mercoledì 31 agosto 2016

diritti umani...allarme mondo

Il Manifesto, 31 agosto 2016


La recentissima liberazione di Malek Adly, avvocato egiziano impegnatosi fin da subito nel caso del sequestro ed assassinio di Giulio Regeni, è una grande notizia. Dimostra che è possibile aprire una crepa nel muro di omertà e impunità dietro il quale si cela l’operato del regime di Al Sisi e che abbiamo occasione di constatare giorno per giorno riguardo la richiesta di verità e giustizia sulla tragica fine di Giulio. Non va però abbassata la guardia, né lasciato cadere il silenzio sull’Egitto. Ce lo ricordano i casi ancora irrisolti di altri attivisti difensori dei diritti umani, quali Alaa Abdel Fattah, o dei lavoratori e sindacalisti  dei cantieri navali di Alessandria d’Egitto oggi di fronte ad un tribunale militare per aver rivendicato i propri diritti.   Le loro storie sono le storie di migliaia di “difensori dei diritti umani”. Quelle di Diana Sacayan, attivista trans argentina, uccisa brutalmente per la sua lotta contro la transfobia e l’omofobia,   di Suzette Jordan, indiana uccisa per il suo impegno contro la violenza sessuale, o  di Hande Kadere, attivista trans turca uccisa di recente dopo essere stata orribilmente torturata.  O di chi si attiva per difendere la propria terra, come Berta Càceres e le centinaia di donne ed uomini, attivisti ed attiviste per i diritti ambientali ed indigeni, che hanno perso la vita nel corso dell’ultimo anno, come denunciato da Global Witness, per il loro impegno a favore dell’ambiente. Nel suo rapporto “On dangerous grounds”   l’organizzazione denuncia l’omicidio di almeno 185 attivisti e attiviste in 16 paesi. La maggior parte dei casi è stata registrata in Brasile (50) seguito dalle Filippine (33) e dalla Colombia (26), e la principale causa i conflitti sulle miniere, dighe ed estrazione di legname. Il 40% circa delle vittime apparteneva ad un popolo indigeno.   
 Questa emergenza è al centro del lavoro del Relatore Speciale ONU sui difensori dei diritti umani Michel Frost, che nel suo ultimo rapporto denuncia un aumento allarmante di casi di omicidi, minacce e persecuzioni per migliaia di attivisti in ogni parte del mondo, una tendenza che è aggravata dal pretesto della “lotta al terrorismo”.  Nei giorni passati, in occasione del  suo 39esimo Congresso svoltosi a Johannesburg, la Federazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo (FIDH) ha adottato una risoluzione sui difensori dei diritti umani nella quale sottolinea come la sicurezza dei difensori dei diritti umani sia aggravata dalla mancanza di visibilità. del riconoscimento del loro ruolo, dell’impunità dei responsabili delle violazioni, e dell’insufficiente riconoscimento delle categorie di difensori dei diritti umani.  Giacché oggi per difensori dei diritti umani, si intendono anche in senso largo giornalisti, avvocati e giuristi, attivisti per l’ambiente e i diritti dei popoli indigeni, chi resiste ai crimini ambientali e sociali delle imprese e chi lotta accanto a rifugiati e migranti. 
 La FIDH denuncia gli assassinii di difensori dei diritti umani compiuti nello scorso anno in   Azerbaijan, Bangladesh, Brasile, Birmania, Burundi, Cambogia, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Guatemala, Honduras, Iraq, Kenya, Libia, Pakistan, Sudafrica, Siria, Thailandia e Filippine e  gli  arresti arbitrari di attivisti cui viene negato il diritto ad un processo equo in molti altri paesi.  Per non dimenticare le campagne contro le organizzazioni per i diritti umani come in Palestina o Israele.  Per far fronte a questa strage silenziosa l’Unione Europea ha adottato alcuni “orientamenti” in materia di difensori dei diritti umani .  Irlanda, Finlandia, Spagna, ed Olanda e Repubblica Ceca sono stati tra i paesi più attivi nello sforzo di dare attuazione a queste linee guida poi recepite anche da Francia ed Inghilterra e da paesi non UE, quali Svizzera e Norvegia. 
 Molti di questi paesi hanno già  programmi di protezione dei difensori dei diritti umani e di “asilo temporaneo” per chi dovesse lasciare il suo paese per un determinato periodo di tempo.  La UE ha a disposizione vari strumenti di pressione e tutela a favore degli attivisti dalle missioni sul campo, alle attività di monitoraggio dei processi, ai contatti e dialogo politico con le autorità locali (i cosiddetti “demarche”).
  L’Unione ha anche predisposto una Piattaforma di Coordinamento per l’Asilo Temporaneo dei Difensori dei Diritti Umani (European Union Human Rights Defenders Relocation Platform – EUTRP). L’ONG Olandese Justice and Peace - lavora ad un programma di    città rifugio sponsorizzato dal Ministero degli affari esteri, il quale segue ora una procedura accelerata per la concessione di visti d’urgenza ai difensori dei diritti umani sotto minaccia. In Irlanda il Ministero degli Esteri ha predisposto un servizio di assistenza e coordinamento delle attività di supporto e di concessione di visti umanitari.  Anche la Spagna si è dotata di buone pratiche allo stesso scopo mentre il Ministero degli Esteri finlandese ha proprie linee guida per l’applicazione degli Orientamenti UE. Non risulta che il governo italiano si sia mai attivato . Eppure potrebbe farlo anzitutto  istituendo presso la Farnesina un punto di riferimento  per la protezione degli attivisti per i diritti umani ed il rilascio dei visti per l’asilo temporaneo,  aderendo alla Piattaforma Europea per l’accoglienza temporanea dei difensori dei diritti umani e elaborando sulla scorta di quanto fatto fa altre Cancellerie europee, una serie di linee guida per le ambasciate ed il corpo diplomatico. Altre azioni potranno poi essere messe in campo dall’Agenzia per la Cooperazione e dagli Enti Locali per creare canali di finanziamento e sostegno a attività di protezione dei difensori dei diritti umani, ad esempio attraverso i corpi civili di pace, e di accoglienza diffusa.  E’ giunto quindi  per  il Parlamento ed il governo il momento di prendere  posizione, schierandosi definitivamente e senza esitazioni a fianco di chi spende la propria vita per i diritti umani e la democrazia, al di là della facile retorica o del predominio degli interessi della realpolitik. Se non ora quando?

