazioni della società civile e dei movimenti sociali. Sotto le macerie della guerra civile in Siria continuano a operare reti di organizzazioni sociali che praticano autogestione e nonviolenza. In Turchia il popolo continua a scendere in piazza, sperimentando altre forme di protesta. A livello europeo stanno iniziando i preparativi per le mobilitazioni convocate da Blockupy in occasione del prossimo G20 in Germania. Insomma, per evitare  un forse troppo rituale appello ad un rilancio delle iniziative dei movimenti, più nel nostro paese che altrove, occorre dotarsi di altre chiavi di analisi ed elaborazione. Anzitutto riconoscere che nelle pieghe della società c’è vita. Una vita complicata, spesso non riconosciuta, di resistenza quotidiana, di costruzione di altri mondi possibili. Una vita, una miriade di vite, che sfuggono all’occhio, che non necessariamente trovano rappresentanza, né nella “politica” né nella cosiddetta società civile. Sono soggetti che praticano il “comune” e che non possono essere definiti “società civile”. Quello sguardo “decolonizzato” che ci permette di leggere quel che accade nel mondo in altra ottica,  dovremmo quindi applicarlo anche a noi, alla nostra realtà. Ed allora? Che dire ad esempio della miriade di iniziative, attività, occupazioni, in sostegno a migranti e rifugiati? O alle decine di migliaia di italiani di seconda generazione che non mollano l’osso, e continuano a mobilitarsi per i loro diritti di cittadinanza? O l’Italia che innova, produce altraeconomia, che resiste sui territori? Di quella che costruisce “comune”, l’Italia dei “comuneros?”
marcia antirazzista contro Trump
Lungi dal voler tracciare un “archivio” o “atlante” della resistenza nostrana, esercizio che anch’esso presuppone uno sguardo trasversale al quale forse dovremo più esercitarci, resta un punto. Lo dice assai bene Georges Didi-Huberman, curatore di una mostra assai interessante tenutasi al Jeu de Paume a Parigi, dal titolo “Soulevements”, insurrezioni, Seppur anche lui avesse peccato in un certo qual modo di un’eccessiva “occidentalizzazione” dello sguardo sulle forme di resistenza ed insurrezione, in un certo senso ci lascia un messaggio importante. La storia dell’umanità è fatta di atti e gesti di insubordinazione, di rivolta. “ Sono i nostri figli che insorgono: Zero in Condotta! Non era Antigone per caso anch’esso un figlio? Che sia nelle foreste del Chiapas o sulla frontiera tra Grecia e Macedonia, in qualche posto in Cina, in Egitto o a Gaza o nella giungla delle reti informatiche considerate “vox populi”, ci saranno sempre figli che salteranno il muro”. Chi sono questi figli e queste figlie, come parlar loro, dove incontrarli ed incontrarle, dovrebbe essere la nostra sfida. Senza cadere nelle suggestioni immaginifiche di grandi movimenti di massa o globali, da catalogare, categorizzare, e forse in parte pensare illusoriamente di poter dirigere. Ecco quindi che affiorano tre elementi imprescindibili per cercare di costruire un nesso tra le lotte e le vertenze in atto e forse tentare un percorso di convergenza mirato sia chiaro a sostenere e rafforzare tali lotte mettendole in relazioni con altre, cercando punti comuni e strumenti condivisi di iniziativa e analisi . Il primo quello di riconoscerne l’esistenza, il secondo quello di coltivare l’interdipendenza e l’interconnessione.
