lunedì 14 luglio 2008

Darfur e Mediterraneo

Di seguito trovate i link a due articoli molto interessanti. Uno pubblicato da Opendemocracy a cura di Alex de Waal, spiega le varie linee di pensiero sulla recente decisione del giudice Moreno-Ocampo della Corte Penale Internazionale di accusare il presidente del Sudan Bashir di essere il principale colpevole del "genocidio" in Darfur. Una decisione che se da una parte potrebbe rilanciare il ruolo della Corte, dall'altrea nasconde gravi insidie in particolare riguardo al processo di pace nella regione. Il secondo articolo a cura della redazione del World Politics Review svolge alcune considerazioni sul piano di Unione per il Mediterraneo lanciato di recente dal presidente francese Nicholas Sarkozy, un piano volto a rilanciare il ruolo della Francia a livello regionale, e che ha incontrato forti resistenze nei paesi del Maghreb, Libia in primis, ed anche nella UE, in particolare della Germania.

I dilemmi del Darfur

Unione per il Mediterraneo Il Club Med di Sarkozy

martedì 8 luglio 2008

Cosa c'è oltre il G8?

In questi giorni in Giappone, a Toyako si stanno riunendo i capi di stato e di governo degli 8 paesi più industrializzati. Rituali ormai caratterizzati da una coazione a ripetere vecchie formule, impegni presi e poi riveduti e corretti al ribasso, pedine di scambio e stanziamenti di risorse finanziarie una tantum. Intanto le crisi globali accrescono l'insicurezza e l'instabilità ecologica ed economico-sociale, e richiedono strumenti più inclusivi e trasparenti volti ad assicurare una equa ripartizione degli oneri, e la partecipazione di tutta la comunità internazionale per promuovere e tutelare i beni pubblici globali. Ho scritto due commenti a questo G8 il primo uscito sul Manifesto il secondo su Carta. Buona lettura
--------------------------
dal Manifesto, 8 luglio 2008


Le grandi teorie economiche raramente durano più di qualche decennio. Alcune, se sono particolarmente affini ad eventi politici o progressi tecnologici possono arrivare a sopravvivere mezzo secolo. (…) Certamente le grandi ideologie raramente scompaiono da un giorno all’altro. Ma i segni del declino sono chiari, e dal 1995 questi segnali si sono moltiplicati, uno dietro l’altro, trasformando una situazione già confusa in un collasso” così scriveva nel 2005 l’intellettuale canadese John Ralston Saul, nel suo “The Collapse of Globalism, and the reinvention of the world”. Secondo Saul assisteremo ancora per qualche anno a processi ormai inadeguati alle sfide globali, quali Davos ed il G8. Così in effetti è. Da Gleneagles a Heligendamm a Toyako sembra che questa formula sia ormai giunta al capolinea. Oggi in Giappone si fa un doppio passo indietro rispetto agli impegni presi a Gleneagles sulla lotta alla povertà in Africa. Il Commissario Barroso annuncia un Fondo di un miliardo di euro per sostenere l’agricoltura su piccola scala, ma finge d’ignorare che l’agenda commerciale aggressiva dell’Unione verso gli stessi destinatari pregiudicherebbe la sovranità alimentare. La questione della coerenza non è solo fatto puramente accademico. Mentre ci si affretta a sancire l’irrilevanza e l’inadeguatezza del G8, quegli stessi governi riescono ad eludere le proprie responsabilità, lasciandosi dietro una scia altrettanto pericolosa per il futuro. Di fronte all’incapacità di trovare percorsi di azione condivisi e di alto livello, gli 8 “grandi” scaricano altrove il “burden” il peso delle scelte, facendo di alcune istituzioni gli strumenti dei propri interessi, mentre questi dovrebbero invece essere luogo di condivisione equa degli oneri tra tutti i membri della comunità internazionale. Quindi alla Banca mondiale il compito di dettare i termini del post-Kyoto attraverso i fondi di sviluppo pulito (ossimoro che nasconde l’insidia del carbone e dei mercati di permessi di emissione), ed ai paesi produttori di cibo l’onere di abbattere le restrizioni all’esportazione. O di riempire i nostri serbatoi di carburante. Più che illegittimo o incapace, questo consesso di governi dimostra di non avere le chiavi di lettura della realtà dopo la fine della sbornia neoliberista. Guai ad usare questo pretesto per licenziare quei governi dalle loro responsabilità e dagli impegni presi. Guai però anche a credere che un’iniezione di denaro riesca a sedare un’economia malata e le convulsioni di un modello di sviluppo ormai alla corda. Se il Giappone decide di lanciare il propro piano Marshall per l’Africa, la cosiddetta TICAD IV, in alternativa alla Cina, mentre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite svolge una valutazione sugli stessi temi allora ci si trova di fronte ad un grave scollamento, che delegittima ancor di più le Nazioni Unite. Come uscirne? Non certo aspettandosi dai G8 che producano cure per le loro malattie. Potrebbe essere però utile riconsiderare alcune proposte di democratizzazione del processi di governo globale. Piuttosto che allargare il G8 ai paesi cosidetti 05 (Outreach Five, Messico, Brasile, Cina, India, e Sud Africa che con la Russia compongono il gruppo dei BRIC-SAM) , in un approccio simile alla “Coalition of the Willing”, si potrebbe investire il Comitato Economico e Sociale dell’ONU del ruolo di aggregatore del cosiddetto L20. Ovvero dei leader di 20 paesi ECOSOC rappresentativi delle varie regioni e blocchi economici, a rotazione. Il limite di queste proposte è che riguardano esclusivamente i governi, tralasciando gli altri attori della governance. Un’altra proposta è stata di recente formulata da un delegato cileno, Eduardo Galvez, ai lavori preparatori alla Conferenza di Doha su Finanza per lo Sviluppo (FfD + 5) che si terrà dopo l’estate. Galvez ipotizza che quel processo esclusivamente negoziale si trasformi in un percorso plurale nel quale i vari attori della governance globale abbiano uno spazio comune di discussione ed impegno sui temi dello sviluppo e dei beni pubblici globali. Non c’è tempo da perdere, per evitare di lasciare spazio a chi (basta leggere l’ultimo saggio di Richard Haas “The Age of Nonpolarity”, Foreign Affairs, Aprile 2008) annunciando l’era del mondo “non-polare” ritiene che alle vecchie istituzioni internazionali si possa sostituire un multilateralismo “à la carte”, sempre ad uso e convenienza degli interessi dei paesi più ricchi e potenti.