domenica 28 agosto 2016

Un Forum Mondiale.. in comune


Il Manifesto, 18 agosto 2016


Un Forum Sociale fuori dal comune, forse meglio dire un Forum del “Comune”, quello da poco concluso a Montreal. Fuori dal comune giacché svoltosi per la prima volta in un paese del “Nord”, crocevia di interessi di imprese multinazionali, al centro di importanti vertenze sindacali e teatro di grandi mobilitazioni studentesche e di giovani. Sono loro che hanno occupato quello spazio, non tanto nei numeri, ma nella ricerca di metodologie orizzontali, e partecipative: dai workshop autogestiti, all'agorà finale, le assemblee di convergenza, i collegamenti “esterni”, l'uso di internet . Una scossa di adrenalina ad un processo troppo ingessato nella annosa datriba sulla sua natura. C'è chi immagina il Forum Sociale Mondiale come un soggetto “politico”; con le redini e l'incarico di dare la linea ad un Consiglio Internazionale, che a Montreal dava la sensazione di rischiare definitivamente la sua obsolescenza. Nessun giovane al tavolo, molti giovani, nelle magliette gialle dell'organizzazione, ai margini. C'è chi poi pensa che il Forum sia uno “spazio” collettivo , nel quale incontrarsi rafforzare reti e relazioni, affinare le strategie. 

Probabilmente questo forum non genererà una scelta tra “verticalità” ed “orizzontalità”, forte rimane l'impronta dei movimenti sociali e dei soggetti che l'hanno ideato , e che persistono nella visione forse ormai logora del forum come soggetto politico. Rischiando così di negare soggettività politica a quelle forme plurali e autorganizzate che non si riconoscono nei soggetti che tradizionalmente hanno formato l'ossatura del FSM, sindacati, movimenti sociali, intellettuali. 

