lunedì 28 gennaio 2013

Le alternative dell'America Latina


Si è concluso nei giorni scorsi a Santiago il vertice Euro-Latinoamericano dei capi di stato e di governo, un appuntamento che a scadenza annuale scandisce l'agenda delle relazoni biregionali tra America Latina ed Unione Europea. Un evento che da qualche anno a questa parte viene accompagnato da iniziative parallele quali il vertice delle imprese, e, aspetto più interessante, da una “Cumbre de los Pueblos”. Un controvertice dei popoli, in occasione del quale movimenti sociali latinoamericani ed europei hanno stilato la loro agenda per nuove relazioni tra i popoli, in una critica forte all'impianto “liberista” dell'architettura delle relazioni eurolatinoamericane. 

 Non è un caso che in America Latina oggi si incontrano e scontrano due sinistre. Quella incarnata dal governo di Dilma Rousseff in Brasile, paese fino a l'altroieri in fase di crescita economica da brivido, e che oggi rischia di subire gli effetti della crisi economico-produttiva globale. Una sinistra pragmatica, che guarda ai dieci anni trascorsi con l'amministrazione Lula, ed ai risultati impressionanti conseguiti nella lotta alla povertà ed all'esclusione sociale, nonché al rafforzamento dei settori produttivi ed industriali del paese. Brasilia ambisce ad un ruolo di spicco a livello mondiale, sul mercati globali, nelle sedi di governo internazionale, quali il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Persegue con determinazione un'agenda di crescita “equa” ma fondata sull'espansione a dismisura delle grandi infrastrutture, da quelle nell'ambito dell'IIRSA (Iniciativa para la Integracion de la Infraestructura Regional Suramericana), alle grandi dighe che nei prossimi anni richiano di stravolgere ecosistemi delicatissimi quali la foresta Amazzonica.

 E dall'altra le parole miti del presidente uruguayano Pepe Mujica, che fa leva sulla sobrietà dei consumi ed un altro modello di sviluppo che assicuri giustizia ambientale e sociale allo stesso tempo. Nel mezzo i governi “andini”, le esperienze innovative di Ecuador e Bolivia, anch'esse non prive di contraddizioni. Da una parte quelle costituzioni riconoscono i diritti della Madre Terra ed il Buen Vivir e dall'altra quei governi continuano a perseguire una logica estrattiva per assicurare principalmente alla Cina l'accesso a risorse naturali strategiche. Insomma, una contraddizione che dovrebbe essere colta come opportunità per aprire canali di confronto e di critica all'impianto delle relazioni esterne dell'Unione Europea e di ricostruzione di una nuova agenda nelle relazioni tra Italia e America Latina, un continente non più “patio trasero” di Washington, e nel quale si stanno affermando con forza partenariati nuovi con i paesi BRICS. 

Certamente la strada è ancora lunga, ma dal vertice di Santiago emergono alcuni elementi che potrebbero contribuire ad aprire una nuova stagione nelle relazioni biregionali. Da una parte l'agenda adottata pare ispirata ad un solido impianto di mercato e di liberalizzazioni sostenuta dalla stragrande maggioranza dei paesi latinoamericani, in una dichiarazione finale accolta “per acclamazione”. Dall'altra però i governi latinoamericani riaffermano con determinazione il loro diritto a attuare politiche nazionali al riguardo, rivendicando la propria sovranità economica e politica nei confronti di un passato nel quale i dettami del Fondo Monetario Internazionale della Banca Mondiale avevano ristretto a dismisura lo spazio nel quale poter praticare politiche di sviluppo. 

E non solo. Ogni politica dovrà essere fondata sulla cooperazione e la “complementarietà” la solidarietà e l'inclusione sociale, la responsabilità ambientale (e si noti bene secondo il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, che in gergo equivale a dire “riconoscimento dell'equità e del debito ecologico e storico”). Inoltre, sul tema della responsabilità sociale dell'impresa, che è stato in passato al centro della critica e dell'analisi di alcune sessioni del Tribunale Permanente dei Popoli, si ritiene “vitale” che gli investitori “rispettino il diritto nazionale ed internazionale, in particolare sui temi del fisco, della trasparenza, tutela dell'ambiente, sicurezza sociale e lavoro”. 