-------------------
da Carta, 7 luglio 2008

Come ogni anno, in occasione del vertice del G8 le aspettative e le speranze di una inversione di rotta stridono con l’evidenza dei fatti e quindi ci si affretta a dichiarare l’inconsistenza di questo foro di discussione sulle tematiche globali. Eppure le questioni all’ordine del giorno sono di grande urgenza. La crisi alimentare che con un combinato disposto di vari fattori, non da ultimo la produzione massiccia di biocombustibili e le speculazioni finanziarie ha fatto schizzare verso l’alto prodotti essenziali per il nutrimento dell’umanità. La crisi ecologica, con i dati che parlano chiaro. Senza una netta inversione di rotta, ora e subito, senza un impegno chiaro per la riduzione delle emissioni di gas serra e di trasformazione del modello produttivo e di consumo saranno sempre più scarse le possibilità di un recupero di equilibri climatici già duramente compromessi. Allora dire oggi che il G8 è irrilevante perché non riesce a prendere decisioni chiare, rischia di spostare la responsabilità di quei paesi consumatori di risorse, e correi degli squilibri globali sull’effetto piuttosto che sulla causa. A prescindere dalla formula con la quale si propongono , quei governi hanno una responsabilità nei confronti del resto dell’umanità, anzitutto quella di non nuocere con le loro politiche di sviluppo, e semmai di contribuire a soluzioni che devono necessariamente essere collegiali ed inclusive. Non nuocere significa non confondere appunto la causa con la soluzione. I governi del G8, in parte preda della loro incapacità di leggere le profonde trasformazioni dei modelli di governo globale, o forse consci della fine imminente dell’esistenza di questo loro esclusivo consesso, sembrano come gli eserciti in ritirata. Si stanno lasciando dietro trappole micidiali, che siano esse i fondi di sviluppo pulito dati in gestione alla Banca mondiale, o il rilancio dell’energia nucleare o la richiesta ai paesi produttori di cibo di abbattere le barriere all’esportazione di alimenti. Come a dire che la questione del commercio dei prodotti agricoli è responsabilità di questi e non di Stati Uniti ed Europa che con i loro veti incrociati hanno portato alla paralisi del negoziato di Doha. Ed allora oggi la questione è molto più complessa: altro che irrilevanti ed inconcludenti! Per i loro interessi gli 8 sanno esattamente come muoversi e cosa fare. La questione semmai riguarda la riforma delle istituzioni della “governance” globale, e quindi la restituzione di un consesso politico maggiormente democratico e rappresentativo, che includa non solo i paesi ad economia emergente, ma anche quelli impoveriti. Forse non si deve neanche reinventare la ruota, visto che di proposte realistiche in tal senso ne sono state già fatte, ma solo dirigere la macchina verso la giusta direzione. Impegno che a Toyako resterà lettera morta.

