venerdì 21 dicembre 2012

camminare domandando - per una nuova partita

In queste fasi concitate, anche dentro il mio partito, e non solo, penso spesso alle persone con le quali - per mia grande fortuna - passo da quattro anni gran parte del mio tempo. Molte di oggi sono in Guatemala a celebrare l'inizio del nuovo mondo. E guarda caso oggi riescono dietro i passamontagna, da Oventic a San Cristobal. Penso spesso a quello che mi hanno insegnato, e che ormai è parte di me da quando degli anziani sciamani Kuna mi hanno adottato, ed a quello che mi dicono spesso. Ad andare lentamente quando si ha fretta, a pensare sempre alle prossime sette generazioni, quando si decide di fare una cosa o intraprendere un'iniziativa politica. A capire quando stare zitto, piuttosto che parlare. A guardare oltre con dolcezza ma determinazione. Perchè sanno ascoltare i loro vecchi, ma i loro vecchi sanno come accompagnarli con saggezza verso il futuro. Perché si rispettano a vicenda. Si fermano, a volte si ritirano, riflettono, guardano dentro loro stessi o si confrontano con la loro comunità. Loro possono anche scazzare di brutto, essere in disaccordo, ma alla fine sono fratelli e sorelle, fumano, bevono assieme, e trovano il consenso per tutelare la loro comunità, proteggerla, perché l'essere fratelli e sorelle li aiuta a resistere da centinaia di anni. Quello manca in queste ore, e quello rischia di ammazzarci. Siamo ancora in tempo. La politica è soprattutto questo, non si esaurisce in un posto in Parlamento

lunedì 10 dicembre 2012

Diritti umani e dignità, l'antidoto all'orrore

Dicembre 10, 2012 - giornata mondiale sui diritti umani. Non dev'essere una celebrazione rituale ma il ricordo che senza il riconoscimento della dignità delle persone, dell' universalità ed indivisibilità dei diritti umani, senza ragionare su modalità innovative per la loro promozione che rifuggano il rischio di quello che Slavoj Zizek chiamava "L'orrore dei diritti umani", (forse provocatoriamente come suo solito, ma con un fondo di verità), non ci sarà politica, impegno, trasformazione sociale che tenga. E che sia anche occasione per ragionare sul fatto che esistono anche diritti dei non-umani, diritti di nuova generazione, che si rendono necessari o si manifestano di fronte all'avanzata della frontiera della privatizzazione e colonizzazione dei mercati.

domenica 9 dicembre 2012

Doha, porta di entrata per un futuro infernale

Il Manifesto, 9 dicembre 2012


Doha: porta di entrata per un futuro infernale.
Francesco Martone (*), Alberto Zoratti (**)


Alla fine ce l'hanno fatta. Dopo una serie di colpi di scena è stato approvato a colpi d'ariete della presidenza qatariota e sul filo del rasoio (nonostante la resistenza in zona Cesarini della Russia) il “Doha Climate Gateway”. Una porta di entrata per il futuro con l'estensione del protocollo di Kyoto, il riconoscimento del risarcimento per danni causati dai cambiamenti climatici e l'impegno dei paesi industrializzati di stanziare per lo meno una somma pari alla media di quanto sborsato in aiuti climatici negli ultimi 3 anni. Una proposta di minima visto che troppi erano i gap da colmare. E' uno dei tanti paradossi di questa Conferenza delle Parti sui mutamenti climatici che è conclusa sul filo del precipizio a Doha, città simbolo di opulenza, immenso cantiere a cielo aperto, sede un incontro che all'inizio si annunciava come un appuntamento di transizione. 

 Così non è stato. Le ultime fasi del negoziato del livello “ministeriale” si sono protratte ben oltre i tempi previsti, tra mancanza di volontà politica di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, (Stati Uniti in particolare) e richieste insoddisfatte di un aumento dei fondi per sostenere i paesi in via di sviluppo o rapida industrializzazione verso un'economia a basso contenuto di carbonio, – la Cina nello specifico, ma non solo. Ed un ultimo colpo basso della Polonia con dietro le spalle Russia ed Ucraina intenzionate a proteggere il loro diritto di vendere alte quote di permessi di emissione fino al 2020, anche se ciò avrebbe portato al fallimento totale della Conferenza. Così nella “land of plenty” del Qatar, l' occasione per l'Emiro Hamad bin Khalifa al Thani di proporsi al mondo come paladino dell'ambiente rischiava di sfumare per una questione di quattrini, e per manifesta incapacità dei suoi diplomatici. Se non fosse bastata la condanna all'ergastolo per Mohammed al-Ajami, un poeta giudicato colpevole di "sovversione del sistema di governo" e "offesa all'emiro" per una sua poesia dedicata alla “Tunisia dei gelsomini”. 

Anche qui a Doha si riverberano gli effetti della “crisi” finanziaria in Europa, che a Durban aveva messo assieme paesi poveri ed insulari salvando il negoziato , e che poco dopo, vista l'incapacità di tener fede alle promesse di aiuti finanziari, ha visto indebolirsi il suo potere di trattativa. La morsa del Fiscal Compact, e delle politiche di austerità sostenute dalla BuBa e dalla Cancelliera Angela Merkel stanno così avendo un effetto devastante anche sul profilo internazionale dell'Unione già compromesso dalla posizione oltranzista di Varsavia. A Doha c'era da concludere il Piano di Azione di Bali su temi quali adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, finanziamenti, strumenti di attuazione, il prossimo regime di riduzione delle emissioni globali. Si è faticato fino all'ultimo secondo per poter passare la palla al gruppo di lavoro creato a Durban che dovrà trattare un accordo globale vincolante per tutti entro il 2015, per entrare in vigore nel 2020. Fumo negli occhi di Todd Stern, negoziatore di Washington. 

 Un passo in avanti però c'è stato, si riconosce per la prima volta il diritto dei paesi insulari al risarcimento per le “perdite e danni”” per i danni subiti a causa dei cambiamenti climatici. Fino all'ultimo è rimasta aperta la questione finanziaria, ovvero come reperire quel che resta dei 30 miliardi di dollari promessi a Copenhagen per il 2010-2012, e arrivare ai 100 miliardi l'anno entro il 2020. A poco è servito che l'Inghilterra annunciasse lo stanziamento di 2,2 miliardi di dollari, seguito a ruota da altri paesi europei, (Germania, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera e UE) per un totale di 6,85 miliardi di dollari per i prossimi due anni, un' aumento rispetto al biennio 2011-2012. Inoltre i paesi donatori chiedevano di verificare come quei soldi verranno spesi nei paesi in via di sviluppo, questi ultimi chiedono invece che si faccia un verifica degli impegni di spesa dei primi. 

L'onda lunga di questo gioco al rimpiattino si è fatta sentire anche nel negoziato sulle foreste, che ha prodotto un risultato inferiore alle aspettative. Se ciò non bastasse. nonostante le decine di morti causate nelle Filippine dal tifone Bopha, i governi non sono riusciti ad accordarsi su come colmare quel differenziale di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l’inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O il cosiddetto “ambition deficit”, ossia il differenziale tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990. Temi che riemergeranno con virulenza nei prossimi anni. 

 La COP18 riesce nonostante tutto a rimettere faticosamente in carreggiata il Protocollo di Kyoto confermando il "Second commitment period" cioè il secondo periodo di impegni di taglio delle emissioni di gas climalteranti che i Paesi industrializzati avrebbero dovuto assumersi dopo il 2012. Un obiettivo di basso profilo, visti i molti tentativi di far deragliare l'unico Protocollo realmente vincolante assieme a quello di Montreal. Dal 1 gennaio 2013 inizierà Kyoto 2, ma vedrà li paesi parecipanti, quali Unione Europea, la Svizzera, l'Australia e la Norvegia rappresentano solo il 15% delle emissioni globali. La loro adesione a Kyoto, gli permetterà di consolidare il mercato del carbonio (come il sistema ETS europeo o quello australiano, che nei prossimi anni andranno a convergere) , uno dei meccanismi flessibili di Kyoto particolarmente voluto dai Paesi industrializzati, perchè permette una mitigazione a basso costo. Il rimanente 85% delle emissioni, provenienti da Stati Uniti (con 17 tonnellate e passa procapite all'anno di CO2) e Cina (con poco più di 7 tonnellate procapite allo stesso livello dell'UE) verranno gestite all'interno del percorso negoziale nato a Durban un anno fa, verso un regime non vincolante ma di "pledge and review", impegni volontari da verificare collettivamente. Kyoto 2, sebbene rimanga in piedi legalmente, dovrà essere riempito di significato, di numeri e di percentuali. 