 E' il tema della sovranità a fare la parte del leone, giacché se da una parte si riconosce - come da routine - la necessità di promuovere regole stabili ed aperte per assicurare i diritti degli investitori dall'altra si riconoscono i diritti sovrani degli stati ad adottare regole proprie. A riequilibrare il tutto il rituale appello al rilancio del negoziato di Doha presso l'Organizzazione Mondiale del Commercio. Tra le novità un capitolo sulle politiche di genere e contro la violenza e la discriminazione nei confronti delle donne, ed un forte riferimento alle questioni climatiche. 

La “Cumbre de los Pueblos” si è invece conclusa con una dichiarazione che punta il dito contro le relazioni attuali tra UE ed America Latina, fondate sulle istanze di liberalizzazione degli scambi commerciali a discapito del rilancio delle politiche sociali ed ambientali, In realtà questa doppia agenda europea è incarnata, alla luce del fallimento dei negoziati OMC, dalla negoziazione di accordi regionali o bilaterali, (non solo con l'America Latina, ma anche con i paesi Africani – si vedano di Accordi di Partenariato EPA) con i quali l'Unione tenta di reintrodurre in agenda, e per l'interesse delle lobby imprenditoriali, le proprie priorità quali accesso ai servizi, e liberalizzazione degli investimenti, sulle quali si è arenato il negoziato OMC. 

Il documento dei movimenti ricorda le cause della crisi finanziaria ed economica in Europa ed i costi sociali delle politiche di austerità e contrazione della spesa pubblica imposte dal Fiscal Compact, al fine di “salvare le banche, facendo pagare ai popoli i costi della crisi”. 
Un modello che in ambedue i continenti si manifesta attaverso “la privatizzazione e mercantilizzazione dei servizi pubblici, lo smantellamento del welfare state” la precarizzazione della forza lavoro, l'estrattivismo, e la mercantilizzazione dei beni naturali e sociali propri dei popoli”. La formula proposta passa dalla nazionalizzazione, e la collettivizzazione dei beni e servizi e dei mezzi di produzione, ed il riconoscimento della natura come soggetto di diritto. Questo implica “passare dalla resistenza alla produzione di alternative che contengano una proposta integrale” per il futuro di ogni paese, promuovendo il paradigma del “buen vivir” e la difesa dei diritti della terra per un'economia plurale e solidale, la democrazia diretta ed il speramento della precarietà.

In questo contesto, e guardando al nostro futuro immediato, al programma politico per le elezioni ed un possibile governo di centrosinistra, va ricordato che il congresso di SEL di Firenze adottò un documento strategico preparato dal Forum nazionale di SEL sulle politiche internazionali, dal titolo “Nostra Patria è il mondo intero” nel quale si definiscono alcune chiavi di lettura e proposte di lavoro per SEL verso l'America Latina. Proposte che rientrano nel solco di un sostegno forte alle esperienze di governi progressisti, e dei processi di integrazione regionale, quali UNASUR Tutto ciò tenendo a debito conto le contraddizioni che tuttora sussistono tra urgenza di pagare un debito sociale accumulato nel corso dei decenni nei confronti delle generazioni attuali, ed un modello di sviluppo che rischia di accumulare un ingente debito ecologico nei confronti delle generazioni a venire. 

Secondo quanto detto nel documento, le esperienze di movimento e di governo progressista per il "Socialismo del XXI Secolo" segnalano l’’urgenza di rielaborare il concetto di potere, non inteso come ““presa della stanza dei bottoni””, ma come opportunità per servire il bene comune.” Inoltre, “Le rivoluzioni cittadine”” in alcuni paesi dell’’America Latina traggono significato dalle profonde trasformazioni in corso in quelle società come prodotto collaterale rispetto all’’ascesa al potere di formazioni politiche ““progressiste””. Per questo SEL si impegnerà in un dialogo costruttivo e concreto con le realtà politiche progressiste e di base e i movimenti sociali che oggi provano a costruire un progetto di società più giusta e partecipata, sostenendo proposte di trasformazione radicale delle relazioni commerciali e di investimenti tra quel continente e l'Unione Europea. Insomma, un'agenda futura di lavoro per Sinistra Ecologia e Libertà, che attraversa le proposte dei movimenti sociali e le esperienze delle sinistre progressiste nel continente, nel riconoscimento della necessità di nuove relazioni tra Unione Europea e continente Latinoamericano, ed anche tra Italia ed America Latina, che guardi ai beni comuni, al rafforzamento dei processi di democrazia reale, alla sicurezza umana, ai diritti di cittadinanza, la sovranità alimentare, la giustizia climatica, alla cooperazione ed all'altraeconomia come chiavi di volta per relazioni giuste tra i popoli.

