Con gli occhi degli altri.
“Je suis l'autre” diceva il
filosofo Emmanuel Levinas, in un approccio ripreso anche da uno dei
principali filosofi inglesi d'oggi, Simon Critchley, nel suo troppo
poco conosciuto in Italia, “Responsabilità infinita” o
“Infinitely Demanding” ovvero etica dell'impegno, politica della
resistenza. Da questa prospettiva credo si possa partire per tentare
di ricostruire il senso dell'agire politico oggi, in una fase di
crisi e di interregno.
La prima domanda propedeutica che mi
viene alla mente leggendo Human Factor é :”dove sono gli altri?”
Dove sono le migliaia di persone che quotidianamente costruiscono
alternative, praticano modalità differenti, esercitano il potere
senza comandare, si sforzano di aprire spazi di agibilità, sono in
prima linea nelle periferie, negli spazi virtuali del lavoro che non
c'è, nelle occupazioni, nella costruzione di distretti dell'economia
solidale, o per bloccare opere inutili, o l'espansione della
frontiera petrolifera, che coltivano biologico, o producono cultura e
saperi. Se si mette il naso fuori dai nostri spazi, le nostre
“comfort zones”, si sentono le loro voci. Ci chiedono: “dove
siete?”. Forse anche noi ci domandiamo la stessa cosa, dove sono
loro? Sempre dalla parte dell'osservatore che si accinge a mettersi
per l'ennesima volta in viaggio mentre gente già in viaggio ce ne
sta tanta e da tempo, magari non su un jet supersonico, ma
lentamente, profondamente, e con dolcezza per dirla con Alex Langer.
Ecco io credo che dovremmo essere noi l'altro.
L'altro, che poi dovremmo essere noi
stessi, viene assimilato, fino forse a sparire, nel concetto di
“fattore umano-human factor”. Non ho nulla in contrario all'uso
di un anglicismo che nei fatti assume una critica diretta alla
trasformazione della politica in “infotainment” e degli esseri
umani in “risorse” o fattori di produzione. Quello che mi preme
sottolineare è l'urgenza di andare oltre il concetto di un nuovo
“umanesimo” , quando oggi il punto è quello di ricostruire una
visione del mondo nel quale l'umano (che non è solo lavoro, o
lavoratore, ma essere umano detentore di diritti fondamentali, in
primis) è solo una delle parti, e dove la dignità umana è parte
integrante assieme alla salvaguardia degli ecosistemi.
Non ci può
essere giustizia sociale senza giustizia ambientale. Se guardiamo
quindi al nesso tra umani ed ecosistemi, il principale elemento di
crisi con il quale fare i conti oggi è l'emergenza dei cambiamenti
climatici, giustamente accolto come punto chiave nel documento. Una
crisi che non può essere semplicemente risolta con un'enfasi
salvifica dalla semplice conversione ecologica dell'economia, quando
il problema è – per dirla con Serge Latouche, del quale però
stento a condividere appieno la mistica della decrescita – quello
dell'occidentalizzazione del mondo, della trasformazione in economia
di tutto, della finanziarizzazione dei nostri diritti,
dell'aggressione quotidiana agli stessi. Allora, per permettere una
vera conversione, che non sia alla fine “maquillage verde” fatto
di false soluzioni, quali il carbon trading, o l'uso di meccanismi di
mercato, una cosa va detta. E le parole di Eduardo Gudynas ascoltate
qualche giorno fa alla Cumbre de los Pueblos per la giustizia
climatica a Lima sono state di grande chiarezza: non possiamo
permetterci di tirare fuori altro petrolio, punto. Il tema della
conversione ecologica deve partire da questo, dall'assuzione del
“limite”, (“Limiti alla crescita” diceva decenni or sono –
era il 1972! - un essenziale testo dell'ambientalismo, il rapporto
Meadows del Club di Roma) una critica alle politiche energetiche, di
sviluppo, dalla rottura del ricatto del debito e dell'austerity per
fare cassa. L'ambiente non è questione di riforma del sistema di
mercato o di rispetto e culto del paesaggio o della bellezza, è un
tema di profonda trasformazione del modello, una transizione non
nello sviluppo ma “dallo” sviluppo. Non è possibile però
alcuna trasformazione del modello economico estrattivista, che
estrae petrolio dalla terra, valore finanziario dall'aria o dalla
vita, che estrae tempo ed energie vitali al nostro diritto alla
felicità, senza una profonda trasformazione del sistema politico,
una revisione a tutto tondo che rimetta al centro la democrazia
reale, e che riconosca l'entita della vera sfida: da una parte
quella di “democratizzare realmente la politica” e dall'altra di
contribuire alla “ri-politicizzazione dello spazio pubblico”.