 La rigidità di Stati Uniti, che non hanno mai ratificato Kyoto, del Giappone o del Canada, che dal Protocollo è uscito un anno fa a causa degli interessi economici ingenti legati alle sabbie bituminose in Alberta ed al loro sfruttamento, è stato uno degli elementi di blocco di un negoziato che, secondo le regole mutualmente decise nel corso degli anni, sarebbe dovuto arrivare naturalmente ad adottare un regime vincolante. D'altra parte la Cina, che nasconde dietro al gruppo del G77 i suoi interessi di potenza mondiale ormai emersa, non accetta alcun vincolo multilaterale che metta in discussione il suo sviluppo impetuoso ancora fondato sullo sfruttamento del carbone e del nucleare. Kyoto è necessario, ma non è assolutamente sufficiente. Non lo era prima, tanto meno lo sarà oggi. Il picco di emissioni di C02, dice il Panel di scienziati dell'IPCC, dovrà essere raggiunto nel 2015 per poi decrescere. Questo poter sperare di far rimanere la concentrazione di C02 sotto i 450 ppm e l'aumento della temperatura media globale sotto i 2°C, che però può significare +4°C - +6°C in altre parti del mondo, basti pensare all'Africa subsahariana che rischia di perdere in pochi anni buona parte dei suoi raccolti agricoli (con buona pace della sovranità alimentare) e alla Groenlandia, che ha visto scomparire quasi del tutto la sua calotta glaciale durante l'ultima estate boreale. Cosa che, ironia della sorte renderebbe assai meno costoso lo sfruttamento delle proprie risorse petrolifere. 

La prossima Conferenza delle Parti che si terrà a Varsavia lascia poche speranze, vista l'ostinazione con la quale la Polonia ha cercato di affossare il protocollo di Kyoto e con esso tutto il negoziato. In molti stanno già guardando alla COP20 che si terrà a Parigi, quando - si spera - l'Europa avrà un'altra guida ed altre ambizioni.

(*) Sinistra Ecologia Libertà (**) Fairwatch

sabato 8 dicembre 2012

Kyoto 2 la vendetta

E' stata dura ma alla fine ce l'hanno fatta. Nonostante la Polonia, l'Unione Europea ha  consegnato tutte le firme necessarie per far entrare in vigore il secondo periodo di impegno per il Protocollo di Kyoto, Il negoziato a Doha potrebbe sbloccarsi da un momento all'altro. Mancano a questo punto solo due punti per adottare il Doha Climate Gateway, la porta verso il futuro: soldi e risarcimento dei danni sofferti dai paesi poveri, cosa osteggiata fino all'ultimo dagli Stati Uniti. Il Qatar propone che i paesi ricchi si impegnino qua a Doha a stanziare aiuti climatici pari alla media di quanto stanziato negli ultimi tre anni. La Conferenza delle Parti continua, per chiudersi probabilmente tra stanotte e domani.

giovedì 6 dicembre 2012

Il ragno ed il buco nero di Doha



Se non ora quando? Se non noi, chi? Se non qua, dove?” Con queste parole si rivolge alla platea,Yeb Samo, il negoziatore capo delle Filippine, paese in queste ore colpito da un tifone che sta seminando distruzione e morte, Sono ormai giorni che il negoziato sul clima, in corso a Doha si è avvitato in un'impasse. Forse stanno venendo al pettine le fragilità del compromesso raggiunto lo scorso anno a Durban, ovvero di diluire l'impegno-chiave dell'accordo globale sulle riduzioni di emissioni, in un nuovo processo negoziale, (la Piattaforma di Durban), e sussumere all'interno di quest'ipotesi di accordo globale il secondo periodo di applicazione del protocollo di Kyoto.

I numeri però parlano chiaro: oggi, a 24 giorni dalla scadenza del primo periodo di Kyoto ancora non c'è accordo su come continuare. Oggi, con le decine di morti causate dal tifone Bopha, i governi non riescono ad accordarsi su come colmare quel “gigaton gap” di 6-15 gigaton di emissioni che marcano l'inadeguatezza degli attuali impegni di riduzione. O quello che gli esperti navigati di negoziati climatici denominano “ambition deficit”, ossia il differenziale che passa tra la percentuale attuale delle riduzioni di emissioni: 11-16% attuali rispetto a quelle necessarie entro il 2020, ovvero il 25-40% sui livelli di emissione del 1990.

Eppoi le cifre degli impegni finanziari: l'accordo a Copenhagen si era chiuso su un impegno globale di finanziamento per politiche e programmi climatici pari a 30 miliardi di dollari di “finanziamento iniziale” per poi arrivare a un volume di 100 miliardi di dollari l'anno fino al 2020. Dei 30 miliardi di dollari finora se ne sono visti pochi, spesso fondi riciclati da quelli della lotta alla povertà. Ed il Fondo Verde per il Clima, struttura dedicata alla gestione e concessione dei finanziamenti finora fatica a raggranellare i fondi necessari per essere pienamente operativa.

Insomma, mai come quest'anno, il tema del clima si trasforma in una tragica pedina di scambio su scacchiere che poco o nulla hanno a che vedere con l'oggetto del contendere. Non può essere altrimenti se il quadro di riferimento resta quello del modello di crescita e liberalizzazione spinta con una crisi economico-finanziaria che continua a incombere non solo sui paesi di quello che a suo tempo si definiva “nord” del mondo, ma inizia ad avere effetto anche su Cina, Brasile ed altri paesi in rapida industrializzazione, contraendone le capacità produttive e di crescita.

Tutto il negoziato, quello dei governi, si compone e scompone continuamente in mille rivoli, tavoli informali, gruppi di lavoro, sessioni parallele, cosa che rende impossibile ogni forma di monitoraggio e partecipazione effettiva dei non-addetti. Parole chiave come equità, giustizia climatica, responsabilità comuni e differenziate si dissolvono un una zona grigia, virtuale, un buco nero definito dai i gap di ambizione, quelli degli impegni finanziari, i gap di responsabilità e quelli di democrazia. Un negoziato sempre più a porte chiuse, dove la decisione di portare a zero l'uso di carta per salvare (si dice 150 alberi circa, che sarà mai in un paese come il Qatar con il più alto livello di emissioni procapite, e la benzina a 25 centesimi di euro ogni 4 litri) rende assai arduo lavorare su proposte di testi alternativi, e diffondere le proprie proposte ai delegati ed alla stampa.
In quel buco nero, vischioso come una pozza di petrolio che inghiotte ogni possibile aspettativa, i delegati continuano a rincorrersi, tra appelli drammatici, parole dure, bracci di ferro, offerte dell'ultim'ora.

Il quadro che ne risulta è desolante, ma da Doha non ci si aspettava un granché. Fin dall'inizio era chiaro che solo a ridosso della data del 2015 (entro la quale andrà concluso un accordo globale sulla riduzione delle emissioni che entrerà in vigore - si badi bene - solo nel 2020) si potranno delineare i contorni di un possibile accordo. A Doha la posta in gioco è altra: come chiudere i due processi negoziali, quello relativo al protocollo di Kyoto e quello del gruppo di lavoro sugli impegni di lungo termine che finora ha dibattuto di questioni quali visione di lungo periodo, adattamento, mitigazione, foreste, trasferimenti di tecnologie, strumenti di attuazione.

