lunedì 23 novembre 2015

L'elefante nella stanza: storia di drone, diritti e zone grigie



Fa pensare il fatto che la  decisione presa a Washington, seppur ancora da ratificare al Congresso, di armare i drone Reaper italiani di stanza a Sigonella non abbia avuto in Italia la giusta enfasi. Anzi, è passata decisamente sottotraccia. Nella lista della spesa italiana si parla di 156 missili AGM-114R2 Hellfire II costruiti dalla Lockheed Martin, 20 GBU-12 (bombe a guida laser), 30 GBU-38 JDAM.[1] Gli unici teatri dove sono operativi ad oggi drone italiani sono Iraq - due Predator con missioni di riconoscimento e identificazione di bersagli nelle operazioni contro DAESH e stazionati in Kuwait, - Mare Sicuro e Euronavfor Med. Secondo alcuni esperti del settore  sarebbe da escludere un uso dei drone armati in Libia mentre all'annuncio della notizia il sito KnowDrones ha sottolineato come la decisione di armare drone italiani, oggetto di anni di dibattito negli Stati Uniti, rientrerebbe nella strategia USA in Africa. A prescindere da queste considerazioni più strategiche, la questione solleva punti assai delicati, riguardo il diritto, la legalità, l'etica. Già di per sé l'uso di drone per sorveglianza e intelligence apre la porta a tematiche riguardanti la privacy, l'uso di dati personali ed affini.  L'uso di drone per acquisire bersagli da far bombardare ad altri, rappresenta un passo ulteriore che riguarda i codici militari di guerra e le possibili corresponsabilità in crimini di guerra, nel caso di uccisioni di civili (CivCas, civilian casualties in gergo militare). Temi resi ancor più evidenti dalla pubblicazione dei “Drone Papers” [2]documenti confidenziali fatti circolare negli States da una “gola profonda”. Armare drone, e renderli così strumenti diretti di attacco, è il punto finale, che "separa" ancor di più chi lo guida e decide di lanciare il missile, dalle conseguenze dirette del suo atto, che gli verranno riportate con un'immagine video dall'alto. E' in quello spazio immateriale  tra guerra reale e virtuale  - esplorato nella splendida opera dell’artista tedesco di origine indiana Harun Farocki, con il suo video “Ernste Spiele - Serious Games” [3] - tra l'atto e la sua conseguenza,  che si consuma l'ennesima definitiva contrazione del diritto internazionale e dell'etica. Lo stesso spazio immateriale che ha tentato per prima di scandagliare Hannah Arendt, con i suoi studi sulla banalità del male, e di recente un bel film presentato a Venezia, "The Experimenter", che parla della storia vera di esperimenti compiuti negli USA per testare la resistenza di un essere umano nel prendere la decisione di infliggere una sofferenza ad uno sconosciuto, e quindi disobbedire agli ordini.  Nel film  questo spazio immateriale veniva raffigurato da un enorme elefante che seguiva gli sperimentatori senza che loro se ne accorgessero. Mi torna così alla mente   un’intervista fatta ad un operatore di Cruise americani all’inizio della guerra nei Balcani, Ero proprio lì a Washington, stupito dell’assenza di mobilitazioni pacifiste, ad ascoltare la CNN: “Senta ma lei ha messo in conto che potrebbe uccidere innocenti?” La domanda “Io mi limito a premere un bottone, non mi chiedo cosa succederà dall’atra parte” la risposta. Va detto che ad oggi a differenza di USA e Inghilterra l’Italia non ha ancora autorizzato l’uso di drone per uccidere selettivamente leader terroristi (come si dice “ targeting leaders”),  ma non esiste alcun tipo di legislazione che normi o definisca i “paletti” per l’uso di drone a scopo militare. E le recenti rivelazioni di alcuni operatori di drone armati “pentiti” gettano una luce inquietante sulla “cultura istituzionale” di impunità e banalizzazione dell’omicidio che si sviluppa proprio grazie a questa distanza.  La decisione di armare i drone italiani,  frutto di una richiesta inoltrata qualche anno fa, arriva in un quadro generale  già di per sé preoccupante. Il decreto missioni di luglio aveva introdotto alcune disposizioni sulla lotta al terrorismo: tra queste quella di permettere ai servizi segreti di operare interrogatori - colloqui si diceva -  con i detenuti possibilmente vicini al fondamentalismo islamico. La questione apriva una serie di interrogativi sulla "tipologia" di questi colloqui, questioni relative agli standard internazionalmente riconosciuti sul rispetto dei diritti umani, e non da ultimo il fatto che l'Italia non ha ancora una legge sulla tortura, tuttora bloccata al Senato. In quel caso si cercò di ovviare subordinando tali colloqui all’autorizzazione delle autorità giudiziarie competenti. Ma quell’elastico tra diritti umani e sicurezza si può allargare o stringere a piacimento: ne è riprova la decisione presa già in occasione del dibattito sul decreto missioni di luglio e ratificata con un emendamento in quello di ottobre di concedere alle forze speciali (incursori, commandos etc) gli stessi poteri degli agenti dei servizi segreti. Così per lo meno hanno divulgato i media. La realtà letta sotto la lente del diritto è un’altra. Quei corpi speciali, qualora autorizzati direttamente dal Presidente del Consiglio, potranno operare   in condizioni di assoluta impunità da possibili reati commessi e segretezza sia in Italia che all’estero.  Solo a seguito delle proteste delle opposizioni si è provveduto a inserire una clausola che prevede l’informazione al Copasir, Commissione parlamentare dedicata ai servizi, che non è chiaro se verrà o meno informata ex ante o ex post, né pare sia l’organo legittimato a assicurare il rispetto della legalità.  Giova anche ricordare un altro dettaglio non di poco conto. Quando venne ratificato in Italia il Trattato di Roma che istituisce la Corte Penale Internazionale, (TPI) il Parlamento, su spinta del governo, decise di prendersi una responsabilità solo parziale, ossia di varare una legge che prevede solo obblighi di collaborazione tra autorità giudiziarie e TPI, in termini di coordinamento, scambio di informazioni etc. Insomma una cosa assolutamente doverosa. Ma anche qua l’elefante nella stanza riappare.  Già, perché mentre sarebbe stato obbligo da parte dell’Italia anche quello di inserire nel codice penale le fattispecie di crimini di guerra e contro l’umanità previste dal TPI, e quindi nei fatti sottoporre anche le proprie forze armate al possibile ricorso al TPI, questo non è accaduto. Probabile risultato dell'azione di quelle stesse menti solerti che fino ad oggi hanno fatto carte false per impedire l’introduzione del reato di tortura o l’attuazione integrale di quella risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che obbliga gli stati membri a istituire un’autorità nazionale indipendente garante per i diritti  umani. In Italia ora c’è ma solo a metà, e riguarda i diritti delle persone in stato di detenzione. Meglio di nulla.   Resta il fatto che accanto a queste zone grigie se ne aggiungeranno altre, grazie alle decisioni prese a Bruxelles [4]in seguito agli attacchi a Parigi, ed ogni giorno di più senza accorgercene, i nostri diritti verranno compressi, messi da parte, ed il diritto internazionale appiccicato come una gomma da masticare consunta sotto il tavolo di chi prende le decisioni. Il nostro elefante  nella stanza.