Uno spazio pubblico che è anche
“comune”, politica come “commons” necessario per la
ricostruzione di uno spazio pubblico transnazionale, ad esempio
l'Europa. Questo passaggio rimette in discussione anche le vecchie
categorie della sinistra, il pubblico, l'intervento dello stato, la
cittadinanza. A vedere bene, oggi la crisi del concetto e della
pratica della governance (o governabilità della compatibilità) è
infatti anche la crisi del sistema che vedeva tradizionalmente legati
in un rapporto quasi contrattuale stato, mercato e società civile.
Un sistema nel quale irrompe la finanza, l'economia speculativa, fino
a procurarne la trasformazione. Lo stato restringe le sue
attribuzioni e ruolo, non scompare ma si mette al servizio del
mercato, che a sua volta viene trasformato dalla finanza, il
cittadino o società civile si trasforma in cliente o utente. Oggi ci
sono elementi che attraversano tutt'e tre le dimensioni della
governance, fino a metterla in discussione profonda. Oltre alla
finanza, il “comune” o “commons”, allo stato attuale forse
l'unico antidoto alla finanziarizzazione. Ma non la spuria
ricostruzione di una nuova forma di comunismo, o “benicomunismo”.
Sono i “commons” come intesi da Ivan Illich, non definibili o
normabili, ma che da una parte sono beni materiali ed immateriali
essenziali per la vita e la dignità di questa generazione e delle
generazioni a venire, dall'altra devono essere resi indisponibili al
mercato e gestiti in modalità collettive. E si badi bene, con un
profondo senso di responsabilità e cura, perché sono beni ereditati
dalle prossime generazioni.
Torniamo alla domanda iniziale. Chi è
l'altro? Da una parte chi cerca l'alternativa forse, e la esercita,
assai probabilmente senza più percepire la necessità di una
rappresentanza politica. Dall'altra chi è altro da noi, dal nostro
universo di riferimento valoriale, etico, politico, sociale e
culturale. Quella mucilagine di cui parlava a suo tempo il CENSIS.
Allora, il compito arduo è quello di indagare, di scandagliare, di
andare a recuperare ciò che resta, ciò su cui tentare, in un'opera
collettiva, di ricostruire il senso dell'agire politico. Nel
mentre non possiamo abbandonarci alla mera ricerca, piuttosto
dovremmo rimettere al centro l'urgenza di intervenire contro le
diseguaglianze, metter freno all'erosione progressiva dei diritti,
contrastare l'avanzata dei nuovi poteri “duri”, che usano
strumenti come il ricatto del debito, del pareggio di bilancio, la
deregulation, l'aggressione alle risorse naturali, la conversione del
sistema produttivo in apparato industrial-militare. Accanto al
contrasto, la proposta, con l'attenzione di non cadere nella sindrome
della “lista della spesa”, ma modulando ipotesi di lavoro
coerenti, e legate tra loro. Su questo la proposta di struttura di
lavoro delle giornate di Human Factor mi pare azzeccata.
Azzeccata
perché orientata all'azione e non alla contemplazione.
Giacché è ormai ineludibile chiedersi se oggi l'agire politico
non debba essere fatto di concretezza, di risposte concrete ai
bisogni materiali delle persone, di resistenza nonviolenta e
partecipata all'avanzare del mercato e della finanza, da una parte e
di costruzione di spazi di liberazione dall'altra. Spazi reali o
virtuali, concreti o immateriali, dalla produzione di cibo, alla
creazione di orti urbani, alla sperimentazione artistica, alla
resistenza nei territori, dall'uso degli strumenti di democrazia
diretta (si vedano le raccolte di firme per l'abolizione del pareggio
di bilancio o in passato i referendum sull'acqua ed il nucleare),
cyberattivismo e costruzione di reti. Ho detto non a caso resistenza
nonviolenta, riferendomi alla nonviolenza come modalità di
creazione di relazioni e nessi, una pratica che riconosce il
conflitto come elemento essenziale di una democrazia viva, attiva, ma
che lo metabolizza, lo abita, lo decostruisce nello sforzo di
costruire un legame differente tra i cittadini ed il potere, tra i
cittadini e lo stato. Ha ragione Annah Arendt, quando dice che lo
spazio politico è un “rifugio dalla violenza” piuttosto che la
sistemizzazione della violenza. Ed è questo spazio politico e
pubblico che dobbiamo mettere al centro della nostra indagine e
proposta.