Da una parte i paesi “ricchi”, che vorrebbero eludere nuovi impegni su questi temi, cercando di chiudere alla svelta il negoziato e passare oltre, affermando che tutti quei temi o sono stati già affrontati o lo saranno in commissioni e comitati costituiti all'uopo. Dall'altra i paesi in via di sviluppo - definizione ormai vecchia perché non aiuta a differenziare tra paesi quali Brasile, Cina, Sudafrica, India, paesi poveri e paesi insulari, ognuno con le proprie urgenze e specificità. Già perchè a seconda di come lo leggi questo negoziato sul clima, con le sue “sottotracce”, da quella commerciale a quella scientifica a quella “politica”, a quella della sopravvivenza, a quella del debito ecologico, a quella dei diritti umani, la geografia di chi vince e chi perde, o forse la mappa geopolitica, cambia.

C'è un blocco di paesi che chiede impegni chiari su finanziamenti, trasferimenti di tecnologie, conferma del secondo periodo di attuazione del protocollo di Kyoto.
Ci sono paesi poveri che sperano di accedere a fondi che possano essere complementari rispetto a quelli sempre più scarsi per la lotta alla povertà.
Lo sanno bene gli africani, che tra una decina d'anni si troveranno di fronte a un tremendo “crunch”: La maggior parte dei fondi pubblici si concentreranno sulle politiche climatiche e di questi la stragrande maggioranza in Asia e America Latina, dove si devono rafforzare i programi di “mitigazione” delle emissioni, mentre l'Africa rischia di restare a bocca asciutta.

Eppoi il protocollo di Kyoto ormai in stato comatoso, che dovrebbe essere ratificato per il secondo periodo,sul quale si prospetta un accordo di compromesso: sulla carta si partirà dal 1 gennaio 2012, ma la realtà sembra consegnarci una “imago sine re, “ un'immagine senza sostanza . E resta il rischio di ricorrere a false soluzioni quali i meccanismi di mercato.

Questioni non da poco, giacché a seconda dell'esito di questi due negoziati, quello su Kyoto e quello sulla cooperazione di lungo periodo, si definiranno direttamente o per “default”, l' agenda e la roadmap della piattaforma di Durban. Questo pare essere l'unico negoziato che procede con relativa tranquillità, visto che il tempo delle decisioni vere è ancora lontano. Insomma, a meno di due giorni dalla fine della Conferenza delle Parti numero 18 si assiste ad un copione già visto, che lascia poco sperare per l'anno che viene. Un 2013 che si concluderà con l'ennesima conferenza delle Parti, la numero 19, stavolta non nel paese degli sceicchi ma in quello del carbone, la Polonia. acerrimo nemico del Protocollo di Kyoto.

Nel frattempo per tenere ancora vive le speranze, il Segretario Generale delle Nazioni Unite annuncia una Conferenza d'alto livello di Ministri per continuare a discutere sulle questioni climatiche e sperare che la notte porti miglior consiglio. Nel frattempo le enormi sale e corridoi del centro congressi del Qatar National Convention Center (QNCC), si svuotano in attesa dell'ultimo giorno di trattative all'ultimo sangue. Resta un 'enorme ragno di acciaio, animale sacro qua in Qatar, visto che è l'unico che resiste al deserto. E' “Maman” opera scultorea della grande artista contemporanea Louise Bourgeois, che sta a simboleggiare il rinnovamento continuo dei cicli della vita. Un'esortazione per il futuro.

domenica 2 dicembre 2012

il clima pesante di Doha

Inizia oggi la seconda settimana di negoziati della diciottesima conferenza delle parti della Convenzione ONU sui Cambiamenti Climatici, ospitata quest'anno dal Qatar. Finora i governi non sono riusciti a fare un passo in avanti nella definizione del quadro generale di lavoro per il dopo Kyoto. Né si sono trovati d'accordo su come chiudere il piano di lavori del cosiddetto Piano di Azione di Bali. Si sapeva che Doha non avrebbe certo rappresentato una tappa storica ma solo un'appuntamento nel quale definire la "transizione" tra una fase negoziale e la nuova, che dovrebbe portare ad un accordo generale sulle riduzioni delle emissioni entro il 2015 , per l'entrata in vigore entro il 2020. E' evidente che senza un chiaro impegno finanziario, né una volontà politica di colmare quel "gap" esistente tra realpolitik e urgenza dettata dai cambiamenti climatici (che in numeri si traduce in riduzione dell'aumento della temperatura rispettivamente di 2 o 1,5 gradi , oppure in un eccesso di emissioni ancora da ridurre pari a 6-12 gigatonnellate di carbonio equivalente) saranno esigue le chance di avviare un processo di negoziato che possa portare a risultati concreti. Ma anche in questo caso, possiamo permetterci di aspettare il 2020?

lunedì 19 novembre 2012

Dinnanzi al dolore degli altri (Grazie Susan Sontag e Judith Butler!)

Non posso accettare l'uso pornografico del dolore altrui. Prima perché toglie dignità a quelle che vengon raffigurate solo come vittime di guerra. Eppoi perché non aggiunge nulla al dramma che sta vivendo il popolo palestinese né aiuta a trovare una soluzione. 

Arte del post-apartheid

Refuse the hour" di William Kentridge è un capolavoro di immagini, suoni, storia e filosofia della scienza, delle relazioni post-coloniali. C'è molta "rainbow society" sul palco allestito dall'artista sudafricano, molta speranza. Una cosa impossibile quale decennio fa ai tempi dell'apartheid, un istante solo nello spazio annullato tra passato e presente nel quale si snoda la "performance" collettiva, piena di suggestioni tra Tristan Tzara ed il contemporaneo, Kara Walker in particolare. Un intreccio suggestivo di arte, conoscenza, mitologia, tempo, spazio, geografie ed archivi della memoria, dove c'è anche l'Europa, potenza coloniale ormai in profonda crisi. E "Vertical thinking" al MAXXI non è da meno.

domenica 18 novembre 2012

Il diritto di vivere in pace


Gaza muore sotto una miscela micidiale di accondiscendenza della comunità internazionale ancora congelata nel mantra dei due stati per due popoli, opzione ormai impraticabile, le imminenti elezioni in Israele, il sostegno dato dal Qatar ad Hamas, dopo una visita senza precedenti a Gaza, il compimento delle elezioni negli States, e la nuova “offensiva” diplomatica di Abu Mazen per il riconoscimento di status speciale della Palestina presso le Nazioni Unite.
E’ stato abile Nethaniahu: per mesi e mesi ha propinato alla comunità internazionale la minaccia di un attacco atomico iraniano, facendo passare in secondo piano il dramma palestinese e chiedendo a Washington di assecondare la sua linea. Ora scarica sulle popolazioni civili di Gaza il suo potenziale di fuoco. E come sempre chi resta nel mezzo sono le popolazioni civili.

I pischelli del movimento


ieri sera mi fermano due pischelli nelle strade del rione. Monti Mi mostrano due bicchieri di plastica con dei soldi, Dico boh, nà colletta per andare a fare bisboccia, (aho era pure sabato sera, ed eravamo al centro del quartiere della "movida") o con una percezione errata del tempo, "sarà pei cento ggiorni dall'esami?" Macché mi sorridono, stamo a occupà il Leonardo da Vinci. Guarda è nà cosa seria, invitiamo pure i professori universitari. Ed io li invito a continuare a farlo. E ricordo anche nel corteo dell'altro giorno, delle ragazze che l'immaginario collettivo e l'immagine omologata delle periferie vede condannate allo "struscio" a via del Corso, prendere il megafono e chiedere che la scuola resti pubblica, perché vogliono studiare, e costruirsi un futuro migliore. Insomma, queste cose devono far riflettere, a fondo, Sono processi importanti, da accompagnare con saggezza e rispetto, senza mettere cappelli o farsi tentare da manie di cooptazione. Altrimenti saremo anche noi responsabili della loro disillusione. E dopo per loro non resterà altro che un'esistenza senza prospettive. Bello il film "Ali ha gli occhi azzurri", duro e concreto allo stesso tempo.

giovedì 8 novembre 2012

Cancellare il debito, liberare le vite



(questo è il testo integrale di un articolo pubblicato in versione ridotta su PubblicoGiornale del giorno 8 novembre 2012)


La notizia sembra riportarci indietro di un decennio, quando l’intera opinione pubblica mondiale osservava le immagini della rivolta che attraversava l’Argentina, il progressivo immiserimento di milioni di persone, un paese strozzato dal peso del debito. Allora il karma nero della crisi finanziaria e degli effetti nefasti delle politiche neoliberiste si stava accanendo con inesorabile frequenza su economie e paesi emergenti o impoveriti. La ciclicità delle crisi finanziarie era un dato di fatto come le evidenti corresponsabilità del settore finanziario sempre più libero da lacci e lacciuoli, di un intera classe di broker ed intermediari che non esitarono a giocare sulla pelle di milioni di persone per rimpinguare le loro casse e quelle delle banche loro clienti.