[1] http://www.reuters.com/article/2015/11/04/us-italy-usa-drones-idUSKCN0ST1VI20151104
[2] https://theintercept.com/drone-papers/
[3] https://www.youtube.com/watch?v=KhxstXzavtU
[4] https://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/closely-observed-citizens; http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2015/05/12/news/con-la-scusa-del-terrorismo-ci-tolgono-i-diritti-stefano-rodota-denuncia-la-deriva-europea-1.212058

sabato 21 novembre 2015

Uno sguardo sulla questione DAESH, guerre, rifugiati, clima


Una mia intervista radio su DAESH, ipotesi di lavoro per il movimento pacifista e iniziative di
 a Firenze contro il Seminario dell'Assemblea Parlamentare NATO sul Mediterraneo

http://www.radiocora.it/post?pst=17913

venerdì 20 novembre 2015

La distopia europea

E' singolare notare che se da una parte l'Europa è intransigente sull'austerity al punto da bloccare ogni tentativo di allentare i vincoli del patto di stabilità per spese sociali e welfare, di fatto dando prorità a quello che dovrebbe essere nella "vulgata" il modello europeo, dall'altra non esita a farli saltare ora per le spese sulla difesa. O forse neanche tanto singolare. Diciamo che l'Europa altra, quella securitaria oggi sembra essere più forte degli strumenti di governance della Trojika e questo fa riflettere: forse oggi la sfida sulla democrazia si sposta di botto sul campo della sfida alle logiche di guerra. Resta il fatto che come in un patchwork vengono cuciti un tassello dietro l'altro. Esclusione delle spese militari dal patto di stabilità (e qualcuno poi verrà anche a dire che il rilancio del comparto industrial-militare servirà a stimolate la crescita e creare posti di lavoro, c'è da giurarci); adozione di legislazione di emergenza o di uno stato di eccezione che prelude al rafforzamento della sorveglianza e intelligence, e non mi è chiaro quali siano i "paletti" necessari in termini di rispetto dei diritti fondamentali (sempre parte del "modello europeo"), attivazione della clausola di difesa collettiva inserita nel Trattato - per i federalisti un piccolo passo in avanti ma che ancora prevede un approccio intergovernativo "bilaterale" tra chi richiede e gli stati membri, Al di là di questo aspetto più "funzionale" resta il fatto che oggi l'Europa risponde compatta almeno dal punto di vista politico, mentre ieri per la Grecia o per i migranti era sbriciolata. E questo ancora è un tema di riflessione necessario.