venerdì 25 gennaio 2013

Neutralità attiva in Mali


Il Parlamento Italiano in questo stralcio di legislatura ha approvato definitivamente ed in tutta fretta il decreto sulle missioni all’estero, che tra l'altro riguarda la partecipazione italiana ad una serie di missioni europee, tra cui quella di addestramento delle truppe del Mali. E con altrettanta fretta ha approvato un decreto per la fornitura di sostegno logistico all'operazione “Serval”, lanciata nel frattempo in Mali dalla Francia in attesa dell'arrivo di un contingente panafricano dell'ECOWAS. In questo quadro, inizialmente era stato deciso che l'invio di una decina di addestratori italiani nel quadro della missione europea EUTM, per formare le truppe maliane nella loro campagna di riconquista del nord del Mali, in mano a milizie jihadiste e qaediste ed ai movimenti di liberazione dell'Azawad.

L'operazione “Serval” ha però ridefinito i termini del dibattito internazionale e delle modalità d'impegno del nostro Paese, che si vede coinvolto in una vicenda dai tratti incerti e dalle prospettive poco chiare in termini politici e strategici. Oggi in Mali la comunità internazionale si trova a fare i conti anche con gli effetti dell'intervento in Libia, con uno "spillover" dovuto all'affluenza di armi e miliziani nelle zone di frontiera. Una situazione complessa che richiede un approccio ampio, al di là dell’opzione militare, per riportare legalità, risolvere l'emergenza umanitaria, aprire, come anche raccomandato dalla risoluzione 2085 approvata a dicembre dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, la strada a percorsi negoziali tra le varie parti in causa e per la riforma delle istituzioni del Paese.

Vale la pena di ricordare che ad aprile 2013 erano previste elezioni politiche per provare a voltare pagina dopo mesi di instabilità, e di controllo più o meno diretto della vita politica da parte dei militari. L'intervento francese rischia così di allontanare la soluzione politica ad una situazione esplosiva in tutto il Paese, e non solo nel Nord occupato dalle varie formazioni jihadiste e quaediste oltre che dalle milizie tuareg. A Sud, a Bamako, il Mali è uno stato quasi inesistente dopo il colpo di Stato dei militari che più di recente, l’11 dicembre, hanno arrestato il primo ministro Diarra, a capo di un governo civile succeduto alla giunta militare, e che di seguito ha rassegnato le sue dimissioni. Cosa che apre un interrogativo sulla legittimità del governo maliano e sulla legittimità stessa della sua richiesta di aiuto militare esterno.

L’escalation impressa dall'intervento francese rischia così di complicare ancor di più le cose. La situazione in Mali e nel Sahel era da tempo diventata a rischio, e proprio per la sua complessità richiedeva un approccio ad ampio raggio, soprattutto politico come nei fatti declinato nel corso del dibattito svoltosi nel Consiglio di Sicurezza a dicembre, in occasione del quale più volte il Segretario Generale Ban Ki-moon aveva esortato a non far precipitare la situazione attraverso un intervento militare in tempi stretti. Invece con l’accelerazione dell’opzione militare impressa dal governo francese tutta la regione rischia di precipitare in una guerra senza frontiere, ed in un ulteriore compattamento del fronte qaedista e jihadista.

La Francia è entrata in Mali via terra ed aria, in un’avventura ad alto rischio, scavalcando l'Europa, e prendendo da sola l'iniziativa. Le stesse dichiarazioni di Hollande fanno capire che non esiste un termine chiaro per la fine dell’intervento legittimato da un’interpretazione “elastica” del mandato del Consiglio di Sicurezza che invece aveva autorizzato il sostegno ad una forza militare panafricana, che in realtà non è tuttora in grado di intervenire sul terreno. C’è più di qualcosa che non torna in tutta questa vicenda del Mali e nella posizione sviluppata in corso d'opera dal governo Monti. Da una parte il governo rassicura che non ci sarà intervento militare diretto, nessun “boots on the ground” ma solo la concessione di alcuni aerei da trasporto, magari l’uso di qualche base e di un aereo cisterna per rifornire in volo gli aerei da guerra francesi, oltre la decina di addestratori che partiranno nell’ambito della missione UE EUTM.