L’Argentina fu il caso emblematico delle corresponsabilità del Fondo Monetario Internazionale, di governi dittatoriali che nel corso degli anni accumularono un enorme debito odioso verso le loro popolazioni, dei gestori di fondi pensione che promettendo - attraverso l’acquisto di bond argentini - guadagni degni di nota a poveri pensionati nel nostro paese, misero gli uni contro gli altri, migliaia di piccoli risparmiatori e pensionati italiani e milioni di argentini immiseriti.

Le notizie che ci arrivano dal Ghana sono lì a dimostrare ancora una volta quello che da sempre gli attivisti per la cancellazione del debito affermano, ossia che il debito estero è un debito eterno (“Deuda externa – deuda eterna”) Il caso riguarda il sequestro da parte delle autorità del Ghana di una nave militare scuola della marina argentina, la “Ara Libertad” ferma da oltre tre settimane in un porto nei pressi di Accra per un ordine esecutivo di un tribunale locale emesso in seguito ad un’ istanza presentata da un fondo di investimento delle isole Cayman che rivendica un credito di 370 milioni di dollari nei confronti del governo argentino. Il fondo NML è in possesso di bond del tesoro argentini oggetto di una procedura di default da parte del governo argentino nel 2001, e chiede un corrispettivo di valore pari a 20 milioni di dollari in cambio della cancellazione dell'istanza di pignoramento della nave. Secondo i gestori del fondo quei bond non sarebbero stati inclusi nelle procedure di ristrutturazione del debito conseguenti alla crisi del 2001-2002 quando l'Argentina si vide obbligata a dichiarare l'impossibilità di ripagare i propri debiti.

Il caso è arrivato anche alle Nazioni Unite in occasione di una missione del ministo degli esteri argentino Hector Timerman che ha accusato i gestori del fondo di violazione delle regole internazionali sull'immunità diplomatica e denunciato l'illeggittimità della procedura di pignoramento da parte di fondi-avvoltoio. Questi fondi , in inglese “vulture funds”, speculano su titoli di stato a rischio comprandoli a valori inferiori fino al 20% del loro valore nominale cercando poi di ottenere il loro valore originale in valuta. Nel frattempo la nave resta all'ancora, l'equipaggio è stato autorizzato a lasciare il paese, ed a Buenos Aires alti funzionari della marina e dei servizi segreti si sono dovuti dimettere dopo le rivelazioni di stampa secondo le quali alle autorità argentine era ben chiaro il rischio di pignoramento in Ghana e nonostante tutto avrebbero dato indicazioni alla nave militare di dirigersi verso quel paese. E ancor più recente la notizia secondo la quale la Elliott starebbe tentando di ottenere un'ingiunzione di pignoramento per un'altra nave militare argentina, la Atlassur IX ora attraccata in un porto sudafricano dopo un'avaria.Il fondo Elliott Associates non è nuovo a queste operazioni senza scrupoli. In passato ha acquistato una porzione del debito sovrano peruviano ad un valore nominale di 20 milioni di dollari per 11 milioni di dollari per poi riuscire a riscattare, dopo lunghe trattative e procedure legali, oltre 58 milioni di dollari comprensivi degli interessi maturati. L'Argentina rischia lo stesso trattamento in altri paesi nei quali sono in corso cause legali per il recupero di crediti, quali Germania, Francia, Italia.

In totale l'Argentina ha deciso di non ripagare il suo debito estero per un valore totale di 144 miliardi di dollari Nel 2012 oltre il 90% dei crediti vennero ristrutturati, ma alcuni dei creditori rifiutarono di partecipare all'operazione. Accanto alla Elliott Associates di proprietà di un multimiliardario Paul Singer (che si distinse in passato per la ristrutturazione di Telecom Italia) un'altro fondo potrebbe rivalersi sull'Argentina, il Dart, che ha già effettuato operazioni simili sul debito sovrano della Grecia. . In questo caso non sarà facile, visto che il governo argentino si rifiuta di pagare crediti associati a fondi speculativi, quali il fondo-avvoltoio NML.

Il caso della Libertad, permette di riaprire una finestra sul tema del debito, una delle principali modalità di dominio coloniale ed economico da parte del cosiddetto Nord del mondo verso i paesi del Sud, molti di questi ex-colonie, e di accesso alle risorse naturali e settori produttivi chiave di quei paesi. Si sperava che a seguito delle grandi mobilitazioni della campagna Jubilee nel 2000 e delle iniziative prese dalle istituzioni internazionali e dai governi creditori lo spettro del debito estero fosse scomparso del tutto nei paesi più poveri. Invece così non è. Gli ultimi dati della Jubilee Debt Campaign mostrano un drammatico aumento del debito nei confronti del settore privato, al punto che si prevede che il volume di pagamenti per il serivizio del debito privato dei paesi più poveri possa aumentare di ben ⅓ nei prossimi anni. Già ora paesi come Etiopia, Niger o Mozambico pagano per il servizio del debito tanto quanto pagavano prima del 2000.

Un dramma che oggi colpisce anche noi, cittadini di un paese ancora creditore verso l'Argentina, e “debitore” nei confronti della Banca Centrale Europea e di grandi banche internazionali, in una nemesi storica che ci vede ora sottoposti agli stessi trattamenti lacrime e sangue ai quali il Fondo Monetario Internazionale ha per decenni sottoposto milioni di persone, pregiudicando le possibilità di sviluppo e emancipazione di interi paesi. L'Argentina è stata forse l'esempio più evidente e mediatizzato, anche grazie alla presenza massiccia di emigrazione italiana in quel paese, e dall'Argentina sono partite le prime grandi iniziative per affrontare in maniera alternativa il tema del debito, rimettendo al centro il diritto delle persone ed il diritto internazionale.

E' in quel paese che per la prima volta si è tenuto un processo , una causa intentata da un cittadino argentino Alejandro Olmos in quello che si è trasformato nel primo giudizio legale contro il debito estero della storia. Nel corso del procedimento gli avvocati di parte hanno acquisito una miriade di dati, informazioni, dossier che hanno dimostrato la connivenza di banche ed imprese straniere con i regimi dittatoriali che si sono succeduti nel corso degli anni. Dopo 18 anni di indagini il giudice Ballestreros emise nel 2000 una sentenza storica nella quale si dichiarò per la prima volta l'illegittimità del debito estero e la corresponsabilità del Fondo Monetario Internazionale ed altri organismi finanziari, rei di aver concesso prestiti illeciti e fraudolenti. Si legge nella sentenza: “Il debito estero della nazione è risultato essere notevolmente aumentato a partire dal 1976 attaverso la strumentalizzazione della politica economica del paese che (...) hanno esso i ginocchio il paese attraverso vari metodi (...) e che tendevano tra l'altro a sostenere e beneficiare imprese private nazionali e straniere, a discapito delle imprese di stato”. Ispirati dal caso Olmos Ballestreros, i movimenti internazionali per la cancellazione del debito – a fronte di politiche ufficiali volte ad affrontare il tema in termini esclusivamente finanziari e contabili – elaborarono una serie di proposte ed ipotesi di lavoro che, riprendendo lo spirito del giudizio Ballestreros, avrebbero offerto la possibilità di una riappropriazione da parte dei cittadini dei meccanismi di indebitamento e per la rivendicazione delle responsabilità storiche dello stesso.