mercoledì 18 novembre 2015

Una nera storia di petrolio


mio contributo per il rapporto annuale di Sbilanciamoci, 2015 

A giugno del 2015 l'allora viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione ed all'Africa e Medio Oriente Lapo Pistelli, annunciava la sua decisione di dimettersi per assumere l'incarico di vicepresidente dell'ENI. Una decisione che lascia molti elementi in questione, sul ruolo svolto dall'allora viceministro, in una fase assai delicata nel processo di riforma della cooperazione. Qualche giorno prima le agenzia avevano battuto notizie di rivolte contro l'AGIP dello stato di Bayelsa Poco dopo la decisione di Pistelli l'ENI annuncia la scoperta di un enorme giacimento di gas naturale in acque territoriali egiziane. Nulla però si è detto rispetto a cosa significhi fare affari con l'Egitto di Al Sisi, un presidente che fa carta straccia dei diritti umani nel suo paese . Quest'intreccio tra vicende personali, scelte geopolitiche e strategiche, interessi d'impresa, violazioni passate e presenti di diritti umani riporta alla ribalta la relazione tra diritti umani ed interessi d'impresa. Per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo e il ruolo delle imprese non basterà più la responsabilità sociale d'impresa, della quale si fa paladina anche l'ENI, ma andranno previsti impegni vincolanti sulla scorta dell' accordo internazionale su multinazionali e diritti umani attualmente in discussione presso il Consiglio ONU sui Diritti Umani.
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Un episodio che, al di là delle specificità contingenti, pone una serie di interrogativi assai cruciali e che ciononostante nel giro di pochi giorni è scomparso dalla discussione politica sul futuro della cooperazione. A giugno del 2015 l'allora viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione ed all'Africa e Medio Oriente Lapo Pistelli, annunciava la sua decisione di dimettersi per assumere l'incarico di vicepresidente dell'ENI. Tra le varie deleghe quella dei rapporti con gli ”stakeholder”. L'annuncio suscitò una serie di interrogativi sul meccanismo delle “porte girevoli” ossia delle necessarie contromisure atte a scongiurare la possibilità di eventuali conflitti di interesse tra detentori di cariche pubbliche e interessi privati o di impresa. Nel caso di Pistelli la questione venne risolta con una dichiarazione del Presidente della Repubblica Mattarella sulla coerenza nel perseguimento degli interessi nazionali, e con una dichiarazione di compatibilità da parte delle autorità competenti e pertanto a livello formale la vicenda si chiuse . Restano però molti elementi in sospeso, che riguardano il ruolo svolto dall'allora viceministro, in una fase assai delicata nel processo di riforma della cooperazione, laddove uno dei temi più scottanti riguarda proprio il ruolo del settore privato, e nel corso del cui mandato - secondo sua stessa ammissione - erano già iniziati i colloqui con gli alti vertici dell'ENI che avrebbero poi portato alla decisione di lasciare la propria poltrona alla Farnesina. Come ad evidenziare la contraddizione tra gli obiettivi di lotta alla povertà e rispetto dei diritti umani che dovrebbero essere alla base della politica estera e della cooperazione di un paese europeo come l'Italia, e l'agenda privata dell'AGIP-ENI, le agenzia avevano battuto nelle setitmane precedenti l'annuncio ed anche dopo notizie di rivolte di giovani dello stato di Bayelsa – gli “stakeholder” appunto - nelle aree del Niger Delta dove opera da anni l'AGIP e che avevano occupato pozzi dell'AGIP da maggio a luglio, dopo anni di mancate promesse e di mancato versamento di fondi per lo sviluppo locale e la mitigazione dell'impatto ambientale delle attività estrattive. Vale la pena di ricordare che il gruppo petrolifero italiano sempre in Nigeria si era reso responsabile di una serie di casi di corruzione relativi all'impianto di gas naturale di Bonny Island, con esborso di tangenti “mascherate” da costi culturali, ed attività di dialogo con l'esterno. A fine settembre di quest'anno poi le autorità dello stato di Bayelsa hanno inviato una lettera di protesta alla consociata ENI in Nigeria (NAOC) per l'inquinamento da essa causato da sversamenti di petrolio, intimando alla compagnia di procedere immediatamente alle operazioni di pulizia. Secondo il Ministro dell'Ambiente dello Stato di Bayelsa dal 2014 si sarebbero registrati almeno 1000 sversamenti dai impianti NAOC. Se questo episodio non fosse bastato ad evidenziare la contraddizione tra attività di impresa, sviluppo umano e rispetto dei diritti umani, poco dopo la decisione di Pistelli di andare agli alti vertici dell'ENI fece scalpore l'annuncio della scoperta sempre da parte dell'ENI di un enorme giacimento di gas naturale in acque territoriali egiziane. Un annuncio comunicato personalmente dall'amministratore delegato al presidente egiziano Al-Sissi. Si disse che tale scoperta cambierà la geopolitica della regione, metterà in difficoltà Israele e le sue ambizioni di diventare leader regionale nel settore energetico. Nulla però si è detto rispetto a cosa significhi fare affari con l'Egitto di Al Sisi. Un partner politico ed economico privilegiato del governo e del premier Renzi che si è fatto promotore di un'alleanza a tre tra lui, Bibi Nethanyahu e Al Sissi per cercare di svolgere un ruolo di leadership nel delicatissimo schacchiere mediorientale. L'ENI quindi come “longa manus” della politica estera del paese, per fare affari con un presidente militare, che usa il pugno di ferro, condanna a morte decine di attivisti dei Fratelli Musulmani, imprigiona leader della primavera di Tahrir e giornalisti. Quest'intreccio tra vicende personali, scelte geopolitiche e strategiche, interessi d'impresa, violazioni passate e presenti di diritti umani riporta alla ribalta l'annosa questione relativa alla prioritià dell'imperativo dei diritti umani rispetto agli interessi del mercato e dell'impresa. Si disse a suo tempo che le rendite dell'estrazione del gas assicureranno la stabilizzazione dell'Egitto, ma nulla si disse del fatto che a Tahrir la gente chiedeva non pane ma democrazia, e che i militari sono in Egitto un potere economico parallelo. Allora, per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo e il ruolo possibile delle imprese non basterà più rifarsi all'usato ed abusato concetto di responsabilità sociale d'impresa, del quale si fa paladina anche l'ENI, ma andrà fatto un passo in avanti più concreto , in sostegno ad un accordo internazionale sui diritti umani vincolante per le imprese attualmente in discussione presso il Consiglio ONU sui Diritti Umani.

Contro la guerra ed il terrorismo: le nuove sfide per il rilancio del movimento pacifista