Per contro negli Stati Uniti si è aperta una serrata discussione sulla legittimità della richiesta di aiuto da parte del governo del Mali, un governo di fatto nelle mani di un gruppo di militari “golpisti”, nonché sull'opportunità di fornire supporto attraverso il rifornimento in volo, giacché l'amministrazione Obama non vuole dar l'impressione che gli Stati Uniti siano considerati “co-belligeranti” in quella che gli osservatori di Washington chiamano “Mission Creep”: definizione in corso d’opera della missione.

Hollande ha già lanciato una nuova modalità, quella dell’intervento unilaterale al quale far seguire la costruzione di una coalizione internazionale, e nel corso delle ore la natura e l’obiettivo stesso dell’intervento sono andate mutando. Da difesa della linea del fronte per tamponare l’avanzata delle armate qaediste verso Bamako, in attesa del contingente panafricano, ad aggressiva campagna di aria e terra. I rischi erano previsti: ritorsioni dei qaedisti a tutto campo - e puntuale è arrivato l’assalto ad un pozzo petrolifero algerino con un drammatico bilancio di vittime, e l’uccisione da parte delle milizie somale Al Shaabab della spia francese da tempo nelle loro mani. Eppoi le notizie di esecuzioni sommarie e crimini di guerra compiuti dall'esercito del Mali. E migliaia e migliaia di profughi - si parla di circa un milione entro i prossimi mesi, con crescenti rischi per le popolazioni civili prese nel mezzo. Eppoi la decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un'inchiesta sulle violazioni dei diritti umani e crimini di guerra compiuti nel Nord. Decisione doverosa ma che allo stesso tempo riapre un interrogativo che già aveva impegnato molti osservatori ed addetti ai lavori nel caso della Libia. Ovvero, quale relazione esiste tra giustizia e pace? Quali i rischi riguardo all'urgenza di assicurare percorsi negoziali per lo meno con alcune delle parti in conflitto? Giacché proprio attraverso il progressivo isolamento delle varie componenti dell'insurgenza nel Nord si potrà riuscire a creare le premesse per un'uscita "politica" alla crisi.

Allora in tutto questo scenario ormai improntato sull’opzione militare (avallata stavolta anche da Russia e Cina) invece di intervenire con i muscoli il nostro Paese farebbe bene a privilegiare un atteggiamento di “neutralità attiva” attraverso il sostegno ad iniziative regionali di dialogo, sostegno a una soluzione “africana” al conflitto, anche attraverso l'invio di istruttori militari nell'ambito di EUTM (che secondo quanto stabilito non saranno inviati in teatro di guerra), rafforzando il sostegno e gli aiuti umanitari ai profughi e contribuendo al Fondo Globale per il Sahel proposto dall’inviato speciale ONU per il Sahel Romano Prodi
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giovedì 24 gennaio 2013

