domenica 17 agosto 2014

Armare i kurdi o non armare i kurdi? Questo il dilemma

Armare i kurdi o non armare i kurdi? La prossima settimana le Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato verranno convocate per discutere la proposta già avallata dal Consiglio Europei dei Ministri degli Esteri in un summit convocato d'urgenza a Ferragosto.
Armare i pershmerga come linea di difesa contro l'avanzata delle forze di IS, e lasciare loro il compito di fare ciò che dovrebbe essere compito di una forza di polizia internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite. Insomma, allontanare ancora una volta, come se la tragedia di Gaza fosse ormai relegata alla storia, l'urgenza di mettere mano ad una profonda riforma del sistema delle Nazioni Unite, per dotare l'ONU di una capacità di intervento anche armato se necessario volto a difendere civili inermi, o operare come forza di interposizione tra parti in conflitto
Questo mi pare essere il primo punto da considerare come contesto nel quale questa discussione si sta sviluppando. Il secondo punto riguarda l'applicazione del principio di precauzione. Ossia, prima di procedere con questa strategia, il governo italiano dovrà dimostrare che non sussistano rischi ulteriori rispetto alla possibilità che armare i peshmerga non porti ad una dissoluzione dell'Iraq. Nulla in contrario al riconoscere ai kurdi il diritto alla propria patria, lingua, religione, ormai l'idea di uno stato kurdo unico tra turchia, Iraq e Siria è superata dal progetto di un'entità kurda transnazionale, tipo federazione che non metterebbe in discusione in confini nazionali dei tre stati. Siamo sicuri che fornire di armamenti i peshmerga non equivalga invece a rafforzare il progetto di un Kurdistan unico ed indipendente, alimentato in gran parte dalle risorse petrolifere? I ministri di Esteri e Difesa, ci spieghino quale sia la strategia regionale (che tenga in considerazione cioè anche Arabia Saudita, Iran, Siria e Turchia) , e se ciò non sia in contraddizione con l'intenzione di sostenere un governo unitario a Baghdad, post Maliki e come si intende prosciugare il brodo di coltura nel quale oggi cresce il fondamentalismo armato di IS. Si badi bene, un fondamentalismo che è radicato anche nel persisente senso di frustrazione e abbandono nel quale hanno vissuto e vivono le popolazioni sunnite. IS non è solo una formazione armata, in molte aree rappresenta l'ordine, lo stato, dove fino a ieri lo stato non c'era o era una minaccia costante per le popolazioni sunnite. Quindi qual'è la politica dietro questa scelta? L'ennesima scorciatoia che prelude ad un male peggiore di quel che si pretende di curare? Ed allora, perché non cercare di contribuire in altra maniera? Perché l'Italia non può – piuttosto che porsi come capofila tra i paesi che hanno spinto per l'invio di armi ai “guerrieri” peshmerga – decidere di fare la propria parte in altra maniera? Quale valore aggiunto possono portare le armi italiane se non quello di alimentare ulteriormente la produzione di armi da parte di un'industria sempre florida? Con il rischio che tali armi possano poi cadere in mano dell'IS o di altre formazioni paramilitari locali? Perché invece non immaginare altre modalità di sostegno non armato per i civili e per la costruzione di corridoi umanitari per la loro protezione, ed il supporto logistico, di intelligence, o come si suol dire “non-letale” per chi oggi, peshmerga o esercito regolare irakeno, contrasta l'avanzata di IS?

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