La strage di  Parigi  impone uno scenario  che ci chiama, in quanto pacifisti,  ad un grande sforzo di collaborazione e proposta collettiva, ed uno sguardo alle dinamiche politiche e geopolitiche può aiutare a definire le direttrici per un rilancio delle iniziative contro la guerra ed il terrorismo di DAESH (o ISIS). Poche ore prima delle  stragi di Parigi, a Vienna  nell’incontro  sulla Siria tra il segretario di stato Kerry ed il suo omologo russo Lavrov  si è concordata una possibile uscita di scena di Assad – l’elemento che impediva fino ad allora un cambio di passo – assieme all’opera di  mediazione dell’ ONU verso  i soggetti e le fazioni in lotta tra di loro, ed un lavoro di ricognizione degli attori in conflitto per identificare possibili interlocutori e “nemici” da “gestire” con la forza. Presto per cantare vittoria vista la complessità delle ambizioni geopolitiche anche contraddittorie, tra Russia, Turchia, Iran, Arabia Saudita. Si è   formata poi un’inedita alleanza militare tra Russia e Francia  in una situazione di balcanizzazione dei conflitti tra varie fazioni islamiste, foraggiate più o meno da interessi esterni, la resistenza anti-DAESH e  legittime rivendicazioni di autonomia democratica da parte dei Kurdi del Rojava osteggiata dalla Turchia che vorrebbe “blindare” il suo confine sud.  Eppoi la svolta nelle relazioni tra Obama e Putin (già attivo militarmente a fianco di Assad ed  ancor di più dopo il tremendo attentato all’aereo di linea in Sinai) al minimo storico a causa della crisi ucraina. La strage di Parigi porta ad  un’accelerazione di scelte di tipo militare che rischiano di incrinare sul campo il già labile equilibrio raggiunto a Vienna. E poco si è sentito sull’urgenza di impegnarsi di più per ricucire le lacerazioni tra mondo sunnita e sciita in Irak, altro brodo di coltura per DAESH. Il G20 di Antalya tenutosi pochi giorni dopo i fatti di Parigi ha prodotto accanto al tradizionale comunicato su scenari economico-finanziari,  la collaborazione nel settore bancario, e  la gestione dei flussi migratori, un comunicato contro il terrorismo, [1] Su questo sfondo nostro compito potrebbe essere quello di elaborare e condividere proposte di gestione “altra” del conflitto attraverso strumenti di diplomazia dal basso,   creando ponti con le vittime prime del conflitto, escluse dai giochi della politica e della geopolitica, quelle popolazioni civili e le reti sociali che in Siria [2]o Irak [3]  lavorano per la pace. La questione migranti è un altro fronte che implica il monitoraggio delle politiche di gestione delle frontiere [4]  - intenzione di Hollande è di chiedere che le frontiere europee di fatto vengano sigillate -  e  prevenire, attraverso la costruzione di relazioni e ponti con il mondo di religione musulmana e le seconde generazioni, una possibile deriva xenofoba ed  anti-musulmana.  E l’Italia nel quadro possibile di operazioni militari? Ad oggi, la  cautela di Renzi, fa il pari con la decisione di prolungare la missione in Afghanistan e   rafforzare la presenza di addestratori per i peshmerga irakeni. L’Europa   potrebbe   rappresentare una svolta non proprio in senso positivo. Il Presidente Hollande ha infatti chiesto ed ottenuto l’applicazione di una clausola di comune difesa che impegna gli stati membri a fornire collaborazione di vario tipo su base bilaterale.  Già si parla di un possibile avvicendamento di contingenti tedeschi a sostituire quelli francesi che attualmente combattono in Mali. Il Presidente del Consiglio non nasconde le sue intenzioni di giocare un ruolo di primo piano nella crisi libica – tuttora irrisolta, vista l’esito della mediazione ONU - anch’essa in parte inquadrabile nella lotta al DAESH. La UE prenderà  anche decisioni riguardo la tracciabilità dei conti bancari, ed il controllo su circolazione di armi nell’Unione, ma non basta. Dovremo chiedere un embargo sulla vendita di armi ai paesi della regione, ed aggredire le fonti di finanziamento derivanti dai profitti del contrabbando di petrolio in Turchia e paesi limitrofi. Paesi che dovrebbero invece essere centrali per un negoziato a tutto campo che veda anche partecipi Unione Europea, Francia Inghilterra, Russia, Cina e Stati Uniti. Dovremo poi vigilare sullo stato di diritto e sulle torsioni che lo stesso rischia a seguito delle misure contro il terrorismo che di fatto introducono uno stato di “eccezione”  Ciò riguarda non solo il discorso di Hollande subito dopo gli attentati nei quali invoca una riforma della Costituzione per permettere l’estensione dello stato di emergenza e poteri speciali[5] ma anche - a casa nostra - le ricadute possibili di scelte quali quella di dotare le forze speciali di poteri simili a quelli dei 007 [6]quindi  agire in operazioni “undercover” che riportano alla memoria le “rendition” del post-11 settembre.  Vigilare quindi sulla tutela dei diritti civili ed il rispetto dei diritti umani per tutti [7]Insomma uno scenario nel quale le sfide sono plurali, ma che potrebbe fornire l’occasione per un lavoro di mobilitazione dal “basso”, e di creazione di reti e condivisione tra realtà e soggetti non tradizionalmente legati all’arcipelago “pacifista” propriamente detto.  Per permetterlo sarà necessario un grande sforzo di fantasia e condivisione, di costruzione di strumenti di lavoro collettivi, di messa in comune di conoscenze e competenze, e di pratiche di “autogestione” decentrata delle mobilitazioni.

(contributo per il settimanale online dell'ARCI-Report) 