Per questo oggi come non mai è dalle
pratiche – ed anche dai conflitti (“abitati”) - sociali che si
può ricostruire un progetto di società giusta, orizzontale, che
metta al centro la dignità degli umani, e la tutela del Pianeta e la
proposta di lavoro delle tre giornate appare coerente con tale
obiettivo. Per questo la nostra discussione dovrà lasciare spazio o
meglio lasciarsi compenetrare dalle pratiche sociali e politiche
“altre” , farsi “aprire”
dagli altri oltre che aprirsi agli altri.
Passiamo ora allo spazio: il nostro
sguardo dove si rivolge? In alto? In basso? Attraverso? All'altezza degli
occhi? Oltre il proprio naso? Prova a superare frontiere e confini?
Si tratta forse di mettere a punto una visione cosmopolita
dell'agire politico, saper cogliere l'altro oltre i confini ormai
usurati – nel bene o nel male - dello stato-nazione, il rimettere
in discussione la costruzione di “frontiere” visibili o meno. Da
quella in mare che condanna migliaia di esseri umani a morire nel
fondo del Mediterraneo, a quella invisibile ma tragica che separa i
centri dalle periferie, nele città come nel mondo. Un mondo che
ormai non ha confini per le merci, ma che fa la guerra per difendere
o per far saltare confini politici, al seguito di utopie nazionaliste
o identitarie, che siano di razza o religione. Questo dimostra la
difficoltà di essere cosmopoliti, e di accettare di vivere in una
società multiculturale e plurietnica. Credo che per poterlo fare
sia necessario ed essenziale decolonizzare il nostro linguaggio e la
nostra pratica. Dove sono i migranti, o le seconde generazioni? Dov'è
l'interculturalità nella nostra analisi, proposta e pratica
politica? Dov'è l'Islam? Dove sono i Rom, Sinti, Camminanti,
Khorakané? Non basta invocare l'antirazzismo, o ritualmente
condannare l'ennesimo atto di xenofobia, o strage in mare. Occorre
vedere l'altro, comprenderlo, quando l'altro non è solo pratica
politica ma soggetto di diritto al quale i diritti vengono negati.
A
questo si collega anche il concetto proprio del pensiero femminista
di “agency”, ossia la determinazione e la consapevolezza dei
cittadini e cittadine, o meglio di soggetti incarnati, di essere
soggetti attivi, e quindi la necessità di adottare un modello di
analisi dei processi politici e sociali che metta al centro gli
“agenti” e decostruire quegli approcci che vedono i soggetti
detentori di diritti come vittime dell'ordine delle cose. Senza
scordarci che l'altro esiste comunque e a prescindere dalla capacità
di un partito politico di “svelarlo” o comprenderlo, qualora ci
siano gli strumenti o la volontà politica di farlo. E mettendo in
conto che alla fine è anche possibile che - come acutamente disse
Julia Kristeva - “nous sommes etrangeres a nous memes”
siamo stranieri a noi stessi.
C'è poi lo spazio per l'azione di
trasformazione politica, coordinata essenziale per un soggetto che
vuole essere ponte, cerniera tra il potere e la società.
Chritchley ci dice che la vera politica si pratica in quello che lui
definisce “uno spazio interstiziale all'interno dello Stato”,
spazio e spazi che non sono dati, sono creati dalla pratica politica.
Forse il soggetto o la soggettività politica multiforme che potrebbe
originare anche dal confronto sul “fattore umano” dovrà – e
per farlo dovrà dotarsi degli strumenti necessari – definire,
coltivare, arricchire lo spazio interstiziale tra il potere dello
Stato e l'assenza di potere, tra la critica e la costruzione di
alternative. Credo infatti, e l'esempio più evidente mi pare essere
la genesi di Podemos, che il tema sia quello di ricostruire uno
spazio pubblico, attraverso la ridefinizione della sfera del potere
(quel potere oggi in mano alle banche, agli organisimi finanziari,
all'apparato industrial-militare ad esempio) e l'ampliamento della
sfera della potenza , di quella della società che costruisce,
pratica, elabora. Allora, ne consegue che la
nostra azione politica dovrà essere orientata alla rielaborazione
della sfera del “potere” per contribuire ad allargare quella
della “puissance”, della potenza dei soggetti di diritto, degli
“agenti”, dell'altro. E così facendo scoprirsi di essere “degni
di ciò che accade”, per dirla con Gilles Deleuze.
Per farlo, dovremo immaginare una
profonda riconfigurazione della forma dell'eventuale soggetto
politico giacché la forma è sostanza, il processo è contenuto.