Su quali basi ad esempio poter sviluppare anche qua da noi relazioni tra chi oggi lotta contro il patriarcato e chi si adopera per la protezione della Madre Terra? Chi pratica forme di mutualismo dal basso e chi sfida le leggi del capitalismo estrattivista? Chi rivendica il diritto alla conoscenza, al reddito, al “comune” ed ai beni comuni, e chi già pratica innovazione? C’è poi  il terzo elemento, quello della speranza. Il mondo andrà avanti anche senza di noi, forse in peggio o forse in meglio , a prescindere dai tentativi   di capire cosa accade a quei movimenti sociali, forse  continuando con una certa nostalgia a categorizzarli rifacendosi ad un articolo del New York Times, che definì i movimenti la seconda potenza globale. Forse il punto sul quale fare luce riguarda proprio il concetto di potenza, diffusa, capillare, sotterranea, piuttosto che evidente, leggibile, “di  massa”, o catalogabile secondo i nostri criteri o bisogni. Giacché sempre ci sarà un Antigone, e magari anche una Ippazia, ce ne saranno mille e mille.
Che non chiedono rappresentanza, anzi si autorappresentano, e che rivendicheranno anzi la loro autonomia dalla “politica”. A maggior ragione da quella “politica” che si vorrebbe più prossima, e che oggi come il potere che si vuole sfidare, è un “muro” con tutta la sua incapacità di cogliere le trasformazioni epocali non solo nella cosiddetta “fase” storica, ma anche nella capacità di azione e iniziativa dei soggetti sociali. Come contribuire a tenere accesa la forza che alimenta quei gesti di rivolta verso l’esistente, come metterli in connessione, questo potrebbe essere il nostro compito. Se non ora, quando?

mercoledì 5 aprile 2017

Le parole dell’era in cui ogni falso è vero


Le parole per plasmare pensieri e aprire opportunità e le parole derelitte, marginali, come il suono sordo e abitudinario di una tastiera consunta, dell’era in cui tutto quello che è falso è vero e tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso. Si fa largo, dunque, l’obsolescenza della parola, o forse la presa d’atto che le parole sono finite. Sono i fatti che contano. Eppure i fatti sono là a dirci anche che ci sono popoli, cui la parola non sarebbe concessa, che invece se la prendono ogni giorno con atti di resistenza, con fatti straordinari di sopravvivenza. Le nostre parole, purtroppo, li trasformano in vittime, in oggetti dell’orrore. Per cambiare davvero, forse, bisognerebbe “disimparare il privilegio”, vivendolo come una perdita. Se non riusciremo a rendercene conto, le nostre parole continueranno a raccontare qualcosa che non c’è, come l’arto fantasma di Kader Attia
Kader Attia, foto tratta da http://www.artribune.com
di Francesco Martone
Le parole hanno bisogno di maturare, di attraversare la mente, l’anima, plasmare pensieri, ripercorrere ricordi, aprire opportunità. Devono stare lì per un po’, acquattate, prima di prender forma, come vibrazioni di un suono, o appese alla punta di un polpastrello. Maggior responsabilità ha chi usa le parole oggi, in quella che viene definita l’era della “post-verità” nella quale tutto ciò che è falso è vero, e tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso, nascosto, come un ospite sgradito. O ignorato. Parole derelitte e marginali, suoni sordi o abitudinari, frenetico ticchettio su una tastiera consunta. E quando alzi gli occhi, sei travolto da un turbinìo di parole, che rievocano ideali antichi, prospettano futuri migliori, gravitano sospese nell’oggi, senza sapere come interpretarli, scandagliarli, per aprire la porta alla speranza. Fatti, non parole, recitava un Jingle pubblicitario di una nota casa di elettrodomestici, nel lontano 1977, quando i fatti erano nutriti dalle parole, dal pensiero critico, dall’agire quotidiano. Già ecco come le parole lasciano il loro alveo e prendono altra forma: quei fatti di allora si traducono – trasposti in un altro livello – nell’atto di raggiungere un nuovo gradino nella scala gerarchica dei consumi. La stessa che altrove in quegli anni si voleva sovvertire con i fatti e gli atti. Sono i fatti che oggi contano, nell’età della post-verità.