martedì 17 novembre 2015

La parrucca di Rousseau e l'elmetto di Napoleone

Per chi ha seguito passo per passo lo svolgersi degli eventi subito dopo l'11 Settembre, le discussioni parlamentari e non, il crescendo di tensione e l'agglutinarsi di una sorta di santa alleanza contro il terrorismo, la compressione dei diritti, la costruzione di uno stato di eccezione non dichiarato ma nei fatti, "Ausnahmezustand" di schmittiana memoria, l'evocazione continua delle armi e della vendetta oggi è il momento di fare un passo audace. Oggi come non mai prima il ripudio della guerra dev'essere totale, ragionato, non ideologico ma pragmatico. Ma mentre ieri la guerra partiva da Washington e l'Europa era divisa, meno propensa (ricordate le invettive del neocon USA Robert Kagan: "voi europei dei pipo, vivete come su Venere con i vostri ideali della pace kantiana, ma senza di noi, dei guerrieri di Marte dove pensate di andare?") oggi sembra come se quell'Europa frammentata, divisa, in permanente crisi di vocazione ed identità , proprio nella guerra cerchi la sua ragion di esistere. ,Non se è chiara la cosa: Hollande chiede il sostegno dell'Unione Europea nella guerra contro Daesh, in nome dell'articolo del Trattato che prevede una clausola di difesa collettiva. Arriva ora la risposta di Federica Mogherini: sostegno incondizionato del Consiglio Difesa dell'Unione. Ora, vedere che l'Europa sia compatta nel sostenere una reazione militare di "guerra"  mentre non lo è stata nell'accoglienza ai profughi, o nel contrasto alla povertà ed all'austerity, insomma, fa male no? Quindi oggi senza un minimo di dibattito nei parlamenti degli stati membri, l'Unione Europea si mette l'elmetto anche se con un atto essenzialmente politico che non prelude al varo di una missione europea in quanto tale. Sta il fatto che mentre  Hollande si toglie la parrucca di Rousseau e Voltaire,  l'Alto Commissario indossa la mimetica e verranno avviate consultazioni bilaterali per meglio definire il contributo che ogni singolo stato membro potrà dare alla Francia. Ma hanno chiaro che la guerra non è iniziata ora e che proprio con le bombe e le armi la sua fine si allontana? Hanno presente che ai 20mila seguaci del Califfato presumibilmente uccisi nei raid finora se ne sono aggiunti altrettanti per emulazione o vocazione al martirio? Hanno chiaro che se si spinge il piede sull'acceleratore della guerra rischia di andare a farsi benedire la possibile trattativa diplomatica sulla Siria, uno dei punti di svolta necessari? E che se non si fanno due chiacchiere seriamente con Erdogan, quello continuerà a prendersela con i Kurdi visti come la vera seria minaccia alla Turchia? Hanno chiaro che il terrorismo - anche qua attenzione in realtà ci troviamo di fronte ad un folle progetto geopolitico criminale ma che vuole ridisegnare i confini del mondo usando la strategia del terrore e la guerra asimmetrica - insomma che Daesh va sconfitto con l'omeopatia e non con la medicina allopatica? Che vanno rafforzate le capacità dell'organismo malato di espellere il male e non intervenire con il bisturi o con la chimica?  Se non l'hanno chiaro toccherà a noi spiegarlo. 

sabato 14 novembre 2015

Parigi non val bene una guerra

C'è un silenzio spettrale, inconsueto oggi fuori dalla mia casa. Non sento voci, i rumori attutiti. Sembra come che questo risveglio oggi ci porti su un'orizzonte tragicamente nuovo, sconosciuto. Non so, ma mi pare che la sequenza di attentati da Sharm ElSheik,a Beirut ed ora Parigi segni uno spartiacque. Si dice questo è l'11 settembre dell'Europa. E ieri mentre mi arrivavano le notizie sul cellulare mi venne in mente quella telefonata dal mio ufficio nel Senato nella quale mi si diceva che un piccolo aereo si era schiantato su una delle Torri. Ma ieri sera cercavo su chat di dare indicazioni ad una mia cara amica persa per strada a Parigi su dove non andare o passare per tornare a casa, aggiornandola in diretta. E la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di inedito, nuovo, tragicamente più grande di noi. Oggi ho la stessa sensazione e non perché le migliaia di morti fatti dalle guerre e dal terrorismo jihadista oltreconfine valgano meno, ma perché ora come non mai è evidente che la guerra che sempre veniva vista come qualcosa di "lontano", da combattere altrove o far combattere per procura , sorte tragica per altri popoli, che secondo la vulgata "mainstream" forse in fondo in fondo se l'erano andata a cercare, ci accomuna. Entra nelle viscere, nell'anima non nei dibattiti o negli articoli di giornale. Forse la cosa più sensata che ho letto finora oltre alle tristi e prevedibili ma per questo non tanto meno deprecabili reazioni di pancia di politici e non, o di una compulsiva sequela di autoflagellazioni dietrologiche per colpe dell'Occidente, riguarda quelle persone che scappano qui in Europa e che l'Europa vorrebbe lasciare a casa loro. "Voi che ce l'avete con loro, ora vi rendete conto che scappano dalla stessa identica tragedia?". E mi sono tornate alla mente alcune riflessioni fatte dopo l'assalto a Charlie Hebdo, e ahimé tuttora assai pertinenti. Sono riflessioni che non prescindono dall'urgenza di assicurare a tutti e tutte incolumità e operare per la prevenzione, credo che questo sia un nostro diritto di cittadini e cittadine. Ma di inquadrare tutto intorno ai principi di rispetto dei diritti umani e civili, del dialogo e della convivenza civile, mettendo al bando parole di guerra.
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Dentro-fuori. Mi torna spesso alla mente quest'ipotesi di lavoro per cercare di immaginare una qualche risposta "politica" all'ennesimo dramma che occupa ora le nostre teste, e le testate di giornali di tutto il mondo. Solo frammenti di ipotesi di lavoro. Il primo: prendere coscienza del punto dal quale parte il nostro sguardo sugli eventi. Un punto di partenza di cittadini e persone di sinistra, o per lo meno preoccupate di assicurare i diritti, promuovere la pace, ed il bene comune. Io persona di sinistra, non islamica, che si sforza ma che si rende conto di non poter avere tutti gli strumenti per capire un mondo "altro". Allora riconoscere la propria limitatezza e la propria "alterità" serve a decifrare meglio le ipotesi sulle quali provare ad avviare una riflessione concreta. Secondo: che l'Islam lo conosce e lo vive chi è islamico, chi è laico ma deriva da quella storia, chi si sforza di superare barriere, chi costruisce ponti e prova a ridisegnare frontiere. Che la linea di frontiera la definisce chi sta da una parte ma anche da chi sta dall'altra parte. E' lì il tema della negoziazione, della mediazione, della traduzione delle differenze. Allora ne sovviene la terza: ogni esperimento di ingegneria sociale, di costruzione a tavolino di società multiculturali è fallito, dall'Inghilterra alla Francia. E si deve riprendere il discorso su altre fondamenta, quelle della centralità del soggetto che si vorrebbe beneficiario di tale politica. Credo che l'unica maniera per poter affrontare questo grande interrogativo che ci pone l'integralismo islamico, con le sue derive violente e militari sia quello di provare a sostenere una strategia dentro-fuori. Chi è dentro quel mondo sa ed ha gli strumenti per mettere in discussione le sue degenerazioni, ha i linguaggi, le pratiche, nel sangue, nella mente. Sono loro che - senza applicare distinzioni tra islam radicale o moderato - sono cittadini e cittadine di cultura, estrazione o religione musulmana che ripudiano la guerra, la violenza, il fanatismo, che vogliono vivere in una società plurale che sappia valorizzare le differenze senza necessariamente omologarle a forza. Sono loro cui spetta il lavoro "dentro", E noi possiamo solo contribuire a creare le condizioni perché questo avvenga. Ossia, la politica invece di dichiarare guerra dovrebbe mettere in campo iniziative, progetti, risorse per dare capacità "empowerment" per quelle persone, assicurare la circolazione di idee, agevolare lo scambio, sostenere iniziative culturali e di dialogo all'interno di quella o quelle comunità. Eppoi far si che ogni possibile rigurgito razzista, islamofobico, xenofobo sia messo al bando, perseguito che alla fine l'agenda politica di chi uccide in nome di Allah è identica a quella di chi vuole sbarrare le frontiere, perseguire chi si percepisce come diverso. Aprire spazi di dialogo ed interlocuzione all'interno, e costruire barriere di protezione dei diritti civili ed umani, di rispetto della dignità della persona all'esterno e dall'esterno. Per far sì che anche la necessaria opera di tutela della "sicurezza", significhi protezione e tutela della dignità e dei diritti delle persone, non deriva securitaria.
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giovedì 12 novembre 2015