lunedì 7 luglio 2008

Resistance is utile

Ripercorrendo a ritroso alcuni post di questo blog mi sono accorto che un link , precisamente quello alla lettera di Simon Critchley apparsa su Harper's in risposta ad una lettera di Zizek non funzionava, ed allora ho pensato di pubblicare sul posto il testo integrale che credo sia di grande utilità per informare il dibattito attuale sulla sinistra e nella sinistra.
Buona lettura

Letter to Harper’s Magazine, May 2008

Oddly enough when I read Slavoj Žižek’s critique of my book Infinitely Demanding [”Resistance is Surrender”, Readings, February], a copy of Lenin’s State and Revolution was sitting on my desk at home. One of the striking features of Lenin’s text is that for all the venom he spews at liberals, social democrats and the bourgeoisie, it is nothing compared to what he reserves for his true enemy, the anarchists.

As Carl Schmitt reminds us — and we should not forget that this fascist jurist was a great admirer of Lenin’s — there are two main traditions of non-parliamentary, non-liberal left: authoritarianism and anarchism. If Žižek attacks me with characteristically Leninist violence for belonging to the latter, it is equally clear which faction he supports. Žižek begins his essay by listing various alternatives on the left for dealing with the behemoth of global capitalism. This list initially seems plausible — indeed some of it appears to have been lifted unacknowledged from the conclusion of my book — until one realizes what it is that Žižek is defending; namely, the dictatorship of a military state.

In State and Revolution, Lenin cleverly defends the state against anarchist critiques in favor of its replacement with a form of federalism. He appears to agree with anarchists in stating that we should destroy the bourgeois state, then subsequently asserts that a centralized workers’ state should be implemented in its stead. The first notion is faithful to Marx and Engel’s idea of the withering of the state, but Lenin diverges from their line of thinking when he argues that this can only be achieved through a transitional state (somewhat laughably called “fuller democracy” by Lenin in one passage and “truly complete democracy” in another). Lenin sees an authoritarian interlude as necessary in order to realize the possibilities of communism, but as history has shown, this “interlude” was a rather long and bloody one.

For authoritarians such as Lenin and Žižek, the dichotomy in politics is state power or no power, but I refuse to concede that these are the only options. Genuine politics is about the movement between these poles, and it takes place through the creation of what I call “interstitial distance” within the state. These interstices are neither given nor existent but created through political articulation. That is, politics itself is the invention of interstitial distances. I discuss various examples of this phenomenon, such as civil-society groups and indigenous-rights movements in Mexico and Australia, in Infinitely Demanding. I would now also mention Bolivian President Evo Morales, who is directly answerable to certain social movements in his country. I am even sympathetic to the alternative-globalization and antiwar movements so despised by Žižek for their alleged complicity with established power, because, despite their flaws, they remain crucial to the articulation of a new language of civil disobedience. In the coming decades, as we experience massive and unstoppable population transfers from the impoverished south to the rich north, we will require this language to address the question of immigrant-rights reform in North America and Europe.

For Žižek, all of this is irrelevant; these forms of resistance are simply surrender. He betrays a nostalgia, which is macho and finally manneristic, for dictatorship, political violence, and ruthlessness. Once again, he is true to Lenin here, as when the latter calls for the bourgeoisie to be “definitively crushed” by the violent armed forces of the proletariat. Listen to Žižek’s defence of Chávez’s methods, which must be “fully endorsed”:

Far from resisting state power, [Chávez] grabbed it (first by an attempted coup, then democratically), ruthlessly using the Venezuelan state apparatuses to promote his goals. Furthermore, he is militarizing the barrios and organizing the training of armed units there. And, the ultimate scare: now that he is feeling the economic effects of capital’s “resistance” to his rule (temporary shortages of some goods in the state-subsidized supermarkets), he has moved to consolidate the twenty-four parties that supported him into a single party.

Here we observe the basic obsessive fantasy of Žižek’s position: do nothing, sit still, prefer not to, like Melville’s Bartleby, and silently dream of a ruthless violence, a consolidation of state power into one man’s hands, an act of brutal physical force of which you are the object or the subject or both at once. Perhaps I should remind Zizek, who considers himself a Lacanian, of what Lacan said to the Leninist students who heckled him at Vincennes in December 1969: “What you aspire to as revolutionaries is a master. You will get one.”

There is a serious debate to be had with Žižek about the question of violence, the necessity of the state, and the evolution of radical politics, given the seeming permanence of capitalism. Perhaps when Žižek gets beyond windy rhetorical posturing and his misapprehension of my position as “post-modern leftism” (I defy anyone to find a word in favor of postmodernism in anything I have written), we can begin to have that debate. I am not holding my breath.

Simon Critchley
The New School for Social Research
New York Cit