La partecipazione a questo Forum è stata numericamente inferiore a quelli precedenti, ed è senz'altro vero che la connessione “sentimentale” con la città e con il paese nel quale si è svolto è stata piuttosto “loose”, “allentata”. Montreal è una città che ha anch'essa il suo Sud, come del resto il Canada. Le vertenze delle First Nations, contro il fracking, e l'estrazione di sabbie bituminose in Alberta e Athabasca, l'insorgenza del movimento Idle No More e nei vicini Stati Uniti le mobilitazioni di Black Lives Matter, sono state poco presenti di persona nelle giornate del Forum, Eppure a migliaia hanno sfilato in concomitanza con la chiusura del Forum nel Gay Pride, con il primo ministro Justin Trudeau in testa. Eppure ad un tiro di schioppo i leader nativi si stanno mobilitando contro le pipeline. Eppure in Canada ci sono tra siriani e iracheni circa 50mila rifugiati, ed a Montreal un migliaio di homeless, in maggioranza “aborigeni”, in maggioranza “inuit” lasciati per strada, all'alcol, ai maltrattamenti della polizia. 

Come di norma in questi casi si rischia però di cadere nella trappola del voler valutare tutto e subito, utilizzando criteri numerici arbitrari, invece di contestualizzare il tentativo di imprimere una svolta alle pratiche ed al protagonismo di soggetti “storici” che non possono ritenersi immuni dall'ondata di critica radicale e di riappopriazione dal basso dell'agire politico, intepretato da movimenti quali Occupy, o Nuits Debout o Indignados. Movimenti che ragionano fuori dagli schemi tradizionali di quella sinistra istituzionale e “di movimento” che fatica a cogliere il desiderio di riappopriazione della sfera pubblica di nuove generazioni non solo anagrafiche ma anche “politiche”. Questo Forum avrà successo se le connessioni e le sinergie da esso agevolate potranno generare occasioni di resistenza e proposta nei luoghi e nelle comunità che oggi soffronto gli effetti del liberismo, dei mutamenti climatici, della marginalizzazione sociale, della guerra. 

Un Forum poco globale, molto “glocal”, e molto “forum”, non più tanto sociale ma forse “comune”. Giacché l'afflato culturale e politico che si respirava era non più quello del “sociale” ma quello del “comune”, delle vertenze per i beni comuni, per la giustizia climatica ed ambientale, per la ricostruzione di spazi “comuni”, con lo sforzo importante di voler pensare “fuori” degli schemi cui la vecchia sinistra ci ha abituato. Ad esempio varie sono state le discussioni sulle sinistre in America Latina, prova dell'urgenza di interrogarsi su quanto quelle esperienze abbiano contribuito al rafforzamento della democrazia reale ed alla fuoriuscia dal capitalismo estrattivista. Allora, leggendo in prospettiva i pro e i contra di questo Forum il risultato potrebbe essere inusuale. Potrebbe infatti segnare il primo passo della trasformazione da Forum Sociale Mondiale a Forum Mondiale del “Comune”. Che gli ideatori originari dei FSM lo capiranno o meno, poco conta, se non lo faranno rischieranno la definitiva irrilevanza. Una scossa è stata data, e forse non poteva essere se non a Montreal.

lunedì 15 agosto 2016

«Salvate il fiume St Lawrence» Mohawk contro multinazionali

Social Forum. Proteste contro i piani del governo Trudeau

«Avete un grande fiume, la sera sedetevi alla sua riva ed ascoltate il fiume che dorme, che lo spirito va per lo spazio», con un sorriso Manari Ushigua Santi, sciamano e leader del popolo Sapara dell’Ecuador parla del Sumak Kawsay, del Buen vivir, come alternativa al modello economico dominante. «Prima sogniamo, e ci connettiamo con gli spiriti della terra, l’acqua, le stelle, le montagne, e questa connessione ci ha permesso di vedere la vita. Quando nel 2008 si decise di inserire il Buen Vivir nella costituzione abbiamo chiesto alla natura che ne pensasse, e lei ci ha detto bene, ma questo non riguarda me ma voi, dovete essere consapevoli di quel che fate sulla terra». Il fiume è il St Lawrence, attraversato dal Mercier Bridge che connette Montreal alla riserva Mohawk di Kahnawake. Tutta Montreal è su terra Mohawk.

C’è anche Kahnasake, scesa in piazza 25 anni fa in un confronto durissimo tra guerrieri mohawk e l’esercito canadese per bloccare un campo da golf ad Oka loro terra sacra. Lo scorso anno giovani mohawk hanno marciato per protestare contro un piano del comune di Montreal di sversamento di reflui urbani nel St Lawrence. Kahnasake ed i suoi leader sono oggi sul piede di guerra contro la Transcanada pipeline.