Oltre il debito, la vera svolta democratica per l'Europa

Come superare l'attuale modello di 'governance' europea riaffermato nei fatti dal recente 'documento dei 5 presidenti' ? . Se dovessi calzare nuovamente il mio cappello di "attivista" altermondialista, che in realtà non ho mai dismesso, credo che questa possa essere una buona occasione per ragionare assieme su possibili iniziative da mettere in campo e da proporre anche oltreconfine. In quest'ottica credo che si debba partire da un importante atto di 'rottura' che a mio parere potrebbe assumere la forma dell'autoconvocazione di una conferenza europea sul debito, ancor più importante ora con la possibile svolta a sinistra in Portogallo. Insomma una conferenza delle forze di sinistra ed ecologiste e dei movimenti sociali che metta in seria discussione il debito e le sue conseguenze. Eppoi credo sia necessario immaginare un uso 'creativo' del diritto, e lavorare ad un'azione collettiva contro la troika e gli organismi della 'governance' europea presso la Corte europea dei diritti dell'uomo. Esiste un importantissimo precedente con la recente risoluzione dell'Assemblea Generale ONU su debito e diritti umani riguardante l'Argentina ed anche il lavoro svolto dal Consiglio ONU sui Diritti Umani, che propone procedure di insolvenza ed arbitrato democratico e trasparente sul debito, come alternativa "politica" ai modelli di "governance" finanziaria illegittimi. Questo atto di rottura assumerebbe in sé un carattere "costituente" in quanto metterebbe in crisi l'assetto di governance attuale, e collocherebbe la discussione sul nuovo assetto democratico dell'Europa nel quadro del diritto e dei diritti, e nelle mani dei cittadini e cittadine.
Ultimo ma non da meno, declinare la svolta democratica in termini di 'democrazia reale' e cittadinanza transnazionale e di 'buen vivir' attraverso la trasformazione radicale del paradigma di sviluppo. Anche attraverso questi canali si ricostruisce la democrazia reale, democrazia ecologica e democrazia della cittadinanza universale. Tre atti di rottura quindi, che hanno a che vedere in un modo o nell'altro con il debito: quello finanziario che accumula debito sociale ed ecologico, quello storico relativo alle conseguenze delle politiche neocoloniali dell'Europa, e quello ecologico e climatico, nuova frontiera per la costruzione di un'alternativa di vita e società. A casa nostra questo cosa significa? Da una parte il contrasto alla legge di stabilita' dall'altra sostegno a pratiche di mutualismo dal basso e accoglienza ai migranti ad esempio e forte sostegno ai referendum e mobilitazioni no triv e no oil.  

Turi e la guerra

Stamattina alzandomi pensavo a Turi Vaccaro, alle sue foto mentre prendeva a martellate appollaiato lassu' in cima in una mano delle trecce d'aglio, l'antenna del MUOS, e mi sono ricordato di quelle donne pacifiste di Trident Ploughshares - una delle quali che in effetti era la fondatrice, Angie Zelter, ebbi la ventura di conoscere decenni or sono - che attuarono innumerevoli azioni dirette nonviolente contro i missili Trident. Angie poi si becco' un processo per essere Intervenuta per disarmare (ovviamente non a parole) un cacciabombardiere inglese Hawk che doveva essere inviato all'aviazione indonesiana per bombardare Timor. O del prete portoricano Luis Barrios, ospite anche a casa nostra, (ricordo una cena nella quale gli chiesi consiglio riguardo a come opporsi alla missione ISAF in Afghanistan) che entro' di straforo nella base americana di Viequez a Porto Rico per celebrare messa, e poi essere messo sotto processo. O del mio vecchio capo David McTaggart fondatore di Greenpeace International che con la sua barchetta a vela, la Vega, violo' i confini di una zona militare francese per bloccare esperienti nucleari a Mururoa. O quelle suore americane tra cui Megan Rice che nel maggio scorso usci' di galera dopo due anni per essere entrata alla veneranda eta' di 82 anni nella base nucleare di Oak Ridge in Tennessee. o gli attivisti italiani di Stopthattrain che - a memoria per chi era ancora assai giovane allora - si impegnarono in una diffusa campagna di disobbedienza civile ed azioni dirette nonviolente per bloccare i rifornimenti di armi e muniziomi per i contingenti americani in Iraq. Per non scordarsi di Comiso e recentemente dell'irruzione nel poligono di Capo Teulada per protestare contro l'esercitazione NATO Trident Juncture. E continuo ad essere convinto che per fermare la logica della guerra e dell'assassinio programmato, la disobbedienza sia un dovere morale di ognuno ed ognuna di noi.