Si iniziò a parlare di “auditoria de la deuda” ossia “audit del debito”, di FTAP (Fair and Transparent Arbitration Procedures), procedure di arbitrato eque e trasparenti ispirate al capitoli 11 del codice statunitense di diritto fallimentare, di tribunali internazionali sul debito. Insomma si sviluppò una giurisprudenza alternativa sul debito ed il diritto internazionale , che tenesse contro dell'impatto dello stesso sui diritti umani, del debito illegittimo (ossia correlato ad investimenti fraudolenti o caratterizzati da corruzione o gravi conseguenze socio-ambientali) e del debito odioso (contratto cioé da regimi dittatoriali e pertanto inesigibile) . Non a caso questo insieme di elaborazioni e proposte ebbe un esito concreto in uno dei paesi sudamericani nei quali grazie al lavoro dei movimenti sociali ed indigeni nazionali e di tutto il mondo, il tema del debito era diventato il fulcro di proposte di rinnovamento dello stato e di recupero del controllo pubblico sull'economia e sulle politiche sociali e di sviluppo.

Dal primo discorso di insediamento del presidente dell'Ecuador Rafael Correa nel 2007 dedicato in grandissima parte al debito estero, alla sua illeggittimità, ed alle corresponsabilità del Fondo Monetario Internazionale della Banca Mondiale alla costituzione della prima commissione indipendente di “audit” del debito ecuadoriano, il passo fu breve. Così con un lavoro congiunto e sostenuto dal contributo di movimenti sociali internazionali, ed esperti giuristi di altissimo livello, la CAIC (Comision para la Auditoria Integral del Credito Publico) svolse un esame accurato dei debiti accumulati dal paese nel corso degli anni, da quello commerciale, a quello interno accumulato con l'emissione di bond governativi, a quello multilaterale, contratto con prestiti dalle istituzioni finanziarie internazionali, quali la Banca mondiale, al debito bilaterale. Il lavori si conclusero con un dossier dettagliatissimo su una serie di debiti illegittimi e quindi non esigibili, sui quali il governo ecuadoriano s’ impegnava a non sottostare a richieste di rimborso.
Tra questi ai primi posti era un credito di aiuto della cooperazione italiana concesso la costruzione della centrale idroelettrica Marcel Laniado parte del complesso infrastrutturale di Daule Peripa . L'opera costruita da Impregilo con la partecipazione di Ansaldo nel corso degli anni ha causato gravi danni sociali ed ambientali alle comunità ed agli ecosistemi locali.

Il primo caso di cancellazione di crediti di un paese debitore in seguito alla dichiarazione della sua illegittimità da parte di una commissione di inchiesta creata nel paese “debitore” fu invece quello correlato alle attività dell'agenzia di credito all'esportazione norvegese la GIEK che in seguito al sostegno all'esportazione i 156 navi e equipaggiamenti verso 21 paesi tra il 1976 ed il 1980 era stata ritenuta responsabile di gravi danni ambientali. Di conseguenza il governo norvegese decise unilateralmente di cancellare i suoi crediti verso Ecuador, Egitto, Giamaica, Peru e Sierra Leone. Era il 2006. Più di recente, lo scorso agosto, il governo norvegese ha annunciato la creazione di una commissione pubblica di “audit” del debito estero. Per la prima volta nella storia un paese creditore svolgerà un esame dei propri crediti, onorando un impegno annunciato fin dal 2009 all'indomani della nomina del governo di centrosinistra di Jens Stoltenberg. Sulla base di questo “audit” verranno proposte linee guida più stringenti per la “responsabilizzazione” dei prestiti e concessione di crediti d'aiuto come già fatto dall’UNCTAD, ente ONU che su sviluppo e commercio.

Il caso della Norvegia non è isolato. Come in un domino, iniziative per l'audit pubblico o cittadino del debito si stanno susseguendo in varie parti del mondo. In Pakistan ad esempio, dove l'Assemblea Nazionale ha annunciato l'intenzione di creare una commissione di indagine sui costi e benefici dei crediti concessi al paese e dei pagamenti del debito dal 1985. Si calcola che il 12 percento delle entrate nelle casse del governo nel 2010 siano andate perse nel servizio del debito estero pari a 3 miliardi di dollari. La cifra aumenterà nel 2013 quando andranno in scadenza dei rimborsi dovuti al Fondo Monetario Internazionale. (3.8 miliardi di dollari). Gli appelli ad un “audit” pubblico del debito hanno attraversato anche le piazze di Egitto e Tunisia.

In Egitto la Campagna Popolare per la cancellazione del debito ha lanciato un appello per un “audit” del debito estero egiziano, contratto nel corso dei 30 anni di dittatura di Hosni Mubarak, per un ammontare di 35 miliardi di dollari. In Tunisia gli appelli dei movimenti sociali hanno avuto buon esito.  Il governo tunisino ha annunciato, sempre nell’agosto di quest'anno, di istituire una commissione di “audit” del proprio debito estero (14,4 miliardi di dollari pari al 33 percento del PIL) per definire quali porzioni possono essere considerate debito “illegittimo” . O “odioso” , in quanto accumulato a seguito delle attività illegali della famiglia del deposto Ben Ali ad esclusivo vantaggio dei propri membri. In tal caso quei debiti non saranno ripagati. Quasi a chiudere il cerchio è arrivata subito dopo l'offerta- su richiesta del presidente tunisino - del Presidente dell'Ecuador Rafael Correa di fornire assistenza tecnica al governo tunisino nei negoziati per la rinegoziazione del proprio debito estero.

A livello europeo ed euromediterraneo, sia in prossimità delle giornate di Firenze 10+10 relative al Decennale del Forum Sociale Europeo che per coordinare le proprie attività, si svolgeranno nelle prossime settimane incontri congiunti delle varie campagne per l'audit del debito pubblico, da quella spagnola a quella greca, alle varie iniziative in corso in Italia (da Smonta il Debito, a Rivolta il Debito, a Congela il Debito) , in Irlanda (dove già in passato è stato svolto un “audit” cittadino sul debito), Inghilterra, Portogallo, Marocco. Giacché quello che fino a qualche anno fa erca considerato un tema a proprio dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, sta colpendo duramente i paesi cosiddetti PIIGS, con effetti devastanti sulla spesa pubblica, il welfare, i beni comuni. Ora come non mai le antiche distinzioni tra un Nord ricco del pianeta ed un Sud impoverito vengono meno sotto i colpi di un sistema finanziario speculativo senza freni, e che non conosce frontiere, e pone a serio rischio i nostri diritti umani.

A tal riguardo va sottolineato come con una decisione senza precedenti il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nel luglio scorso ha adottato - con il voto contrario di Stati Uniti , otto stati membri dell 'Unione Europea , Svizzera e la Moldavia - un'importante documento su debito e diritti umani. Nel documento si fissano criteri per la garanzia dei diritti umani a fronte degli obblighi di pagamento del debito si raccomanda di tenere “audit” periodici e trasparenti sul debito, adottare moratorie sul pagamento del debito e misure atte a accertare le corresponsabiità di creditori e debitori e l'obbligo di assicurare che il peso del debito non impedisca ai paesi di dare attuazione ai propri obblighi internazionali relativi ai diritti umani, e che ogni paese possa essere messo in grado di decidere quali debito vadano considerati odiosi e quali illegittimi.

Mai come ora la questione del debito diventa questione essenzialmente politica, sottende l'urgenza di un processo di liberazione collettiva, e personale, nel quale il ripudio del debito è il primo passo verso la costruzione di un'alternativa ed il recupero del controllo delle proprie esistenze e del proprio futuro. Ce lo dicono chiaramente David Graeber nella sua opera sui primi 5000 anni di stori del Debito ed il movimento Occupy Wall Street che di recente si è trasformato in Strike the Debt. Dalla rivista del movimento, “Tidal”, si legge che “il debito non è personale, è politico. E' un sistema volto ad isolarci, azzittarci, impaurirci al punto di sottometterci agli istituti di credito. Ora è giunto il momento per tutti noi di uscire dall'ombra assieme. Il debito è immorale, è servitù per contratto. Una sorta di schiavitù”. Pare di risentire le parole del compianto Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso di cui di recente ricorreva il venticinquesimo anniversario dell'assassinio, e che nel suo epico discorso sul debito fatto di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite disse: “Pensiamo che il debito (...) sotto la sua attuale forma, sia intelligentemente usato per riconquistare lafrica, allo scopo di sottomettere le sue possibilità di crescita e sviluppo a regole straniere. Così ognuno di noi diventa schiavo finanziario, il che equivale a dire un vero schiavo”.