Quale forma darsi, dovrà essere determinato dall'obiettivo politico,
sarà la partita a definire lo strumento e non viceversa. Ed allora,
si dovrà immaginare una struttura orizzontale, policentrica,
diffusa, aperta, che si ispira ai modelli di open source,
intelligenza collettiva, condivisione in rete. Un insieme di nodi,
soggetti, realtà che mettono in comune storie, competenze, pratiche,
analisi, elaborazioni. Un nuovo soggetto politico più che
concentrare o coordinare dovrà agevolare sinergie, alleanze,
relazioni tra coloro che già praticano il cambiamento sociale. In
sommi capi significa che piuttosto che dotarsi di un organigramma
classico, verticale, si dovrà pensare a qualcosa di radicalmente
differente. Ad un nodo centrale, che irradierà verso gli altri nodi
informazioni, strumenti di azione politica, competenze, conoscenza.
Un nodo centrale orientato su temi che connotano la “missione” ,
da quella sui diritti civili, a quella della pace e della
cooperazione, a quella dell'Europa federale, a quella della
trasformazione ecologica dell'economia, i diritti del lavoro...Dal
nodo centrale partono stimoli, proposte di campagne ed iniziative,
verso i nodi decentrati. Questi non saranno altro che le vecchie
“sezioni” o “circoli” riconfigurati come spazi aperti, di
innovazione e buone pratiche, snodi di incontro ed iniziativa
politica. Eppoi a livello territoriale, nei nodi, sarà possibile
proporre anche forme e patti federativi con realtà di base esterne a
SEL, associazioni, movimenti che condividono gli obiettivi e le
priorità politiche. Stesso rapporto “federativo” può essere
sperimentato attraverso una riattivazione dei forum, luoghi di
connessione, terzi spazi tra soggetto politico, ed altri soggetti,
individui o organizzati che lavorano sui temi specifici. Giacché
quelle realtà associative intendono costruire relazioni con la
“politica” sulla base di obiettivi chiari e competenze
comprovate. Dal nodo centrale partono anche proposte di campagne su
temi chiave, mirate a conseguire obiettivi chiari e qualificabili, da
perseguire con gli strumenti della rete, dell'ciberattivismo, ed
anche con strumenti classici o innovativi di comunic-azione, dai
flashmob, alle azioni dirette nonviolente, agli strumenti di
democrazia diretta, dai referendum alle leggi di iniziativa popolare.
Nei nodi vige la regola del consenso, e la rotazione delle funzioni
di facilitazione e coordinamento. Altro nodo sarà quello delle
rappresentanze istituzionali, dai parlamentari eletti agli
amministratori locali. La rappresentanza istituzionale deve essere
parte integrante di questo processo di creazione di intelligenza
collettiva,e di azione politica, attraverso gli strumenti, le risorse
e le prerogative proprie. Dovranno anche loro contribuire a costruire
questi terzi spazi di relazione, rappresentanza, iniziativa politica
dal basso e verso l'alto.
E per
chiudere il tema che comunque al netto di tutte le analisi torna e
tornerà alla nostra attenzione. Ma
poi, come ci mettiamo alle prossime scadenze elettorali? Aspettiamo
che gli eventi altrui determinino le nostre scelte? O decidiamo di
evitare di cadere nella trappola così efficacemente descritta da
Jacques Derrida, quando sottolinea come sia difficile pensare al
nuovo quando ciò dipende dall'evento di altri? Ritorna quindi il
tema del potere e del rapporto con le istituzioni. Su questo, e per
concludere, prendo in prestito le parole di Immanuel Wallerstein,
tratte da un suo illuminante articolo di qualche anno fa sulla
sinistra del XXI secolo:
.”..Ci
sono quelli che vogliono essere pragmatici, Vogliono lavorare
dall'interno - all'interno del principale partito di centrosinistra
laddove esiste un sistema multipartitico. (...) Ed ovviamente ci sono
quelli che condannano questa politica di scegliere il male minore.
(...) Il fatto è che la stragrande maggioranza del 99% sta soffrendo
duramente nel breve periodo. Ed è questa sofferenza la loro
principale preoccupazione. Stanno cercando di sopravvivere, ed
aiutare le loro famiglie ed i loro amici a sopravvivere. Se
pensiamo al governo non come agente potenziale di trasformazione ma
come strutture che possono avere una certa influenza sulla sofferenza
a breve periodo, attraverso decisioni politiche immediate , allora la
sinistra è obbligata a fare ciò che può per ottenere da questi
decisioni che possano minimizzare la sofferenza.
Con gli occhi degli
altri , lo sguardo rivolto all'altro, e quindi a noi stessi.