lunedì 9 novembre 2015

La vera strategia mediterranea di Palazzo Chigi e dell'ENI


Un articolo pubblicato sulla rivista online di politica internazionale dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) sulle strategie dell’ENI nel Mediterraneo finalmente mette nero su bianco cosa c'è dietro la linea politica di Palazzo Chigi: la creazione di un superhub energetico nel Mediterraneo, una triangolazione Egitto, Israele, e poi Libia. Mentre imprese petrolifere italiane stanno buttando un occhio su giacimenti in Israele, e la Knesset discute del possibile accordo petrolifero con l'ENI che nei fatti ridimensionerebbe le sue aspirazioni energetiche nella regione. Primo passo, alleanza tra Renzi, Al Sissi e Bibi. E si chiudono ambedue gli occhi su diritti umani, e violazioni della legalità internazionale e popolo palestinese. Fase due, mettere i piedi nel piatto in Libia magari facendosi capofila della missione di "stabilizzazione" nel paese. E cercando di guadagnarsi un posto al tavolo per poi provare a prendersi in quota il settore energetico e petrolifero. Non è la SPECTRE, ma l'operazione fa assai pensare. Alle commistioni evidenti tra interessi di impresa e presunto interesse nazionale (già ricordiamo come il Presidente Mattarella "autorizzo" il passaggio di Lapo Pistelli da Viceministro degli Esteri con delega a quella regione a vicepresidente dell'ENI), interessi geostrategici e militari (Palazzo Chigi freme per avviare la presenza militare italiana in Libia). Alle amnesie non casuali, basta ricordare il viaggio di Renzi in Israele, o l'accoglienza data a a Bibi a Firenze. Della Palestina nessuna traccia. Quando allora si parla di giustizia climatica e di debito ecologico si dovranno tenere a mente anche queste cose. Ossia che per perpetuare la dipendenza da combustibili fossili nel ostro paese oltre che a trivellare in mare e non solo, si praticano strategie di politica estera che fanno carta straccia dei diritti umani e del diritto internazionale. Nel frattempo Barack Obama finalmente e doverosamente annuncia il suo veto alla XL Keystone pipeline una grane vittoria dei movimenti ambientalisti ed indigeni. Resta però il fatto che gli USA hanno acquisito autonomia energetica attraverso lo sfruttamento del shale gas e shale oil e il fracking, in ossequio alla logica del capitalismo post-neoliberista, il capitalismo "neo estrattivista". Fa pensare che questo tema, quello non dell'ambiente come opportunità di crescita o tutela della bellezza ma come chiave di volta per il superamento del capitalismo,   sia così marginale nel dibattito sulla sinistra che verrà.  Un tema che invece sarà al centro delle mobilitazioni dei movimenti per la giustizia climatica nelle prossime settimane a Parigi.