sabato 3 novembre 2012

democrazia reale


Qui a Tunisi, parlando con un'attivista palestinese: “tu hai detto cose dalla prospettiva di chi sta 150 anni avanti a noi” – mi dice – “cose che ci stimolano assai. Noi in Palestina non abbiamo più prospettive: due stati? Uno stato? Sopravvivere alla quotidianità? Noi stiamo ancora all'inizio del cammino rispetto a voi”. Io le dico :”Guarda, voi sarete pure all'inizio, noi stiamo camminando in un sistema democratico che perde continuamente colpi, che ci si sta disfacendo tra le mani. Quindi non siamo noi che possiamo dare l'esempio, però neanche dobbiamo sentirci autorizzati a distruggere le vostre giuste aspettative. Se non riconosciamo questo , non sarà possibile capire come camminare assieme”. Se c'è una cosa che porto a casa da quest'incontro intenso, complesso, con varie realtà del mondo arabo e non, è che a casa nostra dovremo tornare - con umiltà ma determinazione - ai fondamentali della democrazia e della convivenza civile. Back to the basics, back to the future, altro che rottamazione

chiudere i CIE


oggi arriva la notizia dela chiusura del CIE di Lamezia Terme. Finalmente! E che a questo seguano altri. Ricordo una visita all'allora CPT di Lamezia. La rivolta scoppiata mentre ero all'interno, le minacce pesanti del direttore del centro, i caabinieri che mi trascinano via. la lettera al Prefetto nella quale chiedevo che fossero presi provvedimenti. Le risposte vaghe. Ora il Ministro degli Interni lancia una task force sui CIE, ma quello fu già fatto con la Commissione Amato-De Mistura in seguito al lavoro sul libro bianco sui CPT. Che anch'esso poi si tradusse in misure correttive e non nella radicale messa in discussione dell'istituto della detenzione amministrativa. Così dai CPT siamo arrivati ai CIE. Signor Ministro non c'è bisogno di reinventare la ruota, si limiti a scendere da quel carro. I CIE vanno chiusi punto e basta.

venerdì 26 ottobre 2012

Institutional politics, social movements and nonviolence - key challenges and opportunities




INSTITUTIONAL POLITICS, SOCIAL MOVEMENTS AND NONVIOLENCE 
 KEY CHALLENGES AND OPPORTUNITIES

Presentation at   “Democratic Transition in the MENA Region: From Revolution to Active Citizenship, Nonviolence and Regional Solidarity - Strategic Dialogue to enhance regional cooperation between emerging civil society actors” November, 1st, 2nd and 3rd, 2012 Gammarth, Tunisia

                                                                Francesco Martone




The transformation of consciousness, and precisely not through dogma or violence, is the inaugural moment of discovering new worlds―not by willing what does not exist but by seeing what is unfolding.”   (H.Dabashi: “ the Arab Spring: the End of Post-colonialism”, 2012) 



We are not starving, we want democracy”, a Tunisian woman activist once told us  at a dinner meeting when we asked her to explain  the connection between the uprising in Tunisia and almost  the whole of the Maghreb, and the rise in food prices globally. That statement was a clear indication of the need for any outside observer of the groundbreaking historical >>  process that unfurled throughout the Middle East and was then known as the “Arab Spring”, to make an effort and not offer plain cause-and- effect motivations to explain the outburst of rebellion and mobilization. Cause-effect analyses are part of  a worldview characterized by mere geopolitical constructions, where people are always victims of grand schemes or superior dynamics beyond their reach – be it the distorted dynamics of global neoliberalism or of superpower power games - rather than moved by strong determination and awareness to reclaim their public role as active citizens. I have since then tried to apply a model of reading processes of political change under the lens of “agency”, of who is the “agent”; and thinking about how to deconstruct those cultural mindsets that narrow or ignore the “agency” of citizens and social movements,  thereby denying their potential to be active subjects of  political transformation.  

This is the first principle that I try to put at the center of my political activities and actions, as a human rights activist, currently working with indigenous peoples ( a major challenge that involves also a lot of cultural mediation and decolonizing of thought and action) , and as an active “politician”, first sitting in Parliament and now engaged in international politics in Italy and as a co-promoter of the Mediterranean Cultural Parliament.   Hence, the recognition of “agency”  is a first step towards characterizing individuals and collectives not exclusively as stakeholders under the classical concept of “good governance”, but as “rights-holders”  reclaiming their space in collective decision-making and in the construction of a better and fairer society where dignity is the key pillar. 

The recognition of being rights-holders and rights-bearers brings with it the acknowledgement of dignity as the main goal and  responsibility as the key value. Each individual as a citizen bears the responsibility of contributing to the advancement and improvement of the living conditions – the dignity -  of the other. Hence, the connection between the recognition of agency, the definition of citizens as rights-holders, and the recognition of the other is the driving force behind  political activism. “Je suis l'autre”,  as the Jewish philosopher Emmanuel Levinas used to say.   You subsequently get involved in a movement as a reaction to an unjust state of things, as the result of emulation, or as a natural consequence of your being a citizen and in recognition of the fact that the right to dignity of the other is part of your own same right to dignity. 

The initial motivation might differ, what I consider crucial is the capacity of creating processes, enabling tools and spaces to allow anybody to reclaim his or her role in shaping a collective present and building a collective future. 

Here comes the second block of conceptual frameworks that should permeate social action and political change, notably the definition of the landscape and the public space within which change can be achieved.  It goes without saying that without addressing the root causes of injustice that define - directly or by default - the public space, or even transform it into a privatized space,  no matter whether you recognize the principle of “agency” this will remain suspended and unable to generate any transformational outcome. Hence the need to place our political action in a broader scene, trying to articulate the links between the urgency for change in our specific space, and the need to address the root causes of injustice and the potential threats to the creation of a new public space. 

We go back to the initial issue of agency, and the proper analysis of root causes of injustice. For instance, any action at the local and national level, say for instance to reclaim real democracy or community and public control over the “commons”, (water, food, culture for instance) will have no impact if it is not connected to common platforms with other movements challenging the power of private enterprises and of market institutions. This is the case with Italy, where any effort to reclaim the commons through the instruments of direct democracy  -  as  has been the case with the public consultation on water that rejected water privatization - has to be brought to the European level, to challenge the key rules set by the European Commission and the European Central Bank on the terms of debt reduction and cuts in public expenditure by means of commodification of the commons. 

This is also the case with the need to constructively challenge the concept of “conditionality” , which risks undermining effective processes towards real democracy. Consider  for instance the “more for more” approach attached to EU policies towards the Maghreb,  according to which more money would be made available in exchange for more democracy and more good governance. The risk is  creating a perverse incentive to accelerate formal democracy without strengthening real democracy and the capacity of “subterranean politics” to engage in a collective endeavour.  

Another important opportunity is represented by the announced intention of the government of Ecuador to collaborate with the Tunisian government in  renegotiating the country's foreign debt. The Tunisian government had earlier announced the intention of  launching  an audit on Tunisian debt, as a way to reclaim public citizen and democratic control over finance and the economy. Challenging a hurdle to social development  in this context generates the tools to strengthen the direct engagement of citizens, make institutions more accountable and identify modalities and options for political solutions to financial problems.  

Hence a critical analysis of external factors that might catalyze or affect opportunities for real change is required. This is somehow reflected in the most recent development in the US Occupy movement that is now morphing in into the Strike the Debt movement. 

In my country, Italy, challenging the Fiscal Compact (i.e. The package of debt reduction and austerity measures that Italy, together with other countries in Southern Europe, i.e. Spain and Greece had to ratify)  does not necessarily mean reiterating as a mantra its unjust and contradictory character, but rather engaging in actions aimed at overcoming its assumptions, and proposing concrete solutions to the dire living conditions of those affected. For instance  resisting  the austerity dogma by launching public campaigns for basic income through the mobilization of wide sectors of civil society, and social movements and the use of direct democracy. 

In a word, the second underlying principle is the internalization of the local-national-global character of any political action. An action that contributes to the further determination of the “agency” of its proponents and goes beyond an ideological assumption to address the real needs of people and proposing solutions to reclaim dignity.  