Gli atti e i fatti. Atti di insubordinazione come quelli di Cedric, mite contadino francese che va alla sbarra, con dignità, per rivendicare il diritto sacrosanto alla solidarietà umana. Fa pensare come oggi è in quegli atti e fatti quotidiani che si misura la nostra capacità di immaginare l’altro, ed altro. Non nelle narrazioni epiche di grandi migrazioni, nei fiumi di parole spese nell’attribuire arbitrariamente significato a ciò che da sempre ha caratterizzato la storia dell’umanità. Cosa spinge migliaia di esseri umani a muoversi? Eppure nell’antichità il wanderlust era privilegio di uomini, e assai poco spesso donne, nobili, colte, i reietti giacevano negli antri nascosti, lontano dal potere e dalla falsa opulenza. Oggi chi si muove con un atto collettivo ci mette di fronte alla prova dei fatti. Sfida frontiere vere o simboliche, viene attraversato dalle stesse. Ma le nostre parole restano sorde, i nostri atti insufficienti, i fatti, quelli che parlano di tombe nel mare, rischiano di essere l’unico elemento che dà significato, e che trasforma quegli esseri umani in vittime fino a prova contraria.
L’obsolescenza della parola. o forse la presa d’atto che le parole sono finite. Eppure là fuori scorrono fiumi di parole, verbosità varie, retorica spicciola, o altisonante. Senza che ci si interroghi, appesi a quello che eravamo ieri, e incapaci di guardarci come saremo domani. Per questo oggi scrivo di meno, e magari solo per raccontare di cose concrete. Per provare a tenere stretta la relazione tra parole e azione, prendendoci il  tempo per farle maturare le parole, provando a sbucciarle una ad una della loro spessa coltre di ambiguità o opportunismo. Provare ad arrivare al cuore della parola, quel cuore fatto di atti e fatti. L’atto di cucire collettivamente una tela bianca impregnata di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez, dita che non parlano ma tessono, raccontano la violenza subita da donne aymara in Bolivia, tessono fili di sorellanza con quelle che cadono nella quotidiana sequela del femminicidio. Fatti di generosità, di artigiane indigene che collettivamente mettono la loro conoscenza tradizionale a disposizione per raccontare una tragedia collettiva. Un atto ed un fatto di generosità e insubordinazione alle regole, sangue raffermo, macchioline brune tra ricami sfavillanti, di paillettes e punto-croce. Mentre Teresa Margolles, artista messicana ci raccontava delle sue amiche trans uccise a Ciudad Juarez, e di come lei prova attraverso i suoi atti a definire fatti veri – altro che post-verità! – a Roma si sfilava in piazza per rivendicare un’altra Europa. C’ero stato anche io prima, nello spezzone dei migranti, quello che chiudeva il corteo e che invece rappresenta ciò che può riaprire la possibilità di dar senso alle nostre parole.
Ho sfilato – per poco però forse affetto ormai da una sorta di “fatigue” da manifestazioni di piazza – che spesso mi pare rischino di finire per essere rituali di autoassoluzione – accanto a chi con loro lavora quotidianamente, perché penso che oggi l’altra Europa sia non quella che riempie le nostre parole, ma quella che alza muri. In verità non so neanche cosa sia l’Europa, visto che di un’Europa possibile sembra possano parlare solo uomini e donne, di pelle bianca, di grande cultura o esperienza politica. Bianchi, come bianco era il colore della pelle di chi il giorno dopo al MAXXI condivideva ipotesi di un’Europa possibile. Ad eccezione dell’artista cubana Tania Bruguera che non a caso – ed è stata l’unica a dirlo – ha speso parole per indicare che sul tema dei migranti, dei loro diritti di cittadinanza, si gioca la dignità dell’Europa. L’atto di rivendicare un’altra Europa si scontra così con il fatto che a rivendicarla sia un pezzo di quell’Europa, che io immagino invece non definita, un insieme di culture, storie, vicende, relazioni, storia e mito che si susseguono lungo confini non stabiliti geograficamente.