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martedì 3 novembre 2015

Le chiacchere di Renzi nel deserto libico


L’accusa rivolta dal governo di Tobruk all’Italia su un pos­si­bile scon­fi­na­mento – ritual­mente smen­tito dal mini­stero della Difesa — in acque ter­ri­to­riali libi­che di tre navi par­te­ci­panti alla mis­sione navale Euro­na­v­for Med è solo la punta di ice­berg di una situa­zione ad alto rischio. Una con­giun­tura nella quale il pro­ta­go­ni­smo «ver­bale» e non solo nel governo ita­liano rischia di com­pro­met­tere le tenui pos­si­bi­lità di riu­scita del piano di Ber­nar­dino Leon in un qua­dro nel quale il sus­se­guirsi di epi­sodi di vio­lenza farebbe sal­tare ogni ipo­tesi di tran­si­zione poli­tica nel paese. L’ormai ex inviato spe­ciale delle Nazioni unite per la Libia è stato di recente sosti­tuito nel suo inca­rico dal tede­sco Mar­tin Kobler, finora inviato spe­ciale Onu per la Repub­blica Demo­cra­tica del Congo.
Vale la pena ricor­dare che Kobler prese l’incarico in con­co­mi­tanza con il cam­bia­mento delle regole d’ingaggio del con­tin­gente di caschi blu Monu­sco che da allora hanno un assetto con grande capa­cità offen­sive e non solo di difesa. Un uomo quindi che ha espe­rienza di nuove forme di pea­ce­kee­ping, non più tra­di­zio­nali , che con­tem­plano l’uso pre­ven­tivo di forza letale. Ossia di azioni di guerra.
L’accordo annun­ciato da Leon qual­che set­ti­mana or sono, posa su basi fra­gili, giac­ché piut­to­sto che fon­darsi sul rico­no­sci­mento di due governi come inter­lo­cu­tori legit­timi avrebbe dovuto essere imper­niato su un governo uni­ta­rio «oltre» le due fazioni di Tobruk e Tri­poli, e su un forte lavoro di dia­logo ’oriz­zon­tale’ tra gruppi tri­bali e quelle realtà orga­niz­zate soprav­vis­sute alla caduta di Ghed­dafi e su un accordo sulle que­stioni rela­tive alla sicu­rezza ed alla gestione con­di­visa delle risorse petro­li­fere e della Banca cen­trale. Men­tre da Tobruk par­ti­vano accuse all’Italia — pos­si­bil­mente forag­giate da Haf­tar capo mili­tare mes­sosi a capo di una «cro­ciata» anti-islamica che ver­rebbe estro­messo dal futuro assetto di governo — a Tri­poli, sede del governo isla­mi­sta libico della Tri­po­li­ta­nia, veniva deva­stato il cimi­tero ita­liano. Uno slan­cio patriot­tico die­tro il quale potrebbe esserci chi da quell’accordo si sente escluso e che oggi com­batte con­tro le mili­zie di Haftar.
Già a fine set­tem­bre a Ben­ghasi si erano veri­fi­cati com­bat­ti­menti tra le mili­zie di Hef­tar (Ope­ra­zione Dignità) e mili­tanti isla­mici, e pro­prio la set­ti­mana corsa ancora a Ben­ghasi, in un attacco armato, attri­buito dal governo di «sal­vezza nazio­nale» alle mili­zie di Hef­tar, hanno perso la vita alcuni dimo­stranti che occu­pa­vano la piazza Al Keesh per pro­te­stare con­tro il piano di Leon. Pochi giorni prima aerei non iden­ti­fi­cati bom­bar­da­vano le posta­zioni di Daesh a Sirte. Una situa­zione con­fusa ad alto rischio e con ricor­renti esplo­sioni di vio­lenza men­tre i par­la­men­tari delle due fazioni con­trap­po­ste non hanno ancora votato l’approvazione del piano di Leon. Intanto a livello di Unione Europa si parla nuo­va­mente di san­zioni – pro­ba­bil­mente in tema sarà al cen­tro di un incon­tro mini­ste­riale a metà novembre.
Fatto sta che il retag­gio del pas­sato colo­niale rie­merge di tanto in tanto. Ed a far­gli eco qual­che giorno fa le parole dell’Ammiraglio Cre­den­dino, for­te­mente voluto da Roma a capo di Euro­na­v­for Med sull’uso della forza letale da parte delle forze dislo­cate in mare, e qual­che set­ti­mana fa la noti­zia — smen­tita ovvia­mente dagli alti comandi della Difesa — di un’incursione di forze spe­ciali ita­liane che avrebbe por­tato all’uccisione di un capo-scafista.
Insomma que­sta la situa­zione ad altis­simo rischio che tro­ve­rebbe sul campo una forza armata ita­liana di sta­bi­liz­za­zione. Una situa­zione di guerra. Eppure di que­sto si con­ti­nua a par­lare più o meno die­tro le quinte, men­tre dall’altra parte delle quinte si annun­cia la per­ma­nenza e l’aumento di effet­tivi in Afgha­ni­stan. Insomma un qua­dro allar­mante, carat­te­riz­zato da una asso­luta subal­ter­nità alle diret­tive di Washing­ton da una parte, e dall’altra dalla fre­ne­sia del pre­mier Renzi di volersi met­tere a capo di un’avventura oltre­mare, dopo essere stato tagliato fuori dalla par­tita della suc­ces­sione di Leon, ed essersi fatto fau­tore di un’alleanza che si potrebbe defi­nire assai «spre­giu­di­cata» con Bibi Netha­nyahu e Fat­tah al Sissi. Altro che «sca­to­lone di sabbia».

uscito su Il Manifesto, 3 novembre 2015 

I dimenticati del Sahara: l'alluvione si abbatte su campi Sahrawi


“People under occupation”; questa formula in linguaggio onusiano di norma è un riferimento ai palestinesi. La sua comparsa nell'ultima bozza negoziale per la COP21 di Parigi racconta invece di un'altra storia. Quei popoli sotto occupazione stavolta sono i Sahrawi, dimenticati dai media mainstream, e dalla politica internazionale. Sono migliaia di esseri umani che per anni hanno vissuto in mezzo al deserto, in campi sostenuti principalmente dalla solidarietà internazionale. Abitazioni di fortuna fatte in adobe o costruire con i teli blu forniti dale agenzie umanitarie. I Sahrawi fino ad oggi sono stati argomento di negoziato, controversia, dibattito che richiamavano i tempi delle colonie e l'arduo processo di decolonizzazione. Le dinamiche geopolitiche tra potenze regionali e paesi europei. Il difficile se non impossibile compito della diplomazia internazionale finalizzato a quel referendum sull'indipendenza o autonomia da anni invocato e sempre rinviato. La frustrazione così inizia a diffondersi tra chi da anni ha scelto di ricorrere agli strumenti della legalità e del diritto internazionale , alla nonviolenza ed alla diplomazia. Questa è stata finora la narrazione che accompagna la “questione” del Sahara Occidentale. Il quadro ora si aggrava ulteriormente, e quella postilla aggiunta in fretta al documento bozza dell'Accordo di Parigi, apre un nuovo capitolo nel dramma di quel popolo. Oggi i campi sahrawi sono devastati da un'alluvione senza precedenti, un effetto dei mutamenti climatici che ha messo in ginocchio decine di migliaia di persone. L'Acnur calcola che nei campi di Tindouf almeno 25mila persone stiano soffrendo gli effetti di questa alluvione che ha dstrutto case, negozi, scuole a Awserd. Dakhla, Laaoyoune, Bouyden, Smara, dove vivono circa 90mila persone. L'ACNUR sta inviando beni di prima necessità, ed anche dall'Italia è partita la macchina della solidarietà. Molto però ancora resta da fare, e non solo in termini di emergenza. La questione del Sahara Occidentale non può ora rimanere confinata alla tragedia che quel popolo, quelli che potrebbero essere definiti “rifugiati climatici” sta vivendo, ma rimessa con forza al centro dell'agenda di politica estera in Italia ed Europa.  

uscito su Dazebaonews 3 novembre 2015