Il movimento «Idle no more» resiste all’ampliamento dello sfruttamento delle sabbie bituminose, le «tar sands» che stanno devastando l’Alberta. Eppure il governo Trudeau dei passi in avanti li aveva fatti riconoscendo i diritti dei popoli indigeni, ma il «business as usual» continua, quello delle grandi dighe, e quello del petrolio e del gas. In Canada ed altrove. Due anni fa a Montreal il Tribunale Permanente dei Popoli giudicò l’operato di multinazionali canadesi del settore minerario in America Latina. In questi giorni al Forum Sociale Mondiale, molto spazio è stato dato alle lotte ed alle iniziative che connettono comunità in resistenza e movimenti sociali di ogni parte del mondo. La campagna «stop corporate crimes» nasce da una serie di sessioni del Tribunale Permanente dei Popoli, istituzione creata da Lelio Basso, e che nel corso degli anni ha studiato, ascoltato testimonianze di comunità impattate, e giudicato l’operato dell’Unione Europea e delle sue imprese in America Latina. Temi che oggi riaffiorano con forza nelle mobilitazioni contro il Ttip, ed il Ceta, il Canada-Europe Trade Agreement.

Da allora i movimenti hanno lavorato «dal basso» per la redazione di un Trattato dei Popoli sulle imprese transnazionali, riprendendo il testimone delle proposte fatte nel lontano 1992 al Global Forum della conferenaz Unced di Rio de Janeiro, mentre «dentro» al Consiglio Onu sui diritti umani il governo dell’Ecuador lavora su un Trattato vincolante per le imprese. Prossimo appuntamento a Ginevra a ottobre, mentre il Tribunale si riunirà, per la prima volta in Africa, la settimana prossima in Swazilando per giudicare le imprese minerarie Vale e Jindal. Qua a Montreal i fili della resistenza si intrecciano, sarà forse l’«esprit du lieu», la presenza di un vibrante movimento studentesco, che due anni fa ha portato in piazza a Montreal un milione di persone, nella «Maple spring».
Di giovani se ne vedono tanti a questo Forum, inusuale, che cerca nuove strade e si interroga, approfondisce, cerca di capire. A migliaia hanno cercato di entrare nella sala dove Naomi Klein ha parlato di clima, di oleodotti, ed ha esortato alla mobilitazione, quella dei fatti non delle rivendicazioni. Giovani e anziani canadesi, (in molti commentano che in effetti questo forum è molto canadese, anzi molto «quebec», ma del resto il locale è o non è globale e viceversa?).

Giovani canadesi imbracciano tubi per protestare contro le pipeline, marciando ordinati sui marciapiedi del centro città, accompagnati da attivisti che protestano contro le malefatte della Chevron, In una tenda la rete Ong e movimenti brasiliani si interrogano sul futuro del paese, dopo la decisione del Senato di confermare l’impeachment di Dilma. Un’assemblea di convergenza verrà dedicata alla difesa della democrazia. Un’agorà globale forse sospesa tra la terra ed il cielo, pochi canadesi anglofoni, pochi rappresentanti dei popoli indigeni presenti. Eppure il ponte è lì dietro che unisce e che separa.

La storia del Canada riaffiora nelle insegne dei grandi magazzini della Compagnia della Baia di Hudson, la «Hudson Bay Company», propaggine imprenditoriale della colonizzazione del passato, dell’invasione delle terre indigene e dei ghiacci per la conquista del mercato delle pelli. Oggi è il petrolio, il gas, il grande business dell’acqua (HydroQuebec è un gigante del settore) lo sfruttamento dei ghiacciai, «Parliamo in nome della Madre Terra ma la gente non ci ascolta» chiosa il leader Dane – Lakota Tom Goldtooth, «ma non ci fermeremo».

venerdì 12 agosto 2016

Ritorno alla politica contro tutte le guerre

La "marcia" di avvio del Social Forum a Montreal
Social Forum a Montreal. Per la prima volta il Social Forum si svolge a Montreal, nel Nord del mondo. Al centro delle discussioni le questioni «identitarie» dalla Siria alla Palestina, dal Rojava al Sahrawi
Francesco Martone, il manifesto • 12 Ago 16 