Il petrolio sta bene dove sta, lasciateci in pace



La notizia pare passata in sordina sui media “mainstream” e per questo forse provoca in me ancor più rabbia. Qualche giorno si è verificata una fuoriuscita di almeno 1000 litri di petrolio da una piattaforma petrolifera fa al largo della costa abruzzese tra Vasto e Termoli, con grave minaccia agli ecosistemi del contiguo parco marino di Punta Aderci. Per anni quel mare ha accompagnato le mie memorie di adolescente, arrivare a Punta Penna pareva quasi un viaggio interminabile, dalle gialle sabbie di Vasto Marina, lungo la costa, fianco a fianco alla ferrovia, ed alle rocce. Alle spalle una campagna di ulivi, eppoi sempre più vicino il bianco faro del porto. Eppoi la spiaggia di Punta Aderci, dove ricordo i contadini che si portavano mezza casa al mare, le donne con i piedi nell'acqua. Eppoi quando più grandicelli, facevamo i frikkettoni, aspettando il calar del sole. La prima memoria dell'inquinamento e della irresponsabilità umana risale a quei tempi. Avrò avuto poco più di dieci anni. Erano giorni nei quali quando entravi in acqua ne uscivi coperto da una coltre oleosa verdastra e ti dovevi lavare con l'alcol. Qualche amico di mio padre commentava tra il sardonico e il rassegnato, "sce, e la SIV c'arrapert le rubinett" La SIV, Società Italiana Vetro di San Salvo, un colpo nell'occhio quando la vedevi dall'alto della Loggia Amblingh era allora il mito del progresso. Quella fortuna che centinaia di vastesi erano andati a cercare in Australia, Germania, all'Amereca, a lu Canadà. E Punta Penna pareva quasi un'oasi, seppur minacciata dalle piccole fabbrichette chimiche che sversavano liquami nauseabondi. Spostavi lo sguardo dalla SIV, e se la giornata era limpida vedevi pure il Gargano e le Tremiti. E le uniche strane architetture erano sghimbesci trabocchi lungo la linea della costa, il pontile che al centro della spiaggia di Vasto Marina pareva quasi formare uno spartiacque di classe, tra chi si poteva permettere lo stabilimento e chi poteva solo andare sulla spiaggia libera. Poi con gli anni iniziarono a comparire all'orizzonte strani castelli d'acciaio, sempre di più. L'ultima volta all'orizzonte di Punta Aderci pareva di vedere un castello di luci, con navi che gironzolavano attorno. Qualche settimana dopo mi sarei recato come ogni anno da qualche tempo a questa parte ad accompagnare le delegazioni dei popoli indigeni che seguono i negoziati delle Nazioni Unite sui Mutamenti Climatici. Per uno strano cortocircuito spazio-temporale i punti si ricollegano. I negoziati sul clima da anni stentano a concludersi con risultati di rilievo anche per la mancanza di volontà politica di sganciarsi definitivamente dalla dipendenza dai combustibili fossili ed avviare finalmente un piano globale di conversione ecologica dell'economia e dei cicli produttivi. Nel contempo grazie anche alle campagne ed iniziative dei movimenti sociali ed ambientalisti si è andata affermando una nuova narrazione che combina clima ed energia nei concetti chiave di debito ecologico e giustizia climatica. Concetti che prescindono da criteri puramente geografici, giacché in quelli che una volta erano chiamati il Nord del Mondo esistono ormai tanti nuovi Sud, fatti di sfruttamento intensivo di risorse scarse, di esternalizzazione dei costi sociali ed ambientali, di impunità. Mentre apprendo le notizie provenienti dalla mia terra ripercorro il testo di un libro appena finito di leggere. É uno splendido reportage giornalistico di Chris Hedges, corredato da splendide tavole di “graphic journalist” di Joe Sacco. Il titolo “Days of Destrucion, Days of Revolt” è un viaggio nelle viscere dell'America, in quei buchi neri del liberismo, dalle riserve indiane, alla Florida dove lavorano in nero migliaia di migranti latinos, alla città fantasma di Camden, fino alle montagne del West Virginia, ormai quasi scomparse sotto la dinamite per estrarre carbone. C'è però un capitolo che chiude il tutto, ed è quello della speranza nata a Zuccotti Park con il movimento occupy. Ecco quando leggiamo queste notizie allora, non dimentichiamo anche coloro che da tempo resistono a questo scempio, anche in Abruzzo. Conoscendo le mie ed i miei conterranei, l'amore che hanno per la loro terra, e la determinazione a difenderla, c'è da ben sperare. (post scriptum: come dicono i miei amici di Climate Justice Now!: “ “Keep the oil under the soil, keep the coal in the hole - lasciate perdere, quel petrolio e quel carbone stanno bene dove stanno, sottoterra. Lasciateci in pace”)

martedì 22 gennaio 2013

L'Eritrea siamo noi

Dall'Eritrea giungono informazioni sul fallimento del tentativo di colpo di stato da parte di un gruppo di soldati che ieri hanno preso il controllo del Ministero dell'Informazione all'Asmara. Chiedevano l'applicazione della Costituzione, la liberazione di decine di migliaia di prigionieri politici, l'insediamento di un governo di transizione dopo anni ed anni di spietata dittatura di Isaias Afeworki. Molti analisti dicono che è ormai solo questione di tempo, e che prima o poi il regime crollerà, Nel frattempo che ne sarà dei prigionieri politici? Che ne sarà di coloro che sfidando il deserto e le intemperie attraverseranno il Mediterraneo in cerca di miglior fortuna? E che ne sarà delle loro famiglie rimaste indietro? Le agenzie battono anche la notizia del crollo delle quotazioni di una multinazionale dell'oro che nonostante tutto ha deciso di operare in Eritrea. Mentre nel decreto missioni in via di approvazione alla Camera, compare un'oscuro trafiletto, nel quale si decide di concedere come dono al governo eritreo, materiale ferroviario in disuso. Un dono? Al regime di Afeworki? Con gli occhi tutti puntati sulla nuova guerra in Mali, il dibattito politico, già di per sè quasi inesistente, dimentica il Corno D'Africa, dimentica colpevolmente paesi quali l'Eritrea e l'Etiopia, la Somalia. E dire che qualche debito storico il nostro paese continua ad averlo. Basta guardare negli occhi i rifugiati o richiedenti asilo negli atri della Stazione Termini qua a Roma. Quelli di chi ce l'ha fatta.

giovedì 10 gennaio 2013

Missioni militari: Afghanistan ultima stazione prima del ritiro?