C’è tanta Asia, tanto Medio Oriente in Europa, parafrasando Edward Said. E non sono solo parole, è un dato di fatto che dovrebbe obbligarci a rivedere le nostre parole, appunto andando al cuore, separando la paglia dal seme. Così non è. Un’attivista algerina ospite in un dibattito promosso all’Università da varie anime del movimento pacifista per discutere di Europa e Mediterraneo ad un certo punto chiese ai presenti: “ ma mi spiegate perché da voi in Italia non c’è più la capacità di indignarsi, mobilitarsi contro la guerra?” Parole che evocano atti e fatti. Alle quali non si sa rispondere, e se lo si prova a fare lo si fa con parole di circostanza. Eppure i fatti sono là a dirci che stretti tra le parole di chi condanna ipotetici imperialismi d’antan o di chi teorizza la guerra salvifica ci sono popoli che hanno parola, ai quali la stessa non va “concessa”, popoli che se la prendono ogni giorno con atti di resistenza , fatti straordinari di sopravvivenza. Le nostre parole invece li trasformano in vittime, in oggetti dell’ orrore.
Parole dei media, della politica o di chi si azzarda a provare a dare loro rappresentazione, simbolica o meno attraverso linguaggi visuali. Persone alle quali non si offre altra possibilità che quella di diventare corpi morti in una messa in scena di bianche body-bag lungo il Tevere. Bianche body bag per richiamare l’attenzione sulla strage di migranti nel Mediterraneo, bianche come chi ha immaginato quella performance. Siamo poi così sicuri di non rischiare di finire per contrastare la necropolitica con una sorta di necrofilia? Bianche body bag e un telo bianco impregnato di sangue di donne uccise a Ciudad Juarez tessuto da donne aymara vittime anch’esse di violenza, un nesso di sorellanza uscito dalla mano e dalla testa di un’ artista messicana, amica intima di trans uccise. Parole che in questo caso riprendono significato nella carne viva, non nella rappresentazione mediatica.
Po(l)etical utopia, Kader Attia. Immagine tatta da: http://www.domusweb.it
Le parole sono anche ricettacoli di memoria, visto che oggi sono il risultato dell’utilizzo frequente protratto nel tempo e nella storia, Quindi si portano dietro anche un pezzo di memoria. Si trasformano, riflettono memoria. La memoria è una parola che ho ascoltato spesso di recente, in alcune occasioni apparentemente lontane tra loro, ed in una terza nella quale la memoria veniva evocata, riportata a nudo. Il filo parte da una bella rappresentazione teatrale al Teatro India , “Acqua di Colonia” si chiamava, ed era un accorto e accurato excursus nelle parole, nelle immagini della colonia, di una storia italiana che si tende spesso a rimuovere o ignorare. Parole che andavano al cuore del problema. Ossia del mancato, ma necessario, passaggio del fare i conti con il nostro passato coloniale, per provare a ridar senso alle parole. Non a caso gran parte di chi prende il mare proviene da ex-colonie italiane, o transita in una ex-colonia, oggi oggetto del desiderio di Roma e delle principali capitali europee.
Eppure nonostante le quattro guerre fatte alla Libia quella presa d’atto tarda ad arrivare, non solo da parte dell’establishment ma anche dal “basso” a parte lodevoli eccezioni principalmente dal mondo accademico. Come ad esempio il convegno tenutosi un paio di settimane fa all’Orientale di Napoli, altra trama di quel filo che lega pensiero critico, ricerca accademica, azione. Nelle sale barocche di Palazzo du Vesnil si è parlato tanto e bene di cartografie, memoricidio, confini e storia. Quella storia coloniale della quale non si fanno ancora i conti nelle stanze del potere e spesso anche nelle piazze di chi si mobilita e magari o si innamora delle rivoluzioni altrui o cade nella trappola della necrologio. E non si fanno i conti perché a differenza di altri paesi, qua da noi la decolonizzazione non è stata risultato di movimenti di liberazione, ma della sconfitta nella guerra. Al punto che anche l’Italia repubblicana, quella della Costituzione antifascista per anni cercò di tenersele quelle colonie.