The third principle is nonviolence, meant to be a modality to create links and exchanges, recognizing conflict as a key element in any living democracy but at the same time metabolizing it, deconstructing conflict into positive efforts to create linkages and solidarity among actors.  Nonviolence presumes a different relationship between citizens and power, citizens and the state.  In a word, I agree with the suggestion made by Hannah Arendt, in her analysis of the French and American revolutions which is quoted in a very illuminating interview to Arab writer Hamid Dabashi on Jadalyya,  according to which the political space is  a “haven from violence” rather than a systemization of violence. 

What can be therefore the  relationship between the common space created and reclaimed by citizens and the public space occupied by institutions, or  between what a renowned sociologist Mary Kaldor calls “subterranean politics” and “institutional politics” ? Keeping in mind that  the definition of this relationship is also  key to creating a nonviolent approach to systemic change? 

In order to answer these questions  I will use a concept that is dear to “post-colonial studies”,  that of a third space or “hybridity”. In my activity as a member of Parliament I have always believed in the autonomy of civil society and social movements and in the potential of cross-fertilization between them and institutional politics, not only in terms of achieving specific issue-related goals but also in terms of “democratizing politics” and “politicizing the public space”. The principle of the recognition of autonomy of social movements and civil society  is key to ensuring a lively, real  and dynamic democracy. Hence the need to develop new concepts and practices that would define the relationship between the two. The concept of a third space helps in defining the landscape in which institutional politics and citizens' power meet and interact in a less ideological and more pragmatic manner. In a third space, different models can coexist, because what counts is the highest common denominator. What counts is not so much the form but the content, that common political element that would allow different cultural approaches and world-views to proceed towards the same direction. No shortcut is allowed, however, neither that of rejecting institutional politics (with the subsequent risk of authoritarian populism), nor that of accepting cooption.  . The challenge is to create a space where actors meet, share common goals, but retain their very nature, by re-elaborating it in the process.  In a word, building real democracy by practising it and retaining the right to confront critically or to mobilize outside of that third space. Civil disobedience and nonviolent direct actions are some of the possible modalities, as suggested by  the Occupy movement, the experiences in Tahrir Square  and the  Indignados. The way you  engage  also becomes a political statement and content. 

And what kind of action would be possible in concrete terms in such a hybrid space? Revolution? Cooption? Critical engagement? Dialogue? Participation? 

Again, let me quote a very intense debate  generated some years ago between two philosophers I admire a lot, Slavoj Zizek and the British philosopher Simon Critchley, author of what I consider a key book on political engagement titled: “Infinitely Demanding: Ethics of Commitment, Politics of Resistance”.  In an exchange of  letters in a US magazine, Zizek accused Critchley of not contemplating the conquest of power in his proposal to resist power. Critchley responded by saying that in an authoritarian view the conflict in politics is between the power of the State or the absence of power. He rejected the statement that these are the only two solutions in fact. Real politics – he said – is the movement between these two poles, and occurs in what he described as an interstitial space within the State. These interstitial spaces are not given or pre-existing, they are created by political practice. In a nutshell I believe that our commitment today is that of defining, cultivating, enriching the interstitial distance between the power of the State and the absence of power, between critique and the construction of alternatives. What struck me in observing the mobilizations in Tunisia and in Tahrir Square was the clear evidence that those engaged were not necessarily aiming at conquering power, they were exerting their power as citizens and people. And I found many resemblances with the modalities of mobilization of indigenous peoples in Latin America.  The difference between the two concepts is easier to explain in the French language and is the difference between “pouvoir” and “puissance”. I believe that political action, and also the action of anybody engaged in institutional politics should be that of restricting the sphere of “pouvoir” , and contributing to enlarge that of “puissance”,   notably practicing the paradox of his or her obsolescence. This means that those who sit in power positions should always have in mind that they are transient, they are part of a broader process of social, political, economic transformation, which does not exhaust itself in exerting power, but rather in nurturing a vibrant and critical society. 

 Going back  to our “third space”, a famous Indian post-colonial thinker, Homi Bhabha wrote in 1990 about the concept of hybridity, according to which “ in any political struggle new spaces are open but if we continue to link them to old principles then we would never be able to participate in a creative and productive manner”. Hence “when a new situation or alliance is created, this would mean that our own principles will have to be extended and re-elaborated.” This means engaging in a continuous effort to go beyond traditional approaches or simply importing external patterns but rather constantly searching. “Questioning while walking”, a Zapatista would say.  This is the future challenge. 








mercoledì 26 settembre 2012

Spending review, missioni, ed affini

Il Presidente della Repubblica annuncia una spending review delle missioni all'estero. Ben venga se si ridurranno drasticamente le spese per la dimensione militare e si aumenteranno le spese per modelli alternativi di costruzione della pace dai corpi civili di pace alla formazione alla diplomazia popolare e mediazione nonviolenta. Pero' visto che vanno di moda gli anglicismi, facciamo anche un 'audit' pubblico delle missioni, iniziando ad esempio a dirci ufficialmente quante bombe sono state sganciate sulla Libia, quanti civili sono rimasti uccisi o feriti in Libia e in Afghanistan, quanti soldi spesi e come nel PRT di Herat, e con quali risultati. E magari facciamo rientrare le truppe?