In questi giorni al Senato si è iniziato a discutere il decreto sulle missioni all'estero, che proroga le missioni esistenti a settembre 2013, e introduce altri impegni dell'Italia quali la partecipazione ad una missione europea di addestramento di truppe del Mali nella loro campagna militare contro Al Qaeda nel nord del paese. Una situazione complessa che richiede un approccio ampio, al di là dell'opzione militare, per riportare legalità e rafforzare l'assetto politico del paese spaccato in due: a Nord l'insurgenza jihadista, e quella di movimenti tuareg ormai sganciati da quaedisti. A sud uno stato quasi inesistente dopo il colpo di Stato dei militari che più di recente l'11 dicembre hanno arrestato il primo ministro Diarra, a capo di un governo civile succeduto alla giunta militare, e che di seguito ha rassegnato le sue dimissioni. Mentre le agenzie di stampa battono in questi giorni notizie sui successi della campagna dell'esercito maliano nel nord del paese e l'annuncio dell'intervento militare francese via terra e via aria, con l'avallo dell'ONU e dell'Unione Europea. Un'escalation che rischia di complicare ancor di più le cose, vista anche l'accelerazione che verrà impressa all'invio degli addestratori italiani a Bamako. Eppoi la partecipazione italiana ad altre missioni europee nella stessa area ormai diventata una zona calda, instabile, non solo dal punto di vista militare ma anche per l'avanzamento della povertà e dell'esclusione. Ed anche zona prioritaria per i programmi di Africom.

Di questo avranno occasione, tempo e capacità di discutere in Parlamento? O come sempre si avallerà senza un'analisi accurata di ogni pro e contra qualsiasi cosa venga proposta dal Ministero della Difesa e dalla Farnesina? Risalta nelle stesse ore un articolo su l'Unità, che richiamando l'opzione zero attualmente al vaglio dell'amministrazione Obama (il ritiro totale di tutte le truppe USA entro il 2014) invita il governo italiano a accelerare il ritiro delle truppe italiane entro il 2013 e ad impegnarsi per un capovolgimento integrale delle priorità di finanziamento a favore della cooperazione civile. Esempi al riguardo ce ne sono, non si deve reinventare la ruota. Ma a Camere ormai sciolte, con i parlamentari presi dalle loro campagne elettorali, o dall'urgenza di trovare altra collocazione, c'è poco da sperare.

Però il Parlamento un segnale netto di inversione di tendenza dovrebbe darlo, iniziando a chiedere precise cronologie per il ritiro dei militari entro il 2013, un aumento sostanziale dei fondi per la cooperazione sganciati e detratti da quelli per la missione militare, e chiedendo che fin d'ora i militari presenti in Afghanistan rientrino nelle loro basi (quelle che non hanno ancora lasciato) e non si impegnino più in operazioni militari. Eppoi, risulta che l'Italia dovrà addestrare forze di polizia afgane. Se proprio devono restare, che vengano addestrate alla tutela dei diritti umani, e la mediazione ed interposizione nonviolenta per la gestione dell'ordine pubblico, E non per potersi un giorno spostarsi in zone di guerra. E last but not least, che si presenti una "spending review" di tutte le spese sostenute finora in Afghanistan.

E ci si dica anche cosa sia quel materiale ferroviario in disuso che verrà regalato al governo eritreo – un regalino nascosto tra le righe del decreto. A parte che quel governo non merita regali anzi, siamo certi che sia un regalo e non una polpetta avvelenata? Magari da scorie tossiche? Noi le idee le abbiamo chiare: Sinistra Ecologia e Libertà porterà un programma di governo sulla gestione e la prevenzione diplomatica e nonviolenta dei conflitti, la pace ed il disarmo, che passa attraverso un'analisi critica delle tematiche connesse all'ingerenza umanitaria, al sostegno ai corpi civili di pace, alla riduzione delle spese militari, la cancellazione del programma F35.E dal ritiro delle truppe dall'Afghanistan prima della scadenza naturale del 2014.