Così in una sorta di riflesso incondizionato continuiamo a parlare di un “ambaradam” come sinonimo di “caos” quando all’Amba Aradam si consumò una delle più grandi stragi fasciste del periodo delle colonie. Dettaglio forse sfuggito al Comune di Roma che chiamerà una delle stazioni della nuova metro proprio Amba Aradam dalla strada omonima.
Altrettanto interessante una lecture sulla correlazione tra mito fondativo della colonia nostrana, quel mito degli “italiani brava gente” che portano civiltà e progresso, scienza e conoscenza (ieri ed oggi eh, oggi magari con una grande diga o imprese ingegneristiche di alto pregio) e quello dei coloni sionisti che vanno a fertilizzare la terra promessa. Chissà come questo convegno è sfuggito all’attento sguardo censore di qualche solerte impiegato d’ambasciata del governo di Tel Aviv che di recente spesso e volentieri si è adoperata per togliere diritto di parola a chi criticasse le politiche del governo israeliano. Togliere la parola, in ossequi al principio della nondiscriminazione, un controsenso che la dice lunga sullo svuotamento delle parole. Restano gli atti ed i fatti: atti di repressione del diritto alla libertà di espressione e i fatti. Quelli del memoricidio sistematico praticato contro il popolo palestinese, anche attraverso la ricostruzione delle parole e della storia.
Quando si distrugge o si ignora la memoria si uccide la politica. Questa mi è parsa anche la traccia ricorrente dell’opera dell’artista franco-algerino Kader Attia, “Reflecting memories” , nella quale l’artista affronta nuovamente il tema della ricostruzione, della riparazione, di ferite di guerra come di memoria omessa, più o meno colpevolmente rimossa. Lo fa attraverso la rappresentazione simbolica dell’arto fantasma, il “phantom limb” fenomeno che in medicina sta a raccontare la sensazione di avere ancora un arto invece amputato. Sembra che hai due gambe o due braccia ma in realtà una è il riflesso della memoria di quell’arto che vorresti ancora attaccato. E’ la rimozione del dolore, o del passato, personale, o storico, politico o emozionale. Che magari riesci in parte a risarcire ma che resta nel profondo.
C’è molta politica nell’arte di Attia, che con mano sapiente e delicata ha saputo rappresentare il dramma dei “desaparecidos” nel Mediterraneo ed ora lavora assieme a tanti artisti ed attivisti alla proposta di una “costituente migrante” , al tentativo di proporre i migranti come un popolo, una comunità di destino con i suoi diritti sacrosanti, in quanto soggetti e non oggetti di rappresentazione, carità o soccorso, di disputa politica, di studio o di lucro.
Tutte queste parole per dire che per poter provare a cogliere il senso del nostro agire politico, oggi dovremmo “disimparare il nostro privilegio” come ebbe a dire una grande studiosa postcoloniale, Gayatri Chakravorty Spivak in una splendida intervista al manifesto di quasi un anno fa. Lei dice: “Credo sia fondamentale focalizzarsi sui privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a disapprenderli è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e “to use them”:vedere ed usare il privilegio i maniera funzionale, per volgersi a nuove pratiche di apprendimento e comunicazione”. Insomma per la Spivak disapprendere il privilegio deve trasformarsi in “imparare ad imparare dal basso”, e considerare tale disapprendimento come una perdita. Noi in realtà abbiamo perso qualcosa ma continuiamo a pensare che sia lì. Finché non ce ne renderemo conto … le parole continueranno a narrare di quell’arto che non c’è, l’arto fantasma di Kader Attia, ignorando ciò che fa o potrebbe fare l’arto che c’è.