Nuova cooperazione in un mondo che cambia



In un’epoca di grandi trasformazioni globali, di “interregno” tra una fase storica e l’altra, temi quali la cooperazione allo sviluppo, la lotta alla povertà, e la solidarietà internazionale ritornano con forza al centro della discussione politica e non. In Senato e’ in discussione un progetto di legge di riforma che dovrebbe ribadire il ruolo centrale del Ministero degli Esteri seppur prevedendo una figura di vice-ministro della cooperazione. Contemporaneamente il Ministro della Cooperazione ed integrazione Riccardi (mai finora l’Italia ha avuto un ministro della cooperazione) ha convocato un Forum nazionale sulla cooperazione che si terra’ ai primi di ottobre a Milano. In parallelo si svolgeranno numerose iniziative delle Organizzazioni nongovernative.
Un processo che viene seguito con attenzione e partecipazione da Sinistra Ecologia e Liberta’ e dal gruppo di lavoro tematico del Forum nazionale SEL sulle politiche internazionali. Siamo infatti convinti che la lotta alla poverta’ ed all’esclusione sociale e l’impegno per la conversione ecologica dell’economia riguardino non solo il nostro paese ma una prospettiva cosmopolita e la proiezione dell’Italia al di la’ dei confini nazionali, come attore responsabile in Europa e nel mondo.
A livello internazionale si susseguono processi ed appelli ad un rilancio della cooperazione e ad un suo riadattamento alle mutate circostanze e differenti scenari globali. Non ultimo il fallimentare vertice di Rio+20 del giugno scorso. Una delle questioni centrali riguarda la trasformazione dei rapporti tra cosiddetti paesi del Nord e del Sud del mondo. Negli ultimi anni si sono affacciati sulla scena dell’aiuto altri attori statuali, quali i paesi BRICS (Brasile, Cina, India, Sudafrica) il cui volume di aiuti sarà pari a 50 miliardi di dollari entro il 2025. Le loro modalità operative sono intimamente connesse all’espansione commerciale, all’accesso a materie prime strategiche, e costruzione di grandi infrastrutture,. Nel quadro di un presunto sostegno alla sovranità economica dei paesi destinatari, questa cooperazione rischia di ripetere i danni causati da un approccio verticista, fondato sullo sfruttamento intensivo di materie prime altrui, e di precipitare i paesi destinatari nella morsa di un nuovo indebitamento. A questo fa da contraltare il calo vertiginoso dei contributi alla lotta alla povertà da parte dei paesi una volta definiti del Nord del mondo, con l’Italia ormai fanalino di coda, per quanto concerne le percentuali di prodotto interno lordo destinate all’aiuto pubblico allo sviluppo.
Anche la geografia della povertà sta mutando. Si calcola che entro il 2025 ben 5/6 dei poveri in tutto il mondo saranno in Africa, e principalmente in paesi fragili o vulnerabili alla violenza interna, alle grandi pandemie, ai disastri ambientali, ai mutamenti climatici. Questo comporta una serie di priorità irrinunciabili, dapprima quella di definire come la cooperazione, se ancora di cooperazione si dovrà parlare, potrà intervenire positivamente al di là di logiche puramente assistenzialiste, nell’affrontare alla radice le cause dei conflitti, e contribuire a ricostruire le basi essenziali di un protagonismo diretto delle popolazioni locali in forme di partenariato con realtà operanti nei paesi “donatori”.
Tale scenario pone grandi interrogativi anche su quella che in gergo di chiama “securitizzazione” della cooperazione, ovvero il progressivo agganciamento delle politiche di lotta alla povertà alla presenza militare in aree di conflitto, sia per ovviare a emergenze logistico-operative (come nel caso degli aiuti umanitari) sia come strumento ancillare alle missioni di mantenimento della pace, che spesso si sono dimostrate essere ben altro. Il caso della commistione tra civile e militare nelle operazioni militari italiane prima in Irak e tuttora in Afghanistan ne è la prova evidente. Ciò non riguarda non solo la commistione civile-militare, ma anche l’uso di fondi di cooperazione per finanziare politiche di gestione “poliziesca” dei flussi migratori, come nel caso dell’Unione Europea e di altri stati membri quali l’Inghilterra che con la sua cooperazione ha finanziato campi di detenzione di migranti in Africa.
Ulteriore elemento critico riguarda la comparsa sulla scena del settore privato. L’idea alla base è che solo con un grande protagonismo del settore privato, sostenuto da fondi pubblici o raccolti con operazioni di “fundraising”, si possa moltiplicare l’effetto positivo sulla povertà, e che solo attraverso il mercato si possano risolvere crisi causate dal mercato stesso. I problemi che ne derivano sono molteplici, primo fra tutti il rischio che – in assenza di un quadro di norme vincolanti per le imprese di criteri certi di “finanziamento responsabile” – ciò si traduca in un’ulteriore aggressione ai beni comuni ed i servizi essenziali , senza intaccare le cause che sono alla base della povertà e dell’esclusione sociale. Da non dimenticare poi l’avvento delle grandi fondazioni filantropiche quali la Gates Foundation con un bilancio superiore a quello della Banca Mondiale, e che si è fatta – tra l’altro – promotrice di AGRA . Un’iniziativa che in nome di una nuova “rivoluzione verde” in Africa di fatto apre la strada agli interessi di imprese multinazionali precludendo la possibilità per le popolazioni locali e contadine di perseguire la via della sovranità alimentare.
Altro fattore da tenere in considerazione è l’impatto dei mutamenti climatici e della crisi ambientale globale sulla lotta alla povertà . Uno studio di qualche anno fa pubblicato dalle Nazioni Unite ha valutato gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici sul perseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio in Africa Subsahariana. Oggi la controversia in atto nel negoziato sul clima sugli aiuti climatici, (si parla di un volume annuo pari a circa 100 miliardi di dollari) rischia di mettere in contrapposizione due obiettivi. Quello della lotta alla povertà che come abbiamo visto vedrà nell’Africa il suo punto focale e quello della mitigazione degli effetti dei mutamenti climatici, (quella che in termini tecnici può essere chiamata anche Green Economy) che sarebbe concentrata principalmente in America Latina e Asia, principali produttori di gas climalteranti.
Il punto centrale di tutta la discussione sulla riforma della cooperazione però riguarda la filosofia di fondo ed il senso della cooperazione allo sviluppo. ora ed in futuro, impresa che va ben oltre un lavoro di decodificazione semantica dei termini. Cosa che comunque va fatta, accantonando una volta per tutte il concetto di cooperazione per quello più consono di partenariato, o abbandonando quello di “sviluppo” ormai fin troppo abusato per legittimare strategie che hanno continuato ad impoverire i presunti beneficiari. O di un riassetto dell’impianto istituzionale, cosa anch’essa urgente dopo anni di crisi della cooperazione e di tutto il settore. E necessaria al fine di assicurare maggior coordinamento, l’istituzione di una figura di governo di alto livello, la creazione di un’Agenzia come strumento operativo di supporto e coordinamento, con sedi in loco, un Fondo unico per assicurare una gestine unitaria dei fondi ora “spalmati” tra Ministero degli Affari Esteri, Ministero dell’Economia e Finanze, Ambiente ed altri.
Prima di procedere a ciò sarà urgente ridefinire modalità, soggetti, obiettivi della cooperazione del futuro, senza necessariamente reinventare la ruota. Esistono infatti da anni pratiche, modalità, tra soggetti sociali, comunità, enti locali, che costruiscono relazioni paritarie, a forte vocazione territoriale, che sono improntate sul protagonismo diretto delle popolazioni locali, ed ancorate a criteri fondati sui diritti umani e sulla giustizia ecologica ed ambientale. Realtà composite che operano nella convinzione che non basti farsi “attuatori” di progetti o strategie preconfezionate dai governi o dai grandi donatori. E che ritengono che vada anzi superata quella logica per restituire alla cooperazione il suo significato più prettamente “politico”, di strumento atto ad “aggredire” le cause che sono alla radice dell’impoverimento, dal debito estero all’assenza di riconoscimento dei diritti, all’espansione incontrollata dei mercati e degli investimenti diretti esteri, alla mercificazione dei beni comuni.
Questa è la domanda centrale: ovvero se la cooperazione resta solo uno strumento di gestione dello status-quo o al limite delle ricadute e dei costi sociali ed ambientali del modello di sviluppo dominante, o se deve essere strumento di trasformazione, e di rafforzamento del protagonismo diretto delle popolazioni, e di relazioni “post-coloniali” tra paesi. Una domanda che sembra rimanere al margine nel dibatitto “politico” nel nostro paese, sia nelle elaborazioni del Forum proposto dal Ministro della Cooperazione che nel dibattito al Senato.
Pur mettendo mano ad una materia che da decenni attende di essere normata , la proposta di legge di riforma appare tutta stretta in un approccio tecnicistico, ispirato principalmente a ridefinire la struttura burocratico-amministrativa, riaffermando la centralità del ruolo della Farnesina, quando invece oggi la cooperazione necessita di un approccio olistico ed intersettoriale. E di non essere strumento di un non meno definito interesse nazionale.
Se ciò non bastasse, la filosofia di fondo pare tuttora ispirata alla cooperazione come elargizione di aiuti e di progetti”. Non a caso difficilmente, nell’assetto previsto dal disegno di legge troveranno cittadinanza quelle forme di cooperazione tra territori (non necessariamente inquadrabili in cooperazione decentrata, ma forse in cooperazione “people-to-people” o tra comunita’), soggetti sociali e movimenti che non sono inquadrabili nel cosiddetto mondo delle ONG, e che convintamente continuano a perseguire altre strade.
L’impianto stesso della legge risale a quasi un decennio fa, addirittura prima dello spartiacque dell’11 settembre, quando il mondo era ben diverso da oggi, e la triplice crisi globale non ancora aveva dispiegato la sua potenza distruttrice. Piuttosto che ragionare prima sulle sfide globali del futuro, e sul possibile ruolo innovativo o complementare dell’Italia, il dibattito in Parlamento resta così incardinato su una riforma – se così si può dire – istituzionale, volta ad assicurare la gestione di fondi pubblici e privati, che rischia in futuro di essere obsoleta e non all’altezza delle problematiche da affrontare. se non addirittura segnando un ulteriore passo indietro.
Il tema quindi è essenzialmente politico, riguarda il modello economico globale, le dinamiche di diseguaglianza, ed esclusione sociale (e non solo più nel vecchio “terzo mondo” ma anche a casa nostra), il riconoscimento delle persone come soggetti attivi e non oggetti di tutela, la riaffermazione dei diritti economici e sociali, un approccio fondato sui diritti umani, sulla tutela dei beni comuni, e dei beni pubblici globali. Ed una volta definiti questi pilastri portanti, costruire un’impianto istituzionale-amministrativo in grado di assolvere in maniera efficace i propri compiti. Altrimenti qualsiasi ipotesi di riforma si dimostrerà essere solo un’operazione di architettura istituzionale, piuttosto che la scelta politica di farne elemento realmente qualificante delle politiche internazionali del nostro paese.