MONTREAL  «Il 72 percento dei geni dell’uomo è identico a quello dei maiali. Ma noi a differenza dei maiali siamo la specie vivente che ha la coscienza di essere responsabile della vita sul pianeta. Facciamo parte della vita, siamo il prodotto della storia della vita. Per questo possiamo coltivare la possibilità di un’alternativa», così Riccardo Petrella in una delle lecture di apertura del Forum Sociale Mondiale che si è aperto ufficialmente ieri l’altro con una marcia per il centro di Montreal.
Un Forum che potrebbe rappresentare uno spartiacque nella storia di un appuntamento che da tempo appare avvitato su se stesso. È la prima volta che un Forum si tiene in un paese del Nord del mondo. Ed è la prima volta che, non appoggiandosi a partiti o sindacati locali, un gruppo di persone a titolo individuale ha formulato la proposta al Comitato internazionale che ha accettato. Ad oggi questo Forum è stato caratterizzato da una serie di problemi organizzativi che in parte costituiscono un tema politico. È il caso della scarsa partecipazione di rappresentanti del cosiddetto «Sud del Mondo» inficiata da una rigida politica di concessione di visti da parte del governo canadese.

Il Forum potrebbe comunque vivere l’inizio di una nuova fase, centrata sulle metodologie di lavoro, workshop autogestiti, assemblee di convergenza su temi quali la militarizzazione, il clima, i diritti umani e la democrazia, i migranti, e cosiddette «Grand Conferences», dibattiti di alto livello su questioni «chiave». Un incontro assembleare definirà poi il calendario di attività ed iniziative future. Altra innovazione quella di «decentrare» il forum con collegamenti con varie città e realtà in ogni parte del mondo, a significarne il carattere orizzontale globale. Che lo spirito di Nuit Debout e degli Indignados sia arrivato anche qua? Un tema ricorrente, non a caso essendo in Quebec terra attraversata dalla questione nazionale ed identitaria, è quello delle lotte per l’autodeterminazione dei popoli, dai Sahrawi, alla Siria, alla Palestina (un tema di polemica pre-Forum è stato quello del sostegno o meno alla campagna Boycott Disinvestments Sanctions) il confederalismo democratico in Rojava, i movimenti per la democrazia in Egitto, la resistenza alle multinazionali.

Eppoi i temi ambientali, della giustizia climatica, della resistenza alla liberalizzazione del commercio. Una delle principali assemblee di convergenza dei primi giorni dedicata al tema della guerra ha prodotto proposte di mobilitazione a sostegno del Forum Sociale Iracheno che si terrà a fine settembre a Baghdad, terzo appuntamento dedicato alla Pace ed a Diritti dei Popoli.
Sempre nei prossimi mesi si terrà il primo Forum Sociale Kurdo, mentre a Berlino a fine settembre sarà la volta della conferenza pacifista contro il commercio di armi e le spese militari dell’International Peace Bureau. A rappresentare il Forum Sociale Iracheno Yassim al-Helfi, presidente del Information Center for Research and Development, accompagnato da Un Ponte Per, ed intervenuto alla Grand Conference sulla Siria, per portare la solidarietà ai movimenti della società civile siriana che tentano di resistere alla logica delle armi , e praticando mutualismo ed autogestione lavorano per la Siria del futuro.

Un paese oggi teatro di uno scontro tra due «mostri» armati, attori di un conflitto ormai internazionale. Prima la testimonianza della scrittrice siriana Samar Zazbek e poi le parole di Gilbert Achcar docente al Soas di Londra sono chiare. In Siria la rivoluzione pacifica contro il regime di Assad ed alimentata – sulla scia delle primavere arabe – da una situazione socio-economica disastrosa è stata repressa in maniera brutale ed ha lasciato il passo ad uno scontro armato, ad un’involuzione di tipo islamista. Una guerra per procura contro il popolo siriano, dalla quale si deve uscire solo con la forza della politica, oggi assente colpevole. Parla anche Leo Gabriel, promotore assieme ad un gruppo di grandi padri del Fsm, da Ignacio Ramonet a Francois Houtart, a Adolfo Perez Esquivel, di un’iniziativa per una soluzione politica al conflitto siriano, attraverso il dialogo tra i vari rappresentanti della società civile siriana.

La Siria qua a Montreal è vista come uno dei casi estremi della logica pervasiva della guerra e delle conseguenze nefaste del neoliberismo. «In nome di Dio, in nome della nazione o in nome del profitto», per parafrasare le parole di Petrella. Questi i tre mantra da sconfiggere per continuare sulla la via dell’alternativa, di un altro mondo possibile, della solidarietà internazionale con popoli che oggi sembrano condannati alla guerra ed